martedì 12 maggio 2015

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Per Colin Crouch, che ne ha coniato il termine, la postdemocrazia è una democrazia formale svuotata in modo rilevante di quanto in partecipazione, rappresentanza e decisione è sottratto ai cittadini da oligarchie di burocrati, tecnocrati, lobbisti, attori dell’alta finanza, potentati economici multinazionali, organismi intergovernativi e operatori nel campo dell’informazione. E i giudici? Non ne fa cenno, neanche di striscio. Cosa pensare, dunque, di chi segnala il rischio di postdemocrazia nella sentenza della Consulta che boccia come incostituzionale il taglio delle indicizzazioni delle pensioni incluso nel decreto cosiddetto Salva-Italia del governo Monti? È una sentenza – dice – che causa uno «svuotamento dell’autonomia di decisione dei governi democratici che ha indotto alcuni a parlare di postdemocrazia». E chi, di grazia? D’altronde, come avrebbe potuto parlarne, se non impropriamente, visto che con postdemocrazia non si intende affatto uno svuotamento dell’autonomia dei governi, ma delle prerogative che una democrazia sostanziale assegna ai cittadini? «Non c’è praticamente giorno – dice – in cui non compaia qualche nuova notizia a ricordarci come molte decisioni politiche a livello nazionale o locale dipendano dalle pronunce di un tribunale amministrativo, civile, penale, oppure, come nel caso che occupa le cronache di questi giorni, della Corte costituzionale». E sarà che il ceto politico non sa prendere decisioni che non cozzino con le leggi dello Stato, sicché accade che le infrangano: i tribunali dovrebbero lasciar correre? Dove sarebbe il rischio per la democrazia sostanziale, se la giustizia si limita a dichiarare illegittime le decisioni del ceto politico che riesce a dimostrare illegittime? Il rischio – dice – sarebbe la «giuridicizzazione della politica». Ma a limitare il vaglio di legalità che i tribunali operano sulle decisioni del ceto politico non si avrebbe di converso una politicizzazione del diritto? E qual è il rischio maggiore?

Poi uno smette di leggere e pensa. Pensa che in Italia non cè mai stata una vera borghesia, ma solo un ceto quanto mai pleomorfo di pezzenti più o meno arricchiti, per lo più incolti e felloni, senzaltra preoccupazione che cavalcare londa, ma mai troppo vicino alla sua cresta, per non finirne sotto al suo schiantarsi. Pensa che della stessa pasta è anche chi scrive sul giornale di questa borghesia. Giornale che ad ogni onda cambia il direttore, come di tanto in tanto certi animali a sangue freddo cambiano pelle, ed ora ne ha uno nuovo, perché londa renziana monta e non è il caso di farsi trovare impreparati. È la stagione che celebra il ritorno delluomo forte e, finché dura, in Via Solferino si suonerà la musica che Renzi vuol sentire, sennò si incazza e manda un sms risentito. E allora gli si suona la musica che vuol sentire.

Emmanuel Carrère, Il Regno, Adelphi 2015


Nel 1990 fu toccato dalla fede, ma durò solo tre anni. In quei tre anni, su una ventina di quaderni, stese un commentario degli Atti degli Apostoli. A due decenni di distanza rimette mano al materiale per un’indagine sul cristianesimo primitivo. Non si capisce se per alleggerirla o appesantirla, ci infila moglie, madrina, psicoanalista, baby-sitter, Philip Dick, un video porno amatoriale e soprattutto molto, troppo, di se stesso. Difetto tutto francese, quello di dipingere pure sulla cornice. Poco male, perché il libro, liberato dall’inutile, resta una discreta opera divulgativa che ai pigri risparmia il Theissen, il Lortz, il Vögtle... Scrittura agile, due o tre brillanti osservazioni che rivelano una discreta capacità di cogliere la psiche del I secolo, una leggera inclinazione alla ruffianeria verso il lettore che tuttavia più che irritare intenerisce. Insomma, vale la pena di leggerlo.

domenica 10 maggio 2015

Un po’ mi pento

Un po mi pento del post qui sotto, ma ormai è fatta, mi serva da lezione per le volte – rare, in verità – che cedo alla tentazione di ritenere in buona fede un uomo di merda. Nel post qui sotto ipotizzavo che, nellaffermare che «la differenza di mortalità tra chi la fa e chi non si sottopone alla mammografia ogni due anni è di due su mille», Grillo riproducesse – con colpa, certo, ma non necessariamente con dolo – l’errore commesso da Gotzsche e Olsen in uno studio apparso su Lancet nel gennaio del 2000, errore già ampiamente dimostrato tale, da subito, e tuttavia di tanto in tanto riproposto da qualche autore, anche se non più in là del 2006, per essere regolarmente e tempestivamente segnalato come un granchio di analisi statistica. Ipotizzavo che la questione potesse essere risolta scendendo nel merito, chiedendo a Grillo da quale fonte avesse attinto per uscirsene con quella cazzata, per dimostrargli che si trattava di un farlocco, che per giunta aveva pure digerito male, rivomitandolo nel modo più osceno. Bene, sbagliavo. Che Grillo sia in patente malafede è dimostrato dalla rettifica che segue ad appena dodici ore: «Non penso che la mammografia non sia utile o necessaria. Anzi penso che sia utilissima. Ce l’avevo con la cattiva informazione che fa credere che facendo questo esame non venga il tumore». Dodici ore fa ne salvava solo «due su mille», ora è «utilissima»? Non ammetti che hai detto una stronzata, nemmeno citi la fonte dalla quale l’hai pescata per tentare di strappare un’attenuante, e che fai, rivolti la frittata? E poi dove l’hai letto che la mammografia è spacciata come un vaccino antineoplastico invece che essere consigliata come indagine diagnostica? No, non meriti nemmeno di essere corretto: meriti solo fumanti palle di letame.  

