«Una
rivoluzione culturale» (Claudio Cerasa) è cosa ben diversa da «una reazione di violenza giusta incomparabilmente superiore a quella
subìta» (Giuliano Ferrara), ma in entrambi i casi non è chiaro quale sia la
soluzione sul piano pratico. Cosa dovremmo fare per impedire che qui e lì nel
mondo i cristiani vengano uccisi a causa della loro fede, ammesso e non
concesso che sia giusto impedire loro di testimoniarla a prezzo della vita?
Cominciamo a esaminare la proposta di Cerasa. È chiaro che la sua «rivoluzione culturale» sia roba da
promuovere in casa nostra, perché immaginare di andare a promuoverla tra le
fila dell’Isis è da pazzi. Bene, cerchiamo di figurarcela al meglio, questa «rivoluzione culturale». Se è «rivoluzione», deve implicare il
sovvertimento di uno stato di fatto. Se è «culturale»,
lo stato di fatto dev’essere quello che casa nostra non si dichiara più
cristiana.
Questa interpretazione è forzata? Non mi pare. Pur avendo rinunciato
al cristianesimo come religione di stato, a casa nostra vige una discreta
tolleranza verso il cristianesimo e verso ogni altra religione, anzi, a dire il
vero, verso il cristianesimo la tolleranza è tale da riuscire a farci
sopportare con pazienza da martiri le sue insistenti e pesanti molestie che si
sostanziano nella pretesa di imporci i suoi dettami, anche quando non ne
condividiamo la ratio.
Ma, quand’anche questa «rivoluzione culturale» ci rendesse fieri di dirci cristiani (anche
senza esserlo, sennò si tratterebbe di «conversione»,
e dovrebbe essere forzata, cosa che ci auguriamo di poter escludere), come
basterebbe – per sé sola – a interrompere lo stillicidio di una decina di cristiani
uccisi pro die? Questa «rivoluzione
culturale» è per caso intesa come premessa alla difesa di un nostro
interesse in casa altrui? Fosse così, non ci sarebbe troppa differenza con la
proposta avanzata da Ferrara, la quale avrebbe un unico difetto rispetto a
quella avanzata da Cerasa, quello d’essere intempestiva, precipitosa, mal
preparata.
Ma forse non è così, forse Cerasa ha in testa qualcos’altro, se ce l’ha.
Infatti pare che anche per lui quella dei cristiani uccisi a causa della loro
fede sia questione urgente, e che non si risolva solo con «parole, parole, parole», e tuttavia anche lui non sembra sappia
offrire altro, perché una «rivoluzione
culturale» in grado di armare le democrazie occidentali a difesa dei
cristiani in terre ad esse ostili, ancorché finalizzata ad un’impresa che
sarebbe costosissima e dai risultati assai poco certi, esigerebbe tempo, molto
tempo. Poi, certo, se la «rivoluzione
culturale» di cui parla non deve rivoluzionare le maggioranze dei paesi
occidentali, ma solo le élites che possono decidere crociate anche contro il
parere delle opinioni pubbliche, il discorso è diverso. Diverso, però, solo
fino a un certo punto, perché, dacché mondo è mondo, le crociate devono promettere
un buon ritorno, e qui «ritorno» sia
inteso in tutti i sensi.
Di sicuro, anche qui, c’è un papa che chiama gli «uomini di buona volontà» a tutelare i
suoi interessi, d’altronde sembra che la storia sia più bidella che maestra, ma
l’ostilità verso i cristiani che nutre in vario modo una parte del mondo
islamico – dalla diffidenza al massacro – non trova proprio nelle crociate il miglior
alibi per darsi come legittima difesa ad un colonialismo che si fa braccio
armato del proselitismo?
A parte, poi, risulta incomprensibile – ma solo fino a
un certo punto – l’ostinazione a non voler leggere quello che accade in gran
parte dei paesi di cultura islamica per ciò che veramente è: assistiamo ad un
conflitto tutto interno all’islam – interno ai contrapposti interessi che sono
andati a costruirsi sui diversi e contrapposti filoni religiosi e culturali
dell’islam – e i morti cristiani sono solo – triste dirlo, ma è così – un effetto
collaterale e – insieme – un tentativo di allargare il conflitto all’occidente.
Anche soltanto immaginare un intervento armato in difesa dei cristiani che si
ostinano a restare in terre ad essi ostili, peraltro esortati a restarvi dallo
stesso papa che poi ne lamenta il massacro, è benzina sul fuoco. E un titolare
della Farnesina che si lascia andare ad amenità del tipo «fermiamoli, anche con le armi» (Corriere della Sera, 7.4.2015) dovrebbe chiedersi se il solo dirlo
non sia inopportuno. Poi, nel caso, sarebbe bello vederlo, assieme al papa e a Ferrara, affrontare le armate del califfo. Gentilmente, però, in prima fila. Perché ci siamo rotti il cazzo di interventisti che muoiono nel loro letto a novant’anni o a cento.