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@ladygaga                     @Pontifex_it

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giovedì 13 dicembre 2012

Il cosiddetto carisma



parafrasando l’adagio sull’araba fenice,
che ci sia ognun lo dice, cosa sia niun lo sa
 

1. Luigi Manconi scrive: «Da secoli sappiamo che il carisma, nella sua origine religiosa come in quella laica, rimanda a una sorta di grazia: qualcosa, cioè, che eccede la dimensione razionale per mobilitare risorse emotive e stati d’animo profondi, influenze sottili e suggestioni tanto impalpabili quanto coinvolgenti, dalla dedizione alla trance» (Il Foglio, 11.12.2012).
È vero, il carisma ha caratteri sostanziali e formali in tutto simili nel leader di un movimento religioso e nel leader di un movimento politico. È sempre una leadership di tipo carismatico, d’altronde, a conferire carattere religioso ad un movimento politico o carattere politico ad un movimento religioso. Direi di più: senza un leader carismatico è praticamente impossibile che un partito assuma forma di chiesa o una chiesa assuma forma di partito. La formula è apodittica, ma non conosco caso che smentisca.
Altrettanto vero, inoltre, è che in un movimento a guida carismatica sono sempre rintracciabili, e con estrema facilità, elementi di natura psichica, per lo più inconsci, che inducono ad una dipendenza, la cui più peculiare espressione sta nella cieca devozione al leader, al quale Dio – o la Natura – avrebbe conferito poteri eccezionali e virtù straordinarie.
Quando si parla di carisma, è inevitabile citare Max Weber, che in un saggio più citato che letto afferma che si tratta di quella «qualità della personalità di un individuo, in virtù della quale egli si eleva sugli uomini comuni ed è trattato come uno dotato di qualità soprannaturali, sovrumane, o quanto meno specificamente eccezionali, non accessibili alle persone normali, considerate di origine divina, basate su poteri magici» (Wirtschaft und Gesellschaft, 1922). È la «qualità» che in Luigi Manconi diventa «una sorta di grazia».
È su questo punto ch’io ritengo si commetta un grave errore, che è quello di considerare il carisma come un dato oggettivo, incontestabilmente reale. A mio modesto avviso, invece, il carisma è un prodotto relazionale e, anticipando le conclusioni, penso che si dovrebbe smettere di considerarlo come «una sorta di grazia» della quale un leader può essere dotato o meno, ma «una sorta di disgrazia» nella quale incorrono quanti si fanno seguaci di un leader dalla personalità severamente disturbata.
Luigi Manconi pare non trascurare questo aspetto e infatti scrive: «Non mi interessano in alcun modo le conseguenze direttamente politiche e tanto meno sociali di una simile condizione. Mi interessa, qui, solo ed esclusivamente il suo effetto psichico: e, tra le conseguenze che ciò ha sulla coscienza individuale, lo stato di dipendenza che comporta. Per dipendenza intendo una peculiare forma di sudditanza fisica o psichica (ma anche fisica e psichica) da un singolo o da un gruppo, da un comportamento o da una sostanza, da una combinazione di eventi o da un clima. […] Dipendenza [che] non offre scampo né tregua e non ha un andamento progressivo e una crescita lineare [ma] si presenta, da subito, in forma parossistica, come pandemia e come emergenza clinica».
Tutto esatto, anzi, direi che qui siamo ad un passo dal liberarci dall’errore di fissare il significato di ciò che chiamiamo carisma al suo etimo – siamo, cioè, vicinissimi al capire che un movimento a guida carismatica realizza una «psicopatologia di gruppo» – ma per allontanarcene con uno scarto che francamente è incomprensibile, perché Luigi Manconi conclude: «Eppure deve essere bellissimo precipitarvici, perdersi in quell’“inconscio mare calmo”, smarrirsi in quella vertigine».
Lo spunto per parlare del carisma e dell’«effetto gorgo» cui si abbandonano i seguaci di un leader carismatico gli è offerto da un editoriale di Giuliano Ferrara nel quale una «feroce rappresentazione» della leadership di Beppe Grillo s’attaglia pure a quella di Silvio Berlusconi, dunque è probabile che in quel «deve essere bellissimo…» vi sia una buona dose d’ironia. E tuttavia, se pure così fosse, sarebbe ironia fuori luogo: non si ironizza su uno stato patologico, non si sfotte chi è malato, non è affatto divertente dire «beato te» a un tossicodipendente.

