giovedì 15 maggio 2014

Germogli di una dialettica interna



«Dove andremo a parare»




«Se non cacciamo di sella gl’inetti e gl’intriganti,
non so dove andremo a parare»
Francesco De Sanctis, Lettera a Carlo Lozzi, 13 agosto 1866


Dei ventuno tomi dell’opera omnia di Francesco De Sanctis che la benemerita Einaudi sfornò alla fine degli anni ’60, e che qualche tempo fa ebbi la fortuna di trovare in un negozietto di libri vecchi a un prezzo irrisorio, confesso con orgoglio di non aver neanche sfogliato i primi quattordici, quelli che raccolgono i suoi scritti di critica letteraria. Non mi azzardo a sottovalutarne i meriti in quel campo, sennò mi becco la rampogna di qualche suo pronipote, dico solo che al ginnasio ho avuto la sventura di incocciare in una professoressa di italiano che me lo fece venire a nausea, sicché mi è salutare, oggi, trascurarlo come uomo di lettere, limitandomi a considerarne l’impegno civile e politico. Ed è riguardo a questo aspetto che i rimanenti tomi (scritti e discorsi da parlamentare e da ministro, pagine autobiografiche, epistolario) mi tornano di sovente tra le mani, procurandomi diletto.
Brav’uomo, il De Sanctis, dunque del tutto inidoneo alla politica come mestiere, e tuttavia capace di automedicare le disillusioni e le ferite che avrebbe dovuto riportare dagli anni in cui le si offrì, come dimostra una pagina di Un viaggio elettorale, nella quale al patente fallimento della prima legislatura postunitaria oppone una formidabile speranzuola: i posteri trascureranno i «particolari» e saranno meno severi di quanto i contemporanei non possono e non devono fare a meno di essere. 
Splendida pagina, che fatalmente torna buona per l’odierno marasma. E dunque, grandeggiando d’animo, saggiamoci nella parafrasi: siamo nella merda, ed è giusto esser severi nel giudizio, ma consoliamoci pensando che i nostri nipoti diranno...
No, non funziona. Nonostante masticasse merda anche il De Sanctis, ai suoi tempi c’era ancora margine per chiedersi «dove andremo a parare». Oggi è domanda retorica. 

mercoledì 14 maggio 2014

martedì 13 maggio 2014

«boko haram»


«… la presente per pregarla a fare tutto quello che può
affine di allontanare un altro flagello, e cioè una legge progettata,
per quanto si dice relativa alla istruzione obbligatoria…» 
Pio IX, Lettera a Vittorio Emanuele II, 3 gennaio 1870

«… la libertà di insegnamento è la cosa più empia del mondo…»
Leone XIII, Libertas, 20 giugno 1870

«… quella scuola che si chiama per somma ingiuria neutra o laica,
ma che non è altro che tirannide prepotente di una setta tenebrosa…»
Pio X, Editae saepe, 26 maggio 1910



Pare che «boko haram» significhi «no all’educazione occidentale». Se con «educazione occidentale» s’intende scuola dell’obbligo, istruzione laica e libertà d’insegnamento, probabilmente «boko haram» è la versione un tantinello esagerata di roba già vista.  

Tutto sommato, un soffio


L’editoriale che apre l’ultimo numero de Le Scienze (n. 549, maggio 2014 – pag. 7) non riesce a dissimulare un più che comprensibile entusiasmo dietro un severo richiamo alla prudenza: quasi contemporaneamente – scrive Marco Cattaneo – in Europa e negli Stati Uniti prendono avvio due poderosi programmi di ricerca che, pur con approcci diversi, sono complementari e promettono, anche se non in tempi brevi, di offrirci la piena conoscenza dei meccanismi cerebrali che generano il pensiero e la coscienza; potrebbero volerci venti, trenta, cinquant’anni, e l’esito è tutt’altro che scontato, ma «in realtà – e qui il fervore prende il sopravvento – è solo questione di tempo».
Qualche mese fa, su queste pagine, esprimevo analogo concetto, ma senza troppe carinerie: «Verrà giorno – scrivevo – che la neurologia prenderà a calci in culo la metafisica», ma, nell’aggiungere che «fino ad allora dovremo pazientare come l’uomo pazientava nella scimmia», usavo un «noi» diacronico e diatopico che, anche senza troppa applicazione, è riconoscibilmente un maledetto vizio d’astrazione. Marco Cattaneo evita un tal genere di infortunio e risolve la questione facendo cenno a quel «patto tra generazioni che, in fondo, è una delle peculiarità che ci rende umani». Molto bello, devo dire. Per di più, è soluzione lessicale che dà al «pazientare» una dimensione lirica, perfino epica.
Le generazioni – dovremmo usarle come unità di misura per esser fieri del cammino fatto, dovremmo usarle al posto dei decenni, per riuscire a pazientare meglio, senza lasciarci andare così spesso a tanto scoramento. La specie umana ha un’età che approssimativamente è di mezzo milione d’anni: calcolando che fino a poco tempo fa ci si riproduceva intorno ai vent’anni, non siamo vecchi più di venticinquemila generazioni o giù di lì. Appena cinque o sei generazioni ci separano da Porta Pia, non più di una trentina dalla scoperta dell’America, poco più di cento dall’eruzione che seppellì Pompei, e poco più di duecentocinquanta dalla prima forma di scrittura, in attesa della quale hanno pazientato ventiquattromilasettecentoedispari generazioni, e senza mugugnare.
Una o due generazioni, dunque, ci separano dal poter prendere a calci in culo la metafisica: pazientare – tutto sommato, un soffio. 