Is screening for breast cancer with mammography justifiable?

Ho provato a cercarlo, volevo passarlo allo scanner e metterlo qui sopra, ma chissà dove si sarà ficcato, insomma, non lho trovato. Parlo di un articolo che fu pubblicato su Il Mattino – non so essere più preciso – negli ultimi mesi del 2000, tuttal più nei primi del 2001. Era su tre o quattro colonne, e il titolo diceva pressappoco: «Uno studio rivela che la mammografia è inutile». Nel testo si parlava del lavoro di Peter Gotzsche e Ole Olsen che era uscito qualche mese prima su Lancet (Is screening for breast cancer with mammography justifiable? – 355/2000, pagg. 129-134) e che presto aveva sollevato una furibonda polemica sulla sua perentoria affermazione conclusiva che «screening for breast cancer with mammography is unjustified». In realtà, già su quello stesso numero di Lancet, nella sezione dei commenti editoriali, Harry de Koning spiegava con lodevole chiarezza – per quanto possa esser chiara una controargomentazione in ambito statistico – perché il lavoro fosse viziato da un metodo scorretto e da una errata interpretazione dei dati. Il guaio è che lo faceva in modo estremamente civile, sicché la critica, ineccepibile nei contenuti, parve sofficissima. Di fatto, le contestazioni che negli anni successivi sono state mosse da gran parte del mondo scientifico a chiunque riproducesse analoghi difetti di metodo e di analisi per arrivare a conclusioni sostanzialmente simili a quelle di Gotzsche e Olsen (uno per tutti: Anthony Miller, Is mammography screening for breast cancer really not justifiable?, Recent Results in Cancer Research, 163/2003, 115-128) erano già tutte nelle obiezioni di de Koning. La realtà è che lo screening torna di estrema utilità, e con un abbattimento della mortalità che varia dal 30 al 63% secondo la popolazione presa in oggetto per fascia di età. Purtuttavia sembra che a chi voglia mettere in discussione un dato indiscutibile e per giunta con argomenti ormai ampiamente destituiti di ogni fondamento – è il caso del Il Mattino, quindici anni fa, e di Grillo, ieri – non manchi mai lopportunità di farsi sentire, persino di farsi ascoltare, coi danni che non è difficile immaginare. È che, per sua natura, la bufala ha radici profonde e robuste, non la si estirpa senza scavare fino in fondo. Invece di urlare a Grillo che è uno sconsiderato  sulla qual cosa non c’è dubbio, ma dirglielo non risolve niente  gli si chieda la fonte dalla quale ha attinto, gli si chieda di difenderne l’attendibilità a fronte di ciò che la confuta senza possibilità di appello.

sabato 9 maggio 2015

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«Con lItalicum adesso Cameron dovrebbe andare al ballottaggio», saffretta a far presente Renzi, e questo dà ennesima conferma di quanto sia cazzaro, perché nel Regno Unito cè il maggioritario e il bicameralismo, e già questo rende impossibile ogni paragone con lItalia, tacendo della separazione tra il potere esecutivo e quello legislativo che lì è assicurata da secoli e che qui di fatto con lItalicum andrà a farsi fottere. 