2. Su queste pagine ho più volte affrontato la questione del carisma, anche se non l’ho mai trattato come un problema isolato dal contesto in cui si riscontra più di frequente, che è quello del gruppo ad impronta settaria. Nel discutere degli elementi che caratterizzano questo genere di gruppo ho quasi sempre fatto ampio ricorso ai contributi che la letteratura psicoanalitica fornisce al riguardo e la stretta correlazione tra leadership di tipo carismatico e settarismo, che qui può darsi appaia non adeguatamente argomentata, è tutta nelle voci bibliografiche cui ho rimandato (Otto Kernberg, Le relazioni nei gruppi, Raffaello Cortina Editore 1999; Marc Galanter, Culti, SugarCo 1993; Robert Cialdini, Le armi della persuasione, Giunti 1995; Manfred Kets De Vries, Leader, giullari e impostori, Raffaello Cortina Editore 1994): testi nei quali il gruppo ad impronta settaria trova ragione del suo “momento” psicopatologico nella natura della rete relazionale che si realizza tra i suoi componenti, ma solo nella dimensione della dipendenza dell’intero gruppo ad un leader dai connotati caratteriali e comportamentali ben precisi, seppure in un ventaglio di variabili discretamente ampio. Bene, questi connotati sono costantemente funzionali alla rappresentazione delle virtù e dei poteri che il sociologo considera come il «convesso» del leader, ma che lo psicoanalista riconosce come il «concavo» del gruppo.
Qui non citerò ancora i passi già citati in passato, ma approfitterò della felice coincidenza della traduzione in italiano di un breve saggio di Alexander Haslam e Stephen Reicher (Il segreto del carisma) pubblicato su un fascicolo di Le Scienze (Mente, X/96 – pagg. 24-31), ancora in edicola, che ha il pregio di sintetizzare assai bene le ragioni del guardare al «concavo» del problema, lasciando perdere il «convesso» di cui Dio – o la Natura – avrebbero dotato un leader al quale sia unanimemente riconosciuto il carisma fuori e dentro al gruppo che guida.
«Sono i seguaci a distinguere il leader dagli altri [individui del gruppo] e così gli conferiscono carisma. Ricerche empiriche [lo] confermano, e in particolare il lavoro svolto da James Meindl della State University of New York a Buffalo e dai suoi colleghi. Meindl […] ha analizzato 30.000 articoli di quotidiani che menzionavano la leadership di manager aziendali. Nel 1985 riportarono una forte correlazione fra riferimenti a leadership carismatiche e migliori performance dell’azienda. La scoperta suggeriva due possibilità: o le decisioni del leader avevano condotto a miglioramenti organizzativi, o quando la gente nota che una società ha performance migliori, ne deduce che il risultato dipende da una leadership carismatica. Per risolvere questo problema Meindl ideò un esperimento che completasse lo studio. […] Presentò ad alcuni studenti di business school le informazioni biografiche sull’amministratore delegato di una società di fast food, insieme alle performance dell’azienda per un periodo di dieci anni. Ad alcuni partecipanti venne detto come la compagnia fosse passata dal fare profitti a subire perdite (crisis decline), ad altri fu mostrato come gli affari fossero sempre rimasti in perdita o in uno stabile profitto, e ad un terzo gruppo venne detto che si era passati da perdite a profitti (crisis turnaround). Infine fu chiesto ai partecipanti di valutare il carisma del leader in una serie di scale che valutavano le performance dell’azienda. Sebbene il carattere fosse sempre descritto allo stesso modo, il leader venne ritenuto carismatico quando le fortune dell’azienda erano migliorate. Meindl concluse che il carisma non è una caratteristica personale del leader, ma un attributo creato dai seguaci sedotti dalla “storia d’amore della leadership”. In breve, il carisma è più un’illusione che un tratto caratteriale». Aggiungerei: quando le cose mettono male per un movimento a guida carismatica, non si è soliti sospettare che il leader abbia perso il suo carisma?
Ma non è tutto. «Nel vedere il carisma c’è di più che osservare il successo. Prove ottenute in altre ricerche suggeriscono che difficilmente attribuiamo carisma all’allenatore di una squadra avversaria che straccia la nostra, o al leader di un partito rivale che sconfigge il nostro alle elezioni. Ci vuole, insomma, un leader che abbia successo per noi». È in gioco – proseguono gli autori – «il senso di us-ness (in italiano potremmo dire senso di “noi-ezza”) che riconosciamo quando ci riferiamo a “noi americani”, “noi studenti”, “noi tifosi della Juventus” e così via. […] Quando ci definiamo appartenenti a un gruppo […] cominciamo a vedere quel collettivo come diverso, e migliore, di altri gruppi. […] Tendiamo anche a riconoscere gli altri membri del nostro gruppo come più utili a far progredire gli interessi del gruppo di quanto possano esserlo degli estranei. Una ricerca condotta dalla psicologa Daan van Knippenberg dell’Università Erasmus da Rotterdam e dai suoi colleghi Nathalie Lossie e Henk Wilke ha mostrato che indipendentemente dagli argomenti addotti dai leader per spiegare nuove strategie politiche […] [i seguaci] sembrano più influenzati da quei leader i cui punti di vista sembrano rappresentativi di quelli del [movimento politico che guidano] […] In altre parole, prima di affidarci ad un leader abbiamo soprattutto bisogno di credere che sia “uno di noi”».