Un quarantennale festeggiato con quattro anni di ritardo / 2


Dopo aver chiarito la natura dell’ineluttabile che destinava l’Italia a darsi una legge sul divorzio, sarebbe necessario un secondo paragrafo sui fattori che lo ritardarono. Essi, tuttavia, sono già tutti noti in sede di analisi storiografica e sociologica, quasi interamente riconducibili alla peculiarità italiana di avere in Roma una doppia capitale, sicché possiamo risparmiarci di ripetere quello che è già stato abbondantemente detto.
Riguardo a questo aspetto occorre rilevare solo un dato che può tornarci utile a spiegare cosa aprì la via all’ineluttabile, e qui torna utile quanto abbiamo detto nel primo paragrafo sulle più comuni reazioni a ciò che si sente ineluttabile e in sintesi descrivere la posizione delle forze in campo come diversamente convergenti al calcolo che dava per improcrastinabile una legge sul divorzio anche in Italia: chi vi si opponeva sapendo che sarebbe stato vano (1) o meno (3) neutralizzava le forze di chi era disposto a lasciar che accadesse cercando di farsene una ragione (2) o di dare al testo di legge un tratto mite (4), dacché si realizzava sul piano tattico una spaccatura all’interno della Dc che consentiva ai partitini laici e al Pci di convergere sulle proposte avanzate dai socialisti in Commissione parlamentare, per portare all’esame delle Camere un testo sul quale la Dc fu costretta a piegarsi per evitare che su quella legge si consumasse una esiziale crisi di governo. Se è vero, dunque, come ricordava Giuliano Ferrara nel suo editoriale di lunedì 12 maggio, che sul referendum che vi sarebbe stato di lì a quattro anni il Pci recalcitrò e fece di tutto, fino a quando fu possibile, per evitarlo, battendosi poi a malavoglia per il no all’abrogazione della legge, è altrettanto vero che il suo impegno in Commissione e in Parlamento fu decisivo.
Anche da ciò il titolo di questo post: l’ineluttabile prese corpo il 1° dicembre 1970, mentre il risultato che uscì dalle urne il 14 maggio non fece che renderlo visibile. Tanto più visibile in quanto trasversalmente accettato, e più come presa d’atto dei mutamenti avvenuti nella società italiana che come ulteriore spinta ad essi.

Erasmo ha postato in questi giorni l’editoriale che uscì sul Corriere della Sera il 10 giugno 1974 a firma di Pier Paolo Pasolini e in quella pagina questi elementi di analisi erano già tutti presenti: l’esito del referendum poteva aver avuto l’effetto di uno shock solo per chi non aveva capito che già quattro anni prima, col varo della legge, era stato il Parlamento a dar voce all’ineluttabile, facendosi specchio del paese, forse proprio perciò incapace di leggerne la faccia. Basta rileggere gli atti della discussione parlamentare che portò all’approvazione della legge per cogliervi il segno del fatale: le argomentazioni a favore non facevano che fotografare la realtà, quelle contrarie si limitavano al richiamo di una tradizione che già da tempo era smarrita. Perciò, nel quarantennale del referendum che confermò la legge sul divorzio, sarebbe necessaria una adeguata revisione storica, che proprio nella celebrazione dell’evento trova il maggiore impedimento.
Basti pensare al peso spropositato che si è soliti dare ai radicali, che in realtà si limitarono a strepitare sull’onda sulla quale erano montati: la Lid (Lega italiana per il divorzio) aveva nella sua presidenza un solo radicale (Mauro Mellini), il testo della legge portava i nomi di un socialista e di un liberale, nel comitato referendario per il no all’abrogazione i radicali erano una sparuta minoranza. Ma di questo, nel dettaglio, al prossimo paragrafo.

[segue]    

lunedì 12 maggio 2014

Un quarantennale festeggiato con quattro anni di ritardo


Quando in Italia non era ancora possibile divorziare, si poteva già farlo in Inghilterra, dal 1871, in Svizzera, dal 1874, in Germania, dal 1875, in Francia, dal 1884, in Portogallo, dal 1910, in Norvegia e Unione Sovietica, dal 1918, in Svezia e in Grecia, dal 1920, in Islanda, dal 1921, in Danimarca, dal 1922, in Turchia, dal 1926, in Finlandia, dal 1929, in Austria, dal 1938, almeno da vent’anni anche in Belgio, in Olanda, in Lussemburgo, negli Stati Uniti e in Messico, almeno da dieci anche in Giappone, in Australia, nella quasi totalità dei paesi del Sudamerica e dell’Est europeo. Quanto era ineluttabile che prima o poi anche in Italia dovesse diventare possibile?
Superfluo rilevare che l’ineluttabile sia tale solo a posteriori, mentre a priori è solo una previsione fatta in base a un certo calcolo. Possiamo, allora, riformulare la domanda in altri termini: quanto era azzeccato il calcolo di chi pensava fosse ineluttabile che prima o poi anche in Italia sarebbe stato possibile divorziare? Favorevole o contrario che fosse, diremmo avesse visto giusto, e tuttavia la sua non era che una previsione.

Nel caso non si abbiano obiezioni a quanto fin qui detto, ci è lecito porre un’altra domanda: quali elementi concorrevano alla base di quel calcolo? Senza dubbio, e in primo luogo, direi vi fosse il constatare che in gran parte del mondo qualcosa avesse irrevocabilmente messo in discussione il principio dell’indissolubilità del vincolo matrimoniale. In secondo luogo, che quel qualcosa avesse forza destinata, prima o poi, a rimuovere quel principio anche dalle legislazioni che ancora lo facevano proprio, tra le quali quella italiana. Ciò che il calcolo dava come ineluttabile, dunque, era la presa d’atto della raggiunta insostenibilità di un principio fin lì ritenuto sostenibile: calcolo che dava ineluttabile l’introduzione del divorzio anche in Italia nella presa d’atto che, anche se in ritardo rispetto a tanti altri paesi, anche qui era entrato in crisi quel sistema di valori in cui l’indissolubilità del matrimonio era un pilastro.

Un ulteriore passo nel tentativo di comprendere quanto potesse essere evidente questa crisi, almeno a chi, favorevole o contrario all’introduzione del divorzio anche in Italia, azzeccava il calcolo che sarebbe stato ineluttabile, può essere fatto col constatare che al fondo delle opposte argomentazioni tra i favorevoli e i contrari v’era una questione già risolta a vantaggio dei primi: con l’introduzione del matrimonio civile il vincolo tra i coniugi era destinato a perdere il carattere sacramentale per assumere quello contrattuale, con tutto ciò che era implicito per le immancabili clausole di scioglimento.
In pratica, si verificava quel che per altri versi sarebbe accaduto, prima, con l’abrogazione della norma che dichiarava il cattolicesimo «Religione di Stato» e poi, con la revisione del Concordato del 1984, con l’assunzione del principio, in molto ancora inapplicato, che tutte le confessioni religiose godono di eguale considerazione dallo Stato laico. In ciò diremmo che il calcolo che dava come ineluttabile l’introduzione del divorzio nell’ordinamento legislativo italiano era basato sull’assunto di un inevitabile processo di secolarizzazione della società.

Ciò detto, occorre aver presente che l’umano ha a disposizione una ridotta gamma di reazioni a ciò che sente ineluttabile ma indesiderato, le più comuni delle quali sono (1) l’opporvisi, anche se sa che è vano, o (2) il lasciar che accada, cercando di farsene una ragione: reazioni opposte, ma che prendono le mosse da un eguale risultato del calcolo d’ineluttabilità. Altre due hanno segno diverso, ma manifestano lo stesso stato d’animo verso quel che solo a posteriori si rivelerà ineluttabile nei sensi e nei modi previsti da un opposto risultato del calcolo, e sono (3) l’opporvisi, ritenendo che l’ineluttabile sia evitabile, e che dunque ineluttabile non abbia ad essere, o (4) lasciar che accada, tentando di dare all’ineluttabile senso e modo diversi da quelli prospettati dal più pessimistico dei calcoli.
Tutte queste reazioni sono rintracciabili alla vigilia del varo della legge n. 898 del 1° dicembre 1970. Quando quattro anni dopo si andrà al referendum che ne propone l’abrogazione sono già tutte fuori gioco.

Fu la sensazione dell’ineluttabilità della secolarizzazione della società italiana a sospingere verso l’approvazione del disegno di legge presentato in parlamento dal socialista Fortuna e dal liberale Baslini: il referendum che sarebbe seguito di lì a quattro anni si sarebbe limitato a rendere evidente che era trasversale ai partiti politici e maggioritaria.
Per il clima culturale dell’epoca era sensazione che si esprimeva in termini sociologici: «L’indissolubilità del matrimonio – scriveva Alberto Carocci su un numero di Nuovi Argomenti del 1968 – e il conseguente rifiuto dell’idea del divorzio furono il frutto di una particolare società quale fu quella basata su una economia interamente contadina. È del tutto evidente che le società che per prime si sono trasformate in società industriali non potevano che voltare le spalle a una simile concezione della vita matrimoniale; ed è altrettanto ovvio che le società, come quella italiana e quella spagnola, che hanno conservato il carattere di società fondamentalmente contadine, abbiano conservato a lungo e ancor oggi conservino le norma legali anti-divorzio che furono loro proprie. Ma oggi, con la trasformazione che è in atto, quelle vecchie norma si rilevano inadeguate e in definitiva immorali». In altri termini: ogni società regge su un sistema di valori morali e quella odierna è giocoforza costretta a cambiarlo. E a ben vedere la secolarizzazione era già esplicita nell’assumere i valori morali a prodotto della società, invece che a norme eterne.

Ma era esplicita anche in chi assumeva che, nel varare una legge in contraddizione con valori morali equivalenti a norme eterne, la società venisse a scardinarsi: «Istituire il divorzio in Italia – scriveva, per esempio, Carlo Sirtori – significa capovolgere un mondo che ha le sue tradizioni, i suoi difetti, ma anche i suoi dati positivi. Significa accettare supinamente ciò che altri hanno motivatamente deprecato. Significa prepararsi il peggio aspettando il meglio». Il che dà ampio margine a considerare che «difetti» e «dati positivi» di «un mondo» possano mutar di peso al punto da indurre, seppure in base a un calcolo ritenuto errato, a cercare norme che li riequilibrino: è l’ammissione che i valori morali sono meri fattori di equilibrio in difesa delle «tradizioni», e con ciò la norma morale è anche qui immanentizzata. 

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domenica 11 maggio 2014

[...]


Le motivazioni della sentenza che ha dichiarato incostituzionale il Porcellum lasciano poche speranze a qualsiasi legge elettorale con clausole di sbarramento, c’è da supporre sia solo questione di tempo perché la Consulta dichiari l’incostituzionalità di quelle attualmente vigenti, ora che finalmente c’è qualcuno a sollevare la questione dell’illiceità di sacrificare la rappresentatività al Moloch della governabilità, un dio che si è mangiato la democrazia cagando stronzoni demagogici. Un Parlamento da sempre stracolmo di avvocatoni e di avvocaticchi, tutti debolucci in Diritto Costituzionale.

sabato 10 maggio 2014

Una miserabile storiella

La vicenda che si è chiusa con l’arresto di Riccardo Viti è stata gonfiata in modo vergognoso dai mezzi di informazione e un bravo avvocato non incontrerà alcuna fatica a sgonfiarla dimostrando che si è trattato di un banale omicidio colposo. Lì probabilmente assisteremo a un’altra vergognosa montatura dei media, quella che istigherà all’indignazione per una condanna troppo mite per quello che si è voluto rappresentare come efferato delitto e che in realtà ha tutti i connotati dell’infortunio incorso durante un setting di extreme.
Innanzitutto, la donna non è stata «crocifissa»: le sono stati legati i polsi a un palo metallico con del nastro adesivo.
Il responsabile della sua morte non è un «serial killer»: in una mezza dozzina di occasioni si è intrattenuto in pratiche di bondage e insertion con prostitute consenzienti e, prima dell’incidente che ha causato la morte di Andreea Cristina Zamfir, non si è macchiato d’altra colpa che l’essere andato un po’ più in là della prestazione pattuita, peraltro solo in due o tre occasioni, provocando reazioni di vivace diniego dinanzi alle quali è regolarmente scappato.
Non è vero che la vittima si prostituisse con regolarità: lo faceva di tanto in tanto per far fronte alle disagiate condizioni economiche familiari e per mandare qualche euro ai suoi parenti in Romania, roba che una libertarian come Annalisa Chirico definirebbe «scambio intrinsecamente morale» e «sublimazione del godimento della propria indipedenza privata».
Le indagini che hanno portato a sospettare di Riccardo Viti non hanno nulla di straordinario: qualche tempo fa una prostituta aveva consentito alle forze dell’ordine l’identificazione di un cliente che aveva oltrepassato i limiti preliminarmente stabiliti e un inquirente ne ha rammentato il nome collegandolo al caso sul quale era impegnata la squadra investigativa di cui faceva parte.
Riccardo Viti, d’altronde, ha confessato subito, offrendo la massima collaborazione. L’abbondanza delle tracce che ha lasciato dietro di sé avrebbe probabilmente portato comunque alla sua identificazione, ma allo stesso tempo sono la più eloquente prova che non avesse l’intenzione di uccidere e che si tratta di un poveretto al quale è andato storto il giochino, causando la morte di una poveretta.
L’orrore io lo provo solo a considerare come i media si siano fiondati su questa miserabile storiella a mesto fine per costruire l’ennesimo mostro. E a come ci si sia fondato sopra lo Stato – e dico Stato per evitare noie – allo scopo di lucrare un po’ di prestigio.  

giovedì 8 maggio 2014

La responsabilità delle opinioni / 2


Ci sono recensioni che si sbrigano in quattro e quattr’otto, e questo è il caso del volume in cui l’autrice teorizza che «prostituirsi è la sublimazione del godimento della propria indipendenza privata»: parla per te, ragazza. 



La responsabilità delle opinioni


Com’era possibile scrivere una storia delle paranoie di cui certi uomini politici si servono per costruire «complotti immaginari al fine di mascherare la realtà [e] occultare le responsabilità personali» (pag. 9), lasciando fuori quella di quel «piccolo ma pugnace partito ridotto a setta osannante il capo» (pag. 75) che da decenni è solito «attribuire al complotto dei media i fallimenti delle sue iniziative politiche» (pag. 68)? E com’era possibile lasciar fuori l’ultima paranoia, quella che informa la teoria della trattativa Stato-Mafia, senza affidare il capitolo a chi nella rassegna stampa che tiene quotidianamente a Radio Radicale da sempre è il suo più acuto critico? Com’era possibile mettere insieme le due cose senza incresciosi infortuni? La soluzione pare segnata da un pochino d’ansia, visto che il volume riporta l’avvertenza in capo (pag. 4) e in coda (pag. 207), ma i due autori sono persone che sanno il fatto loro. Ottimo libro, lo consiglio a tutti.  



mercoledì 7 maggio 2014

[...]




Ciò che rende straordinario il video di Emily Letts è la grazia con la quale straccia tutti i più odiosi luoghi comuni che non di rado affliggono anche chi non è contrario all’interruzione volontaria di gravidanza: la sofferenza fisica e quella psichica sono in gran parte proiezioni che la donna è costretta ad assumere per pagare il pizzo del senso di colpa al moralismo che glielo estorce. Più efficace di una pila di volumi.

Ancora sul farsi prendere la mano


Torno su quel «farsi prendere la mano» che è il rischio più serio nell’analizzare un’opera d’arte e stavolta prendo a esempio il celebre autoritratto di Johann Anton Gumpp, qui sopra riprodotto nelle due versioni realizzate dall’artista, dicendo che grazie alla seconda, meno nota e parte di una collezione privata, possiamo destituire d’ogni solidità ciò che è stato detto, anche da voci peraltro autorevoli, sulla prima, il tondo che è alla Galleria degli Uffizi di Firenze, conosciutissimo. In primo luogo, è da smentire ciò che entrambe le versioni mostrano in modo evidente, e cioè che non si tratta di un autoritratto doppio, ma triplo, perché l’artista ritrae se stesso anche di spalle, quasi a figura intera, tra i due ritratti a mezzo busto che sono racchiusi nell’ottagono dello specchio sulla sinistra e nel rettangolo della tela sulla destra; in molte circostante, tuttavia, troviamo riproduzioni dell’opera a corredo iconografico di scritti che trattano il tema del Doppio in letteratura, in filosofia o in psicoanalisi, senza tenere in alcun conto il fatto che in realtà il dipinto non raddoppia ma triplica il soggetto. In quanto al resto, non starò a riproporre per esteso le faticose e affaticanti elucubrazioni che l’opera ha sollecitato in quanti hanno provato a interpretare le più intime intenzioni dell’artista: dirò solo che la gran parte d’esse s’appunta sulle diverse direzioni cui volgono i due sguardi nella versione più nota, e che ci danno prova della loro palese insussistenza all’osservazione della versione meno nota, perché si può dare per scontato, salvo ulteriori e ancor più faticose e affaticanti elucubrazioni, che le intenzioni dell’artista non possono essere state diverse nel proporci in due occasioni la stessa scena. Possibile che Jean-Luc Nancy (Le regard du portrait – Galilée, 2000) e Omar Calabrese (L’arte dell’autoritratto – La casa Usher 2010) ignorassero l’esistenza di una seconda versione del quadro, di fatto è proprio questa che sgonfia le loro affascinanti ipotesi sulla prima. C’è poi un’altra questione, che non è affatto marginale: è assai probabile che il tondo sia la seconda versione in ordine cronologico. Non sarebbe il primo caso in cui un’artista decida il rifacimento di un’opera ritenuta particolarmente riuscita passando da un formato più comune ad uno che supponga ne esalti il contenuto, e mai come in questo caso si può ritenere che così sia stato: basti il considerare che il gatto e il cane raffigurati in entrambe le versioni trovano collocazione meno forzata nella tela che nel tondo. Le originali intenzioni dell’artista, allora, dovrebbero essere individuate nella prima versione, e perciò smentire ulteriormente ciò su di esse si è elucubrato analizzando la seconda.

martedì 6 maggio 2014

Vita intellettuale e affettiva di Benedetto Croce / 2



Al mio lettore assicuravo che mi sarei precipitato al più presto in libreria per procurami Vita intellettuale e affettiva di Benedetto Croce di Giancristiano Desiderio (liberilibri, 2014), allo scopo di rettificare, nel caso, la pessima impressione che ne avevo ricavato dall’ampia illustrazione datane dall’autore nel corso della presentazione andata in onda sulle frequenze di Radio Radicale, lo scorso 29 aprile, e che da subito non rinunciavo a rappresentare su queste pagine in forma di perplessità. Ogni promessa è debito e qui oggi ne parlo dopo averlo letto.
Peggio di quanto pensassi, devo dire. Si tratta di un’umidiccia agiografia scritta da uno che non fa alcun mistero di essere assai devoto alla figura di Benedetto Croce, devoto al punto di arrivare a definirlo «il Socrate italiano» (pag. 20). Il fatto è che tanta devozione non riesce a tappare nemmeno un decimo dei buchi dai quali, ormai da decenni, il mito di Benedetto Croce fa acqua, e più di un colabrodo. Il povero Giancristiano Desiderio si affanna a rammentarci che Antonio Gramsci (pag. 18), Norberto Bobbio (pag. 18), Rudolf Borchardt (pag. 19) e Karl Popper (pag. 27) concessero a Benedetto Croce qualche cortesia di circostanza, fa i salti mortali nel tentativo di convincerci che la fumosità e l’astrusità del suo sistema filosofico non sia stata penetrata ancora a dovere per trovarci dentro tutto il ben di Dio che cela al nostro occhio pigro (pagg. 35-38, pagg. 44-47) e si fa il proverbiale culo quadrato per rendercelo simpatico (pagg. 21-24, pagg. 31-35, pagg. 38-41), il fatto è che, anche liquidando la cattiva fama che ebbe in vita come frutto di malanimo e invidia, non riesce nel compito che s’era prefisso e, giunti alla fine del suo volume, Benedetto Croce rimane quello che conoscevamo: né il suo pensiero ci appare più interessante di quanto ci apparisse prima, né il suo carattere migliore dell’idea che ci eravamo fatti in precedenza, né la sua vita ci rivela alcunché di nuovo rispetto a quello che avevamo appreso da quella mezza dozzina di biografie che abbiamo sugli scaffali. Anzi, giacché Vita intellettuale e affettiva di Benedetto Croce si prefiggeva di mostrarci soprattutto l’uomo, diremmo che, a voler prendere per buone le spiegazioni che Giancristiano Desiderio ne dà di certi aspetti, nell’immagine che ce n’eravamo costruito si creano punti oscuri: liquidando quelle che vengono definite «dicerie […] utilizzate dai critici di Croce nel tentativo assai maldestro di screditare l’uomo non riuscendo a buttar giù il filosofo» (pag. 78), e che tuttavia lo illuminavano a meraviglia, anche se poi non era un bel vedere, si creano zone che il tentativo di riaccreditarlo lasciano in ombra. In tal senso potremmo dire che il libro ottiene il fine opposto a quello che si proponeva.
È questo il caso dell’argomento affrontato nel terzo capitolo (pagg. 75-105), quello relativo ad Angelina Zampanelli. [Tralascerò in questa sede ogni commento sul secondo capitolo, quello relativo all’infanzia e al terremoto di Casamicciola. Qui Giancristiano Desiderio ripete ciò che ha scritto sul Corriere del Mezzogiorno nella nota polemica tra Marta Herling, nipote di Benedetto Croce, e Roberto Saviano, sulla questione delle centomila lire che, sotto le macerie del terremoto, Pasquale Croce avrebbe raccomandato al figlio di offrire a chi lo soccorresse: esclude possa essere davvero accaduto – si tratterebbe dell’ennesima «diceria» – perché il filosofo non riportò mai l’episodio nei suoi scritti. Sulla questione mi sono già intrattenuto in due o tre post, qualche anno fa, e non annoierò il lettore ripetendomi. Dirò solo che la «diceria» fu riportata molte volte mentre Benedetto Croce era ancora in vita, su libri, giornali e riviste, e da lui non ebbe mai smentita, mentre non si contano le volte che prese carta e penna per correggere chi su di lui ne avesse detta una non gradita o imprecisa.]
Su quello che Giancristiano Desiderio scrive riguardo alla lunga storia d’amore tra Benedetto Croce e Angelina Zampanelli ho già fatto qualche cenno, visto che a Radio Radicale è proprio su quella che egli si è intrattenuto per più tempo. Qui mi limiterò a smentirlo su ciò che egli nega in più occasioni (pag. 78, pag. 86, pag. 93, pag. 94), cioè che Benedetto Croce l’abbia sposata. E comincio con riprodurre l’estratto per riassunto dell’atto di morte di Angelina Zampanelli rilasciato dal Comune di Raiano (AQ). L’ho trovato in un volume che non è citato nella bibliografia che Giancristiano Desiderio allega in coda al suo lavoro (Gennaro Cesaro, Benedetto Croce in pace, in guerra e in amore, Bastogi 2012 – pag. 103), e certifica ufficialmente che la donna fosse «coniugata con il senatore». Si tratta di un documento che senza dubbio è sfuggito a Giancristiano Desiderio, che infatti riferisce come orario della morte di Angelina Zampanelli le «6,45» (pag. 101), mentre  l’atto dell’Ufficio dello Stato Civile recita che è spirata alle «6,15».


Qui penso cada bene un inciso. Un biografo non dovrebbe attingere da fonti qualificate? E quali sono le fonti più qualificate per accertare a che ora sia morta una persona e se fosse coniugata o meno? Non risulta, in questo caso, che il biografo di Benedetto Croce abbia fatto ricerche negli archivi del Comune di Raiano. Ma diamo per scontato che Giancristiano Desiderio fosse a corrente di ciò che Gennaro Cesaro ha ritenuto dimostrabile grazie a un documento ufficiale, e diamo per scontato che abbia deliberatamente deciso di non tenerne conto perché riteneva falso il certificato, e chiediamoci: nello smentire la vulgata che tra Angelina Zampanelli e Benedetto Croce vi fosse un vincolo matrimoniale, non avrebbe avuto il dovere di dimostrare la falsità di quell’atto ufficiale? Niente di tutto questo, tutt’altro: nega che fossero sposati; e non sottovaluta che «per l’epoca» (pag. 94) quella convivenza ponesse Angelina Zampanelli in una situazione estremamente imbarazzante; inoltre riferisce che a lungo ella espresse il desiderio di regolarizzare quell’unione, ma «lui le diceva di correre un po’ troppo» (pag. 86), non che alla cosa dovesse rinunciare; per poi concedere che «da tutti era chiamata e indicata come la moglie del filosofo e lei stessa usava chiudere le sue lettere firmandosi Angelina Croce» (pag. 86). Non è chiaro, insomma, su quali basi Giancristiano Desiderio escluda che si sia celebrato un matrimonio tra i due, anche se solo in prossimità della morte della donna. Cioè, un sospetto ce ne suggerisce la ragione: se erano sposati, si solleverebbe la questione del perché Benedetto Croce, ancorché implicitamente, fosse reticente nel dichiararlo prima, quando la donna era ancora in vita, e dopo, quando ormai era morta. La ragione potrebbe essere una sola: quel matrimonio imbarazzava il filosofo, prima e dopo la morte di Angelina Zampanelli, e il suo biografo è imbarazzato nel darci spiegazione di quell’imbarazzo, anche se non può fare a meno di offrircene i motivi: «lui legato alla sfera dell’alta e ricca borghesia, lei di umili origini contadine» (pag. 84) e nata da una relazione illegittima tra un possidente terriero, ucciso per oscuri moventi «in un agguato con ben diciotto colpi di arma da fuoco» (pag. 84), e una «serva» che lavorava in casa sua; forse non era una ballerina, una sciantosa o una cocotte, Angelina Zampanelli, di fatto l’incontro con Benedetto Croce avvenne nel buffet della stazione ferroviaria di Salerno, e quel buffet era gestito da un suo zio, nulla di meno improbabile che lì lavorasse come cameriera… Un egolatra come Benedetto Croce poteva far sapere al mondo intero che si era sposato con una così? L’amava, l’amava molto, su questo possiamo anche evitare di sollevare dubbi. In ogni caso, accanto al filosofo, ella svolse per venti anni l’attività di segretaria.

[segue]

Corrispondenze


Caro Malvino,
penso ti faccia piacere leggere questa notizia. A me farebbe piacere leggere un tuo commento, anche se con il tuo post sull’argomento aveva già detto quasi tutto quello che c’era di dire.
Cordiali saluti,
Roberto Pinzani


E cosa vuoi che aggiunga al già detto, caro Roberto? Che la Ru486 possa causare guai solo quando l’assunzione sia per via vaginale, e comunque solo in rarissimi casi, ormai lo sanno tutti, e nel caso di Anna M., come in tutti quelli di interruzione della gravidanza espletata fin qui in Italia col metodo farmacologico, il protocollo prevedeva l’assunzione per via orale: la Ru486 era fuori discussione da subito. Come è fuori discussione, ora, che i cosiddetti pro-life (in realtà sarebbe meglio chiamarli versus-choice) staranno un po’ di silenzio, giusto il necessario per far dimenticare le cazzate che hanno sparato per l’occasione, tornando alla carica al minino pretesto cui potranno appigliarsi. Ormai è routine e, a dire il vero, fanno pure tanta tenerezza, poveracci, accanirsi su di loro non sarebbe elegante.

lunedì 5 maggio 2014

Abbiamo l’ennesimo stronzetto


Abbiamo l’ennesimo stronzetto molto fiero di esserlo, e il piacere di fare la sua conoscenza lo dobbiamo a Giuliano Ferrara, che lo elegge a suo eroe di giornata (Il Foglio, 5.5.2014). Si chiama Tal Fortgang, studia alla New Rochelle High School di New York e, a chi gli raccomanda di sottoporre le sue opinioni al vaglio critico che possa rivelarle come mere difese di un privilegio, risponde: «Già fatto, il privilegio è pienamente meritato, perché ho avuto nonno che è stato perseguitato dai nazisti e babbo che ha sgobbato tanto». Un Lapo Elkann in sedicesimo, insomma, uno di quelli che nel proprio curriculum vitae mettono i meriti maturati dalla famiglia nel corso delle ultime tre o quattro generazioni: il trisavolo ha sofferto tanto, ma è come se a soffrire fosse stato lui, è sangue dello stesso sangue; il nonno ha fatto tanti sacrifici, ma è come se li avesse fatti lui, è sangue dello stesso sangue; il padre ha lavorato notte e giorno, ma è sangue dello sangue e dunque è più che meritato che a diciott’anni giri in Ferrari. Privilegio di sangue, come per altri versi, un tempo, era quello del titolo nobiliare, il fatto è che lo stronzetto nato marchesino lo avverte come un merito proprio e a chiedergliene ragione indica lo stemma. Superfluo dire che ogni stronzetto del genere trova sempre degli stronzoni che ne lodano la fierezza, e anche in ciò lucrano ciò che non gli spetta: la lode, infatti, è alla natura cieca e arrogante del privilegio, non al cretino che lo rivendica. 

[...]


Mi pare che con l’accaduto a margine di Fiorentina-Napoli si sia in presenza dell’ennesimo trionfo dell’assurdo, specialità in cui da tempo vantiamo l’eccellenza, offrendo al mondo l’immagine di un paese di merda, ma merda singolare, bizzarra, stravagante, perfino affascinante se non ci si è ficcati dentro. Tanta indignazione, innanzitutto. Perché «con i violenti non si tratta». Il che sarebbe anche sensato, ma non quando ai violenti hai dato modo di avere tutto il peso che hanno. È a monte che non si dovrebbe trattare con i violenti, perché a valle, quando hai consentito loro di poter imporre la loro volontà, trattare è inevitabile, e cedere può addirittura essere necessario, com’è nel caso di specie: a sospendere Fiorentina-Napoli quasi certamente si sarebbe visto di peggio, e a scatenarlo sarebbero stato proprio chi ha avuto modo di imporre la trattativa accreditandosi a pieno titolo come controparte delle forze dell’ordine. A monte, invece, non mi pare sia mai stato fatto nulla di serio per evitare che le tifoserie incubassero violenza, anzi è proprio chi oggi maggiormente si indigna ad essere responsabile di aver consentito – scientemente o meno, poco importa – che le curve degli stadi di calcio divenissero vere e proprie discariche in cui sversare le più disparate forme di delinquenza, quella contigua o perfino organica alla criminalità organizzata, quella attigua e in gran parte sovrapponibile ad alcune frange di estremismo politico, quella di un sottoproletariato che ha cercato emancipazione nel teppismo e quella di psicopatici cui la fede nei colori di una squadra – fede, così la chiamano – ha dato status di supporter. Così, chi oggi trova in Genny ’a carogna il più comodo dei capri espiatori è proprio chi ha fatto del calcio una metafora ubiquitaria. A lamentarsi che un derby possa degenerare in una guerriglia urbana è proprio chi ne ha sempre drammatizzato fino all’inverosimile il risultato. Chi si duole che il calcio sia diventato un mostruoso giro di denaro è proprio chi maggiormente ha contribuito a conferire aura mitologica a semianalfabeti in mutandoni. La bestia è stata nutrita proprio da chi oggi ne denuncia la bestialità. Se gli stadi di calcio sono diventate enclavi in cui è sospesa o derogata ogni disposizione relativa all’ordine pubblico, la colpa è di chi ha dato al calcio più spazio di quanto ne meritasse.

domenica 4 maggio 2014

Grazia nel disagio


Giusto sessant’anni fa, il 3 maggio 1954, Leo Longanesi era a Francoforte e sulle pagine del suo diario annotava quanto gli era capitato quel mattino, intorno alle nove, nell’anticamera di un fotografo: una signora in vestaglia, prima, e poi un grosso signore anziano in pigiama, e poi una giovane ragazza in accappatoio, e poi ancora una signora zoppa molto in là cogli anni, tutti con un bicchiere, uno spazzolino da denti e un tubetto di dentifricio in mano, sortivano via via da una tenda di percalle a fiori, d’un lato, per passare ad una stanza affianco, l’unico bagno dell’appartamento, che aveva cinque vani e nel quale vivevano otto persone, fra cui il fotografo. È questi che spiega all’ospite italiano la situazione: «Certo, siamo fitti come le sardelle, ma possiamo dirci fortunati: c’è chi sta peggio. La noia più grossa è quella del bagno, al mattino. Ma ognuno di noi ha il suo turno. L’importante è aver grazia nel disagio».
Erano gli anni in cui la Germania usciva dal baratro in cui era precipitata una decina d’anni prima, ma il Wirtschaftswunder non faceva ancora sentire i suoi effetti sulle condizioni di vita dei tedeschi, che in gran parte continuavano a subire le pesanti conseguenze di una guerra persa, e persa nel peggiore dei modi. Di lì a poco avrebbe preso il via uno dei più poderosi piani di edilizia civile mai visti sul continente, ma intanto quello degli alloggi era uno dei problemi più grossi, e l’appartamento in cui Leo Longanesi era capitato quel mattino ne era esempio eloquente. Quello che maggiormente lo colpiva era che l’andirivieni per il bagno non solo era ordinato, ma anche dignitoso, e annotava: «Queste parole mi restano nell’orecchio per tutto il giorno: grazia nel disagio. Vorrei che a Roma qualcuno le comprendesse».  
Questo, credo, sia l’unico commento possibile al distillato di risentimento nei confronti della Germania che sta ubriacando la campagna elettorale in corso: nel bollitore il Wille zur Macht di Nietzsche, il Neue Ordnung di Hitler, perfino il Faust di Goethe, e dalla serpentina, goccia a goccia, pura germanofobia. Dovremmo prendere esempio dai tedeschi, in realtà avremmo dovuto farlo per tempo, ma non ne abbiamo la tempra, mai avuta. Così, a considerare il degrado in cui anneghiamo, ci torna utile credere che sia l’effetto delle mire egemoniche che la Germania non avrebbe mai smesso di coltivare. Ieri coi blindati, oggi coll’euro: questa è la vulgata che ci è stata offerta dai demagoghi di casa nostra, e sembra torni comoda, nel disagio, a gente che non ha mai mostrato alcuna grazia neppure nel benessere.   

giovedì 1 maggio 2014

Segnalibro

Vita intellettuale e affettiva di Benedetto Croce


Giorno di festa, le librerie sono chiuse, non possiamo precipitarci a comprare l’ultimo volume di Giancristiano Desiderio (Vita intellettuale e affettiva di Benedetto Croce – liberilibri, 2014), che Radio Radicale ci raccomanda come imperdibile. Lo faremo domani, senza meno, anzi arriveremo un quarto d’ora prima dell’apertura per essere sicuri di potercene assicurare una copia prima che vada esaurito, d’intanto riflettiamo su quanto l’autore ha detto nel corso della trasmissione, e trasecoliamo, perché di Benedetto Croce ci eravamo fatti un’idea diversa da quella che questo libro sembra voglia suggerirci, e noi siamo disposti a ricrederci: ben venga chi abbia argomenti per dimostrarci che non fosse il mostro di egolatria che emerge dalle molte e molte testimonianze che nel corso degli anni abbiamo raccolto qua e là, tutte convergenti nel rafforzare in noi la convinzione che proprio un grave vizio di anaffettività fosse al fondo della pomposa artificiosità del suo sistema filosofico. E tuttavia da subito, dal poco che ci ha detto Giancristiano Desiderio nel corso della trasmissione radiofonica, qualche perplessità ci assale.
Vero è, infatti, che Angelina Zampanelli abbia vissuto accanto a Benedetto Croce per vent’anni, ma non solleva alcun dubbio il fatto che egli abbia deciso di sposarla solo in punto di morte? Il periodo storico era quello in cui la convivenza more uxorio senza contrarre vincolo matrimoniale faceva della donna una concubina: tanto amore non riuscì a trovare modo di risolvere una situazione che avrà arrecato senza meno qualche imbarazzo alla signora? Si potrebbe obiettare che il filosofo fosse allergico al matrimonio, se non fosse che a pochi mesi dalla morte di Angelina Zampanelli egli si sposa con Adele Rossi. E basta leggere la lettera datata 16 febbraio 1914 indirizzata alla cugina Teresa nella quale le annuncia la decisione per aver modo di capire chi fosse veramente Benedetto Croce. 


Collaboratrice e badante, diremmo. Sposabile, a differenza di Angelina Zampanelli, perché di buona famiglia. Diciamo che sposare Angelina in punto di morte fosse da intendere come il versamento della liquidazione prima di passare a mettersi in casa una nuova governante, con altro tenore di contratto, visto che il datore di lavoro era ormai sotto la cinquantina.
Si dirà, e a ragione, che a quei tempi molti matrimoni, poi anche felici, avevano analoghe basi affettive. Siamo negli anni, infatti, in cui su un giornale bavarese appare il seguente annuncio a pagamento: «Impiegato statale di medio livello, cattolico, 43enne, cerca ragazza cattolica, vergine, che sia brava in cucina, nel cucito e nelle pulizie domestiche. Gradita la dote, ma non è indispensabile», che avrà buon esito portando all’altare il padre e la madre di Benedetto XVI, il quale, onorando la nobiltà dei valori sui quali era fondata la sua famiglia, lamenterà coerentemente, un secolo dopo, che ormai «si riduce l’amore a emozione sentimentale e a soddisfazione di pulsioni istintive».  Bene, tutto bene, così andavano le cose e non possiamo rimproverare a Benedetto Croce di aver avuto in Angelina, prima, e in Adele, dopo, due collaboratrici domestiche. Ma dipingercelo come uno col cuore grosso quanto Palazzo Filomarino – questo pare voglia farci credere Giancristiano Desiderio – francamente è troppo.