venerdì 8 maggio 2015

Soft o, se preferite, light

Per quanto il tempo possa cambiare anche profondamente il significato che un termine ebbe in origine, nel suo significante resta immutata, anche se solo in parte, e a volte esigua, levocazione a ciò che il tempo ha tradito. Così è col termine partito, che non bisogna affaticarsi troppo per capire tragga il significante dalla parte di un tutto, e che nellespressione partito della nazione tradisce il suo significato originario per l’accostamento di un termine che gli è antitetico, nella costruzione di un ossimoro, cioè di una figura retorica che ha fine eminentemente esornativo e provocatorio. Nel porci la questione di cosa possa significare partito della nazione, dunque, occorre chiederci quale sia loggetto col quale si vorrebbe destare in noi la meraviglia per una sintesi che la logica ci dice impossibile, e a quale abbellimento è sottoposto per convincerci sia sintesi felice. Non possiamo far altro che analizzare i cambiamenti che il tempo ha prodotto a carico di due significanti come partito e nazione.
Cè stato un arco storico relativamente ampio – diciamo dalla metà del Settecento alla metà del Novecento – nel quale al termine partito non si è più dato il significato prevalentemente negativo di fazione che aveva prima e che ha riacquistato dopo. Col venir meno di una visione organicistica della società, infatti, si è smesso di avvertire come deleteri i contrasti che impegnano le fazioni avverse presenti in essa, anzi, si è cominciato a sentirli come fisiologici, fino ad arrivare a considerarli un vero e proprio motore di democrazia e di progresso. È la stagione storica, questa, che vede il trionfo del principio maggioritario, che ai partiti assegna il ruolo di competitori per la guida di una nazione, riconoscendo ad essi la legittimità di rappresentare i molteplici e contrapposti interessi che accomunano differenti gruppi di individui. È per questo che la struttura del partito riproduce giocoforza quella di un esercito, ma qui il fine è la conquista della maggioranza dei consensi, grazie alla quale è assicurato il ruolo di governo, mentre a chi esce perdente dalla competizione è assegnato il ruolo dellopposizione, alla quale viene riconosciuto e assicurato il diritto di ribaltare gli esiti della battaglia persa col libero esercizio della persuasione sullopinione pubblica.
Per il ruolo che una fazione viene così ad assumere in questo contesto, il fatto che un partito possa restare associazione privata, senza personalità giuridica, e nel contempo avere il monopolio della funzione pubblica che attraverso le elezioni esprime la guida del governo, è premessa ad ogni deviazione del sistema partitico delle cosiddette democrazie di massa in forme di parassitamento e abuso della funzione di rappresentanza, e di queste deviazioni ne abbiamo un lungo elenco, che qui non sarà il caso di ristendere: per rispondere alla domanda che ci siamo posti – cosa cè dietro la sintesi impossibile che ci è spacciata con l’ossimoro di un partito della nazione? – basterà citare solo la trasformazione della leadership in proprietà di fatto dell’organizzazione, della dirigenza in comitato elettorale, della militanza in mero catalizzatore di clientela e fidelizzazione, dell’elettorato in platea di consumatori di un prodotto mediatico.
La sintesi impossibile offerta da un partito della nazione, dunque, si inscrive in tale contesto come proposta di una sospensione di ogni conflitto sociale, assicurata dalla meraviglia di un ossimoro che in realtà è una metonimia: la parte pretende di essere il tutto, di poterlo interamente rappresentare in modo organicistico, con la coincidenza di leader in partito, di partito in nazione e di nazione in stato. Probabilmente la pace sociale avrà la forma di un nuovo corporativismo. Possiamo anche evitare di chiamarlo fascismo, così ci evitiamo le sarcastiche punture delle piattole che pullulano nelle sue più comode pieghe, ma il progetto è quello della sospensione delle più elementari dinamiche democratiche, surrogandone le cinetiche col cliccare un like alle parole d’ordine lanciate on line dal leader del Partito della Nazione. È il progetto di un totalitarismo che si offre soft o, se preferite, light. Ma è totalitarismo.

@MinghiA

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Visto che già da qualche tempo va prendendo piede luso del termine renzismo, credo non sia affatto superfluo cercare di darne una definizione sul piano lessicale, sicché al netto di ogni giudizio in merito si possa concordemente convenire su cosa esattamente sia. Ora, se per definizione è da intendersi lindividuazione e lillustrazione delle proprietà essenziali che danno piena ragione della relazione funzionale tra significante e significato, che poi sarebbe la definizione di definizione che più compiutamente dà conto di ontologia, logica e linguaggio, il nostro tentativo non può procedere che dal decidere in quale categoria di termini che sfruttano il suffisso -ismo sia più opportuno collocare il renzismo. Con l-ismo, in questo caso, saremmo dinanzi a una dottrina? Penso si debba escluderlo. Nulla, infatti, nel renzismo rimanda ad un organico sistema di principi, anzi, direi che in questo caso ne sia esplicito il rigetto, per la rigidità che sempre caratterizza un simile costrutto. Il renzismo, infatti, rivendica con orgoglio il rifiuto della dimensione ideologica, e dunque è quanto mai distante da qualsivoglia impianto di tipo dottrinario, in favore, al contrario, di un insieme di assunti valoriali – chiamarli principi sarebbe improprio – così eclettico, mobile e disarticolato da rendere del tutto vana la ricerca di un criterio che dia ad essi una struttura sistematica. E allora, se non è una dottrina, cosè il renzismo? In quale categoria di termini che sfruttano il suffisso -ismo è da porre? Direi non abbia a trovar posto nella categoria di termini che indicano movimenti religiosi, filosofici, letterari, artistici, tanto meno in quella che include fenomeni fisici, funzioni organiche, processi naturali, ecc. Rimangono solo due categorie, ma entrambe molto eterogenee, per giunta con unampia area di intersezione. Anticipo fin dora che a mio modesto avviso il renzismo si situi proprio in questo sottoinsieme comune alle due categorie di termini che ancora non abbiamo preso in considerazione, e cioè a quella che include fenomeni sociali – dunque anche politici, seppur nellaccezione più ampia del termine – e a quella nella quale troviamo tutto lampio spettro delle configurazioni caratteriali che sono oggetto della riflessione morale e di quella psicologica. A scanso di equivoci, però, è bene precisare che quando la politica rigetta la dimensione ideologica – e questo, come abbiamo già detto, è il caso del renzismo – accade giocoforza che sia portata a dare notevole risalto ai tratti della narrazione individuale o collettiva che va a surrogarne lelemento identitario, indispensabile a darle una cifra che serva a farla riconoscere, e questo, di regola, implica la fondazione di uno statuto etico-estetico, il quale, a differenza di una Weltanschauung, non è tenuto a darsi una logica di sistema. Ne consegue che l-ismo perderà, allo stesso tempo, sia ciò che conferisce peculiarità di connotazione sul piano della teoria politica, sia ciò che consente lindividuazione descrittiva di un profilo morale o psicologico. Con ciò siamo nellarea di intersezione cui facevo cenno prima, e il renzismo vi si inscrive a pieno titolo proprio in virtù di questa doppia perdita: patente inclinazione a esplicitarsi tutto nei mezzi piuttosto che nei fini, con ciò esaurendo in mera postura tattica una ambivalente, quando non ambigua, contraddittoria e perfino confusa, posizione politica; ipertrofia del carattere in maschera, con ciò che ne consegue in fissità e regressione della configurazione morale o psichica del modello che si accredita.

giovedì 7 maggio 2015

Robe incredibili

Certo, chi gestisce il traffico dei migranti nel Mediterraneo li stipa su barconi più o meno come nei secoli passati i negrieri stipavano sulle loro navi i disgraziati che deportavano dallAfrica per venderli come schiavi ai proprietari delle piantagioni di cotone in Alabama, ma usare il termine «schiavismo» per definire il fenomeno delle migrazioni è manifestamente improprio, perché lo schiavo era strappato a forza dalla terra dovera nato, mentre il migrante fa di tutto per abbandonarla, e per necessità, senza dimenticare poi che lo schiavo era merce di scambio tra un venditore e un acquirente, mentre nel caso del migrante è lui che paga, e per un posto a bordo del natante. Definire «schiavismo» il trattamento cui sono sottoposti i migranti che dalle coste dellAfrica settentrionale arrivano in Italia, insomma, è una stronzata.
Per meglio dire, lo era fino a ieri. Oggi un ministro dichiara di avere in testa lideuzza di emanare una circolare che autorizzi i comuni cui sono destinati i migranti che arrivano in Italia a farli lavorare, ma a gratis. Siamo dinanzi a un bellesempio di ribaltamento della logica piana: visto che il termine «schiavismo» è improprio a definire la condizione dei migranti, non lo si evita, ma si trasformano i migranti in schiavi. Un po come se a me scappasse di dire – sia chiaro che è un’ipotetica del terzo tipo, non mi permetterei mai nei confronti di un ministro – che un’idea del genere è da vero stronzo, e non avessi neanche il tempo di dirmi mortificato e di chiedere umilmente scusa perché subitamente il ministro mi diventa approssimativamente cilindrico e sostanzialmente marrone. Robe incredibili. 

mercoledì 6 maggio 2015

Avrà tanti limiti, Civati

Con una legge elettorale come l’Italicum mi ero riproposto di saltare il primo turno, per limitarmi a votare solo in caso di ballottaggio, e in quel caso per votare chiunque sulla scheda mi sarei trovato opposto a Matteo Renzi, anche un Beppe Grillo, anche un Matteo Salvini, anche un Silvio Berlusconi. Intenzioni che almeno in parte mi sento costretto da subito a rivedere per la decisione annunciata oggi da Pippo Civati: al primo turno voterò lui, in qualsiasi lista sarà candidato, qualunque sia il suo programma elettorale. Lo voterò perché la decisione di lasciare il gruppo parlamentare del Pd e le motivazioni che accompagnano questo passo conferiscono alla sua persona, seppur retrospettivamente, dimensioni eccezionali in tutta la storiaccia che si è conclusa con l’approvazione dell’Italicum, e so che può sembrare esagerato, ma si tenga conto che il livello medio della dignità morale e politica espressa dai parlamentari del Pd è stato pressappoco allaltezza di un Gennaro Migliore. Non farò mistero del fatto che dargli il mio voto servirà pure, e in buona misura, a risarcirlo di un’opinione non del tutto benevola che mi ero fatto sul suo conto: significa pure saldare un debito. Avrà tanti limiti, Civati, ma da oggi, almeno ai miei occhi, ha acquistato un merito enorme.  

Sull’analogia

Opinioni che potremmo stringare in formule del tipo «quella di Carminati è (o non è) mafia» o «quello di Renzi è (o non è) fascismo» sollevano sul piano retorico la questione delluso proprio (o improprio) dellanalogia. A tal riguardo, comè buona regola in ogni controversia, occorre chiarire la natura e la funzione di ciò che è in discussione, rammentando che nel discorso lanalogia «differisce dalla proporzione puramente matematica, in quanto non pone luguaglianza di due rapporti, ma afferma una somiglianza di rapporti, [sicché] mentre in algebra si pone a/b=c/d, [e] ciò consente di affermare per simmetria che c/d=a/b e di effettuare su questi termini operazioni matematiche che daranno luogo ad equazioni come ad-cb = 0, nellanalogia si afferma che a sta a b” come “c” sta a “d”, [e] dunque non si tratta più di una divisione, ma di un rapporto che viene assimilato ad un altro rapporto, [di modo che] fra la coppia “a-b” (il tema dell’analogia) e la coppia “c-d” (il foro dell’analogia) non si afferma un’uguaglianza simmetrica, ma un’assimilazione che ha per fine quello di chiarire, strutturare e valutare il tema grazie a ciò che si sa del foro» (Chaїm Perelman, Lempire rhétorique. Rhétorique et argumentation, 1977).
Posta questa premessa, dovrebbero cadere le obiezioni che contestano le legittimità dellanalogia nei casi sopra presi a esempio con controargomentazioni che potremmo stringare in formule del tipo «gli uomini di Carminati non avevano coppola e lupara» o «Renzi non ha squadracce che scorrazzano in lungo e in largo per lItalia con olio di ricino e manganello»: tema e foro non stanno in relazione di uguaglianza, ma di proporzione, la quale, dunque, non cade dinanzi allovvia constatazione che nulla somigli mai del tutto a nullaltro, non fossaltro perché nulla somiglia mai del tutto neppure a se stesso nel corso del suo divenire, come d’altronde è nel caso della mafia e nel caso del fascismo.
Lanalogia – sarà il caso di dirlo in modo esplicito – non pretende che sia attestata una peraltro sempre impossibile coincidenza, ma che sia riconosciuta quella serie di elementi che realizzino una puntuale relazione tra tema e foro, conservando per ciascuno una congrua proporzione. L’analogia, insomma, cade solo con la dimostrazione che questo tipo di relazione non abbia sostegno, non già che non sia in grado di comprovare una perfetta coincidenza tra tema e foro. Rigettando la liceità della naturale funzione che l’analogia ha nel discorso, si dimostra di temerne lefficacia. E il tentativo di delegittimarla come strumento improprio rivela lincapacità di contestarne l’uso che una corretta argomentazione non le preclude. 

martedì 5 maggio 2015

L’unica via

Dieci anni fa, di questi tempi, infuriava la battaglia sulla legge 40... Ok, «infuriava la battaglia» è bassa retorica, correggo subito...
Dieci anni fa, di questi tempi, mancavano pochi giorni al referendum sulla legge 40, e da un lato c’era chi voleva ne fossero abrogati almeno i punti che la rendevano tra le più stronze e crudeli della storia repubblicana, sgolandosi ad urlare dello scempio che infliggeva al buonsenso e alla Costituzione, mentre dall’altro c’era chi laveva voluta e, con assai miglior polso del paese, sapendo bene che da un popolo di merda il consenso non si ottiene invocando la logica e in nome dei principi, anzi, puntò sul vincere la partita senza combatterla nemmeno, sommando cinismo e strafottenza, per impedire che si raggiungesse il quorum. Sappiamo come andò: il quorum non fu raggiunto, la legge restò in vigore, e tutti, o quasi, a cantar lodi al cardinal Ruini, gran figlio di puttana, e perciò politico sopraffino. Sappiamo pure che fine ha fatto, in questi anni, la legge 40: smontata pezzo a pezzo da una dozzina di sentenze della Cassazione, ne resta in piedi solo il poco che sta a memoria della feroce idiozia che le diede vita.
Ma forse pure raccontarla a questo modo vuol dire far dellepica dove non c’è che cronaca. Andrebbe raccontata senza metterci passione, come l’apologo di una delle tante leggi che si scoprono essere incostituzionali solo dopo aver causato danni incalcolabili.
Leggi approvate nell’indifferenza pressoché generale dell’opinione pubblica, che rimane indifferente anche quando è chiamata a esprimere un parere su di esse. Come è stato col Porcellum, no? Anche in quel caso il referendum non interessò più di tanto, anche in quel caso s’è dovuto aspettare una sentenza che lo dichiarasse incostituzionale.
Non c’è dubbio che così sarà anche per l’Italicum, la cui approvazione, oggi, incorona Renzi come gran figlio di puttana, e perciò politico sopraffino. Lo schema – il solito – si ripropone: un mascalzone scrive una legge a cazzo di cane, una maggioranza parlamentare di insulse comparse lapprova, una corte di ruffiani leva al cielo losanna per cotanta vis legislativa, le opposizioni bestemmiano e raccolgono firme per abrogare lobbrobrio, mentre il resto del paese se ne fotte, perché «capolista bloccato» è termine incomprensibile almeno quanto «ovocita fecondato».
Per carità di Dio, raccoglietele, ste firme, ché val la pena spendersi pure per le guerre perse in partenza. Ma non sperate troppo in quella che chiamate «gente», perché ormai da tempo è plebe. Appena sarà pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale, sottoponete lItalicum alla Corte Costituzionale: lunica via è quella.

lunedì 4 maggio 2015

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Quando non trattato, lipotiroidismo congenito porta inevitabilmente a gravi forme di ritardo mentale. È una patetica arrampicata sugli specchi, dunque, concedere che cretino derivi da cristiano (fr. chrétiencrétin), ma obiettare che in origine non venisse usato, come oggi accade, per indicare un individuo di scarsa intelligenza, ma una persona affetta da cretinismo, termine che fino a qualche decennio fa era usato proprio per definire il quadro clinico dellipotiroidismo congenito non trattato. A conferma, tuttavia, che cretino e cristiano indichino una consimile condizione di deficit mentale cè quella nota acquiescenza del cretino alle derive autoritarie che nel cristiano trova ragione nel «non cè autorità se non da Dio» (Rm 13, 1). Certo, Paolo lavrà detto per dare unaria inoffensiva ai suoi e per strappare un po di tolleranza a Nerone, fatto sta che il monito a sottomettersi allautorità, perché chi vi si oppone «si oppone allordine stabilito da Dio» (Rm 13, 2), tornò utile dopo il patto stretto tra trono e altare, sicché potremmo dire che da chrétien si passa a crétin quando lacquiescenza a questo o quel tiranno perde la funzione di trasporre lintesa tra Stato e Chiesa nella coincidenza di obbedienza nel suddito e nel fedele, per diventare il riflesso condizionato che porta a vedere in ogni dittatore un Uomo della Provvidenza. Quando questo passaggio si è compiuto, non ha più alcuna rilevanza che il cretino sia anche cristiano, perché sarà acquiescente alla dittatura anche in quei rari casi in cui la Chiesa non vi avrà stretto un concordato, e tuttavia in lui resta ladorazione della forza come manifestazione del divino. Il lungo ragionare per venticinque secoli su come la forza si legittimi in potere, e su come il potere si legittimi in autorità, non gli appartiene: ogni ipertiroideo gli sembra Dio.

domenica 3 maggio 2015

sabato 2 maggio 2015

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Lidea di cambiare il «siam pronti alla morte» dellInno di Mameli con un «siam pronti alla vita» è duna imbecillità che sapparenta a quella di mettere la lancetta dei minuti all’orologio di Palazzo Vecchio (ricordate?), dunque è probabile che lItalia renziana ladotterà in via definitiva. Resta la questione della rima con «stringiamci a coorte», che così salta, ma, se tanto mi dà tanto, probabilmente si provvederà con un «partiam per la gita» o un «la cena è servita».

venerdì 1 maggio 2015

L’uovo del serpente

Più o meno un anno e mezzo fa ho scritto che sarebbe «buona norma, quando si polemizza, essere onesti con gli altrui argomenti e usare toni garbati», ma che purtroppo questo «non sempre è possibile», perché «spesso fallacia chiama fallacia, sarcasmo chiama sarcasmo, e qualche volta la polemica degenera in rissa», sicché, «quando voglio evitare che questo accada, e tuttavia sento irrinunciabile la polemica avverso una tesi che ritengo insostenibile», ho l’abitudine di «prendere in considerazione solo gli argomenti che in sostegno di quella tesi sono prodotti da persona di riprovata onestà intellettuale e d’indole affabile». Eccomi, dunque, a prendere in considerazione gli argomenti che Formamentis ritiene destituiscano di fondamento la mia convinzione che Matteo Renzi costituisca un grave pericolo per la democrazia, non prima però di confessare di essere lieto che Formamentis abbia voluto che questo scambio di opinioni sia pubblico, per darmi modo di ricalibrare meglio il giudizio estremamente duro che ho espresso su chi la pensa come lui, e che mi ha procurato alcuni severi rimproveri. Qualche giorno fa, infatti, ho scritto che considero un «fiancheggiatore» di Matteo Renzi chiunque minimizzi la gravità delle sue scelleratezze, soprattutto poi se col sarcasmo nei confronti di chi le ritenga articolate in un processo di deriva autoritaria teso a fare della democrazia formale un guscio vuoto di ogni sostanza, né sono riuscito a trovare attenuanti alla buona fede che concedevo possa pure motivare questa complicità di fatto, perché lho definita, seppur con sofficissime perifrasi, da fessi: quei fessi che non sono mai mancati a sottovalutare i prodromi di ogni catastrofe, pensando che bastasse toccarsi le palle per scongiurare i pericoli segnalati da una Cassandra.
Bene, per affrontare la questione, Formamentis è l’interlocutore ideale. Tutto è meno che fesso. Sa polemizzare senza incorrere in scorrettezze. Nel post col quale mi interpella, poi, quasi a far presente che non ha alcuna intenzione di cedere al sarcasmo, propone che la discussione abbia uno scanzonato registro ironico e autoironico. Infatti attacca così: «Ne discutevo oggi con Luigi: stiamo scivolando verso una dittatura mascherata, finiremo come la Bielorussia? Questo non credo». «Questo non credo»: nelluso di una frase che evoca il Razzi di Crozza vedo l’invito a toni leggeri, che accetto con piacere. E dunque: (1) «che ci sia in questo momento una posizione dominante di Renzi è evidente, ma questo principalmente per la pochezza degli avversari»; (2) «quella di Renzi non la vedo come unegemonia tale da impedire la riorganizzazione e la futura affermazione dellavversario, [...] ma a questa alternativa si dovrà pur dare il tempo di riorganizzarsi»; (3) «io penso che la democrazia oggi si trovi svuotata non tanto da Renzi quanto dalle stringenti necessità del sistema economico e finanziario con le quali si trova a fare i conti»; (4) «mi piacerebbe capire cosè democrazia per Luigi: quando possiamo sostanzialmente esserne certi, quando da forma ridiventa sostanza». Temo che lultimo punto mi prenderà un po di tempo, ma per i primi tre credo si possa fare in fretta.
E dico subito che sono d’accordo: al momento, Renzi non ha avversari in grado di opporglisi efficacemente. Daccordo, ma questo in cosa costituirebbe argomento ad escludere che la sua forza possa essere impiegata per renderne irreversibile la preponderanza? Se io sono fisicamente assai più forte di Formamentis, questo renderà possibile o meno che io lo massacri di botte, tuttè vedere se lo faccio, se minaccio di farlo o se semplicemente abuso della possibilità di farlo per impedirgli in qualche modo di acquistare forza pari o superiore alla mia. È sulle azioni di Renzi, dunque, che va valutato luso che egli intenda fare della sua forza e a me pare che nel metodo e nel merito sia indiscutibile che le intenzioni non siano delle migliori. Larmamentario caratteriale, attitudinale e comportamentale è quello del despota cinico, spregiudicato, vendicativo, smisuratamente ambizioso, con una irrefrenabile smania di accentramento del potere nella sua persona, cui non manca neanche uno dei tratti che sono distintivi della personalità pesantemente disturbata dalle caratteristiche pulsioni del mentitore abituale, del manipolatore, del narcisista, del sadico, che costituiscono la configurazione psicopatologica costante in ogni dittatore. Se posso esprimermi con unimmagine, direi che Renzi sia luovo del serpente. Posso concordare anche sul fatto che a covarlo possano essere state le circostanze storiche – certo, accade così per ogni tiranno, non è che dipenda dal segno zodiacale – ma questo in cosa lo rende meno pericoloso? Dovremmo trattarlo da epifenomeno e tollerarlo come sintomo di un febbrone che deve fare il suo naturale decorso? Non escludo che qualcuno possa obiettare che le suddette caratteristiche siano in vario grado riscontrabili in ogni professionista della politica e in ogni amministratore della cosa pubblica, per cui trovarle così marcatamente rappresentate in Renzi sarebbe prova delleccezionalità di doti che sono necessarie e intrinseche al ruolo. Bene, penso che questo sia il sintomo più grave della malattia sociale che per prognosi si dà lo stato organico, la coincidenza tra partito e stato, la proiezione di una nazione in un solo uomo. Più che Renzi, disprezzo chi lo ammira come politico. E il disprezzo diventa immenso se lo ammira pure come uomo.
Più complessa è la risposta alla domanda con la quale Formamentis chiude il suo post. Qui, dicevo, sarebbe necessario molto tempo, ma mi rendo conto di aver tediato già abbastanza i nostri lettori, perciò, con tutti i rischi del caso, mi limito a dire che per me la democrazia è la condizione nella quale si realizzi la piena rappresentatività di ogni cittadino nellesercizio della sovranità popolare, le cui linee direttrici devono fedelmente riprodurre le proporzioni di volontà che concorrono a determinarle. Tanto più la forma della democrazia si riempie di sostanza quanto meno la rappresentatività venga sacrificata alla governabilità. In altri termini: quanto meno ciò che la democrazia affida a tutti e a ciascuno venga requisito da uno o da pochi – o a pochi o ad uno ceduto – nella sospensione o nella illimitata dilazione della funzione di controllo. Ma qui è assai probabile che la voglia di stringere mi abbia fatto incorrere in qualche ambiguità di formula. Ci ritornerò sopra.

giovedì 30 aprile 2015

[...]


La chute

«C’est l’histoire d’une société qui tombe
et qui au fur et à mesure de sa chute
se répète sans cesse pour se rassurer:
Jusqu’ici tout va bien, jusqu’ici tout va bien,
jusqu’ici tout va bien”. Mais limportant
n’est pas la chute, c’est l’atterrissage»

La Haine (Mathieu Kassovitz, 1995)


Quel che resta del disprezzo che va a Renzi spetta di diritto ai fiancheggiatori che ne agevolano le scelleratezze minimizzandone la gravità col sarcasmo di cui fanno oggetto chi invece la avverte e la segnala. Naturale inclinazione all’acquiescenza, strafottenza come surrogato di piena padronanza delle situazioni, mera ignavia come esorcismo contro ogni genere di pericolo – poco importa cosa li muova a sbertucciare, peraltro con piatta uniformità di toni, chi nella migliore delle ipotesi considerano un malato d’ansia, sennò un subdolo inoculatore di velenoso allarmismo. Nel più plateale precipitare di peggio in peggio, questi miserabili continueranno sempre a dire: «Jusqu’ici tout va bien», fino alla fine, e a reagire con un moto di fastidio a chi fa presente che tutto precipita. Sarà una puttanata che «la plus belle desruses du Diable est de vous persuader quil nexiste pas» (Charles Baudelaire), di certo non cè dittatura che possa fare a meno del brodo di coltura che le dà nutrimento con lottusa indolenza di quanti si rifiutano di vederla, che poi sono gli stessi che ingrassano nelle sue pieghe. Forse occorre risparmiare un po del disprezzo che va a Renzi per lasciarlo a loro. 

mercoledì 29 aprile 2015

Solo artigianato

La differenza tra un grande artista ed uno dei garzoni della sua bottega che mai riuscirà a toccare i vertici espressivi del maestro, rimanendo in eterno un «anonimo della scuola di», non sta tanto in un difetto della tecnica, che anzi può essere facilmente appresa, laddove vi sia un minimo di applicazione, ma nella incapacità di darle efficacia infondendo alla materia una qualità che la trascenda, conferendole il potere di dare vita propria a ciò che rappresenta.
Per semplificare potremmo dire che questa differenza fa la distanza tra creazione e ricreazione, tra scoperta e invenzione, tra respiro e insufflo, il che spiega come un apprendista possa essere arrivato pure a riempire tre quarti di una tela, e con resa ineccepibile, ma perché il quadro sia un capolavoro occorre che al resto abbia pensato chi possedeva la superiore virtù di riuscire ad animarlo.
Questo, tuttavia, neanche basta a poter dire che il garzone sia mera proiezione dellartista, comè dato constatare dalla possibilità di riconoscere, almeno ad unanalisi supportata da strumenti congrui allo scopo, due mani differenti in quel quadro pur nella perfetta omogeneità del tutto.
È questo, in definitiva, che consente, ovviamente a chi abbia tutta lesperienza necessaria per non cadere nellinfortunio dellerrata attribuzione, di poter riconoscere in unopera di un grande artista il contributo di un oscuro e pur valente collaboratore.

Se la premessa non vi ha sfiancato, passiamo a considerare Claudio Cerasa alla direzione de Il Foglio. Non malaccio negli sfondi, nei panneggi e nelle anatomie, ma quando mette mano alla filosofia politica – chiamiamola così – il quadro diventa irrimediabilmente crosta.
Giuliano Ferrara si prostrava in estasi davanti al Potere, non ha importanza in quale forma gli apparisse, né da quale istinto procedesse, riuscendo a prodursi in salmi di feroce cinismo che offriva a questo o quel fetente come pergamene attestanti lincontestabilità di un titolo, ed erano pezzulli degni del più zelante dei sacerdoti a guardia del Tempio, editoriali di una brutalità che ardeva come arde il fuoco sacro che vorace esige il tributo di una vittima, e tutto era in ossequio alla magnificenza dell’arbitrio solennemente legittimato in privilegio, e con brillanti concessioni ad un immaginifico che pescava nei registri alti e in quelli bassissimi... Insomma, leccava il culo al potente di turno, ma ci metteva l’arte.
Cerasa, no. Quand’anche sta sull’uscio di bottega in posa da titolare, Cerasa è destinato ad essere garzone a vita. Lecca pure lui, ma non ci mette l’estasi: si vede che per lui il Potere è solo forza meccanica, non energia dinamica. Maramaldeggia pure lui i deboli, quello è naturale, fa parte dellinsegnamento e del lascito, ma invece della lectio sulla necessità che il pesce grande mangi il pesce piccolo, cui il vocione di Ferrara dava un bel cupo rotto solo dalla folgore di un «così va il mondo, bellezza», Cerasa si limita a spiegar loro che non è tanto Renzi ad essere squalo quanto loro ad essere merluzzi: «La democrazia viene sospesa quando le opposizioni non funzionano e non rappresentano un’opzione» (Il Foglio, 29.4.2015). Anche di pregio, insomma, ma solo artigianato.

Segnalibro

Tirando giù dagli scaffali alti un po di materiale relativo alla «legge truffa», lultimo volume dell’Opera Omnia di Luigi Sturzo si apre a caso sul disegno di legge n. 124 del 16 settembre 1958, che riguarda tuttaltro tema, quello del profilo giuridico dei partiti politici, qui chiamato in causa soprattutto per laspetto relativo al loro finanziamento. Centra poco con quello che cercavo – gli estremi della polemica tra Sturzo e De Gasperi sul premio di maggioranza – ma come segnalibro per queste pagine può tornare utile in futuro.