3. Siamo dinanzi ad evidenze di tipo sperimentale, ma che ci consentono di trovare significative concordanze con quanto abbiamo acquisito dalla teoria psicoanalitica dei gruppi.
Nelle straordinarie virtù e negli eccezionali poteri che attribuiamo ad un leader, ma che invece riteniamo egli possegga per «una sorta di grazia», vi è l’investimento emotivo di un “noi” che mira a un successo: il leader carismatico risponde ad un bisogno che va dalla più bassa frustrazione dinanzi ad ostacoli che riteniamo insormontabili alla più alata speranza di essere il sale della terra e di essere destinati a fecondarla del meglio del meglio. In altri termini, potremmo dire che col conferimento del carisma ad un leader troviamo sollievo alla nostra impotenza ed investiamo energie psichiche nella costruzione di un prodigio che ce ne liberi. Di qui quella tensione soteriologica che dà coloriture messianiche a un leader politico e che lo rende in tutto simile al sommo sacerdote che amministra un culto religioso facendoci da ponte per una dimensione ultraterrena. Di qui la sostanziale e formale similitudine vi ho fatto cenno in precedenza che viene a realizzarsi tra partito e chiesa quando al leader politico o a quello religioso viene attribuita «una sorta di grazia»: il leader politico diventa incarnazione di una potenza divina, il leader religioso diventa il mandatario di un progetto divino da compiersi nel sociale.
E tuttavia non tutto torna, perché non sono affatto rari i casi in cui, a fronte di un evidente «crisis decline» del gruppo, un leader carismatico non perde affatto carisma agli occhi dei suoi seguaci. Sembrerebbe paradossale, ma non lo è affatto quando agli elementi fin qui considerati se ne aggiunge un altro, che è quello più patognomonico del leader – cito Otto Kernberg – «con imponenti caratteristiche paranoidi e narcisistiche». In questo caso, il gruppo è indotto a considerare il «crisis decline» come effetto non già di una perdita delle eccezionali virtù e dei poteri soprannaturali di cui prima il leader era dotato, e ora non più, ma come segmento di una parabola che porta al «crisis turnaround» solo attraverso un atto sacrificale, che altro non è che forma sublimata delle pulsioni autodistruttive del leader.
Troppo complicato? Si fa presto a rendere tutto semplice con un esempio: quello dei radicali di Marco Pannella, un caso di scuola in cui il carisma si trasforma in marasma senza che venga meno la devozione dei seguaci al proprio leader, con quanto di patologico è da attendersi nella rappresentazione della «us-ness» (Kernberg parla di «effetti paranoiagenetici» che si strutturano in una dimensione morale - cap. VII e cap. IX). Ma della «cosa radicale» ho già parlato tanto e non penso che sia il caso di annoiare il mio lettore ripetendo il già detto.   

mercoledì 12 dicembre 2012

martedì 11 dicembre 2012

[...]


Lasciando perdere quello che diceva e ponendo attenzione solo a come lo diceva – tono, mimica, postura concludevo: «A mio parere, non è un addio e non è neppure una rinuncia alla leadership» (Malvino, 26.10.2012). È che il ringhio della bestia è sempre ambiguo, mentre orecchie e coda non mentono mai. Annunciava che non avrebbe presentato la sua candidatura a premier, ma quello scatto della spalla sinistra (0:09) rivelava un insopportabile fastidio alla sola idea.  


Corrispondenze

Non te l’ho mai detto, ma è un annetto che il cielo è vuoto, e non sono più cristiano. Non sono più niente, direi (non ho ancora capito le sfumature tra ateismo e agnosticismo). Vediamo poi come va. Va da sé che, se te lo scrivo, una ragione c’è: è anche colpa tua, fra gli altri. Non so se ringraziarti o essere arrabbiato, ma propendo più per la prima.
Andrea


Non darmi meriti o colpe che non ho, non ci voleva molto a smontare la truffa. Ti abbraccio,
Luigi

lunedì 10 dicembre 2012

[...]

Scorro i nomi degli autori che riempiono tre scaffali alle mie spalle, quelli dedicati all’apologetica cristiana: Giustino, Cipriano, Tertulliano, Origene, Lattanzio, Agostino… Poi torno alla lettura di Francesco Agnoli e concludo che la difesa argomentata del cristianesimo – arte per alcuni, per altri vera e propria scienza – è andata a finire proprio nella merda. Contro gli ebrei, contro i pagani, contro i musulmani, contro i luterani e poi contro il razionalismo, l’illuminismo, l’agnosticismo, l’ateismo, intelligenze tese fino allo spasimo nella costruzione di sofismi nei quali le tautologie erano avvolte così bene da sembrare verità indiscutibili, e qui invece che c’è? C’è uno che s’arrampica sugli specchi nel tentativo di convincerci che, «se è vero che la chiesa ha alfabetizzato l’Europa, allora è giusto che non paghi l’Imu» (Il Foglio, 6.12.2012).
Miserabile il fine, risibile l’argomento: «Con il crollo dell’impero romano – scrive Agnoli – l’istruzione viene a mancare. Solo i monaci, indefessi lavoratori vivificati dalla virtù teologale della speranza, dopo aver arato e coltivato i campi, leggono, studiano e copiano nei loro scriptoria le opere antiche e moderne. […] I monaci non solo copiavano i testi, ma civilizzavano le popolazioni barbariche, scrivendo per loro poesie, preghiere, grammatiche e dotando quei popoli di un senso della storia. […] Durante i secoli dell’Alto medioevo l’istruzione è impartita dalle scuole monastiche e dalle scuole cattedrali, nelle quali si insegna il principio della fides quaerens intellectum, e che costituiscono l’antefatto delle università. […] Se ci spostiamo più avanti nel tempo, è con il Concilio di Trento che nascono numerosi ordini religiosi dediti all’istruzione dei poveri, altrimenti destinati all’analfabetismo…».
Bene, tante falsità meriterebbero soltanto un fitto lancio di fumanti palle di letame. Basterebbe rammentare che la chiesa è sempre stata contraria all’istruzione di massa, fino a non più di un secolo e mezzo fa, e a chi sapeva leggere ha sempre fatto divieto di leggere unenorme quantità di opere e, almeno fino al 1820, perfino di possedere una Bibbia. D’altronde il rogo di libri è usanza di cui non si ha notizia prima dell’avvento del cristianesimo (At 19, 19-20). Di quale «istruzione» va blaterando, allora, il nostro apologeta da quattro soldi? Di quella di cui la chiesa si fece monopolista per secoli, allo scopo di conquistare e mantenere una posizione egemone, per esercitare un’azione di controllo sulle élites e sul potere politico. La scuola cattolica cui Agnoli vorrebbe fosse esente dall’Imu non è che la forma residuale dello strapotere dei chierici lungo un arco di tempo che copre più di un millennio e che è stato lo strumento per foggiare l’Europa a misura dei loro interessi. Che oggi trovano difesa nello sgangherato bignamino di uno stronzetto.  

venerdì 7 dicembre 2012

Scendo in campo, dice



I “destrutti”


Martedì 4 dicembre, su la Repubblica, Pietrangelo Buttafuoco firma una pagina da incorniciare: è «Il dizionario dei “destrutti”», lemmario in 23 voci – da «Alfano, Angelino» a «Zanicchi, Iva» – di un centrodestra al marasma. Il cappello introduttivo è un epitaffio: «Fece di un acquitrino una città: Milano 2. Fece di una tivù da scantinato un impero editoriale: Mediaset. Fece di una squadra nobile ma decaduta un’invincibile armata: il Milan. Fece di una maggioranza politico-culturale un ventennio di lotta e di governo, quel berlusconismo che, al netto di avanspettacolo e arci-Italia, si conclude con un incredibile fallimento. Di strategia, tattica e visione. L’unica eredità lasciata da Silvio Berlusconi, alla fine, è quella della destra distrutta».
Non era la prima volta che Buttafuoco firmava una pagina su la Repubblica: l’esordio, venerdì 9 marzo, con «Le signorine dell’ironia – Da Franca Valeri a Geppi Cucciari, una risata seppellirà il mammismo». Pazzi per Repubblica la definiva «notizia dell’anno» e commentava: «Pietrangelo Buttafuoco è diventato una firma di Repubblica! E che dirà ora Giuliano Ferrara, che lo ha lanciato? E il Gruppo Mondadori, che lo ha foraggiato? E il berlusconismo salottiero, che lo ha incensato?».
Nessun problema, invece. Neppure due settimane dopo, quando sul quotidiano di Largo Fochetti usciva «Intellighenzia padana – Il Pantheon culturale degli eretici leghisti» e a sollevare analoghe perplessità era Dagospia: «Miracolo a Repubblica! Pietrangelo Buttafuoco, il cosiddetto “fascio-islamista”, giornalista “fogliante” i cui romanzi mai venivano recensiti, entra a vele spiegate tra i collaboratori delle pagine culturali del giornale di Ezio Mauro (grazie a Scalfari?)».
Era già da qualche mese, in realtà, che la censura era caduta: sabato 1° ottobre, a firma di Salvatore Ferlita, la Repubblica aveva pubblicato una benevola recensione del suo ultimo romanzo, Il lupo e la luna (Bompiani, 2011), intervistando l’autore. Le critiche di Buttafuoco al centrodestra e a Berlusconi, invece, erano cominciate almeno due anni fa, dalla sua rubrica quotidiana sulle pagine de Il Foglio. Che da mercoledì 5 dicembre è scomparsa, senza uno straccio di spiegazione al lettore.
Solo una candida mammola può non vedervi uno stringente nesso causale con quanto Buttafuoco aveva firmato il giorno prima su la Repubblica, ma che è accaduto? Non è difficile intuirlo. «Il dizionario dei “destrutti”» ha mandato in bestia un bel po’ di cortigiani a Palazzo Grazioli ed è partita una telefonata altamente qualificata al Gruppo Mondadori. Possiamo provare a immaginarla.

«Pronto…»
«Ciao, Marina, sono papà…»
«Ciao. Dimmi…»
«Mi chiedono la testa di Buttafuoco per quella paginaccia uscita oggi su la Repubblica…»
«Ma infatti. Ho letto anch’io. Uno stronzo che sputa nel piatto nel quale mangia da anni…»
«Senti, facciamo valere il diritto di esclusiva che abbiamo, così impara…»
«Non preoccuparti, provvedo subito… Ma, lì, come vanno le cose?»
«Come le ha descritte Buttafuoco...»

giovedì 6 dicembre 2012

[...]


Ulrich e Moosbrugger


A Filippo Facci scappa di penna che, con la condanna di Alessandro Sallusti a 14 mesi di carcere, siamo dinanzi a «una sentenza sproporzionata benché formalmente ineccepibile»: a mio modesto avviso, si tratta di un grave infortunio retorico. Si è tanto speso, infatti, nel tentativo di convincerci che al direttore de il Giornale sia stato riservato un «trattamento ad personam», e ha ripetutamente insinuato, cercando di dar forza di argomento all’insinuazione, che l’inusitata severità della condanna non possa trovare altra ragione che nell’odioso pregiudizio di cui l’imputato è vittima, sennò che la sentenza sia stata così dura perché il querelante era un magistrato, sicché nella condanna al carcere vi fosse un fine suppletivo a quello di fare giustizia, quello di intimidire chiunque voglia osare muovere una critica alla «casta» dei giudici. 
Tutta roba buona a costruire sul caso Sallusti «una questione di principio grande come una casa», poi la gaffe: «una sentenza sproporzionata benché formalmente ineccepibile» (Il Post, 5.12.2012).

È da decenni che Filippo Facci mastica diritto: non sa che in quel campo la forma e la sostanza sono (o dovrebbero essere) tutt’uno? Se formalmente ineccepibile, una sentenza ha sempre congrue proporzioni. E qui anche lui conviene che formalmente lo fosse. Alla condanna al carcere, infatti, si è arrivati per la preesistenza di condanne che l’imputato aveva collezionato per lo stesso reato e per l’esistenza di una legge che prevede il carcere per i recidivi. (Incidentalmente, si tratta di una legge voluta dal centrodestra e che il Giornale ha caldamente sostenuto lungo tutto il tormentato iter parlamentare, ma questo è del tutto secondario.)
Sarà espressione che suona male, dunque, ma la «spiccata capacità a delinquere» che la Cassazione ha riconosciuto nell’imputato sta nel combinato che la diffamazione è un reato e Sallusti è recidivo: formalmente – e sostanzialmente – il carcere non è pena sproporzionata.

Personalmente, ritengo che chi diffama non dovrebbe andare in carcere – anzi, ritengo che anche per reati più gravi dovrebbe essere l’ultima ratio – e in più ritengo che l’ex Cirielli (o salva-Previti, a piacere) sia una delle leggi più cretine dell’ultimo decennio. E tuttavia si tratta di norme vigenti delle quali un giudice deve tener conto sempre o solo quando ha davanti un signor nessuno?
Mi pare di averlo già scritto: qui ci troviamo di fronte ad un direttore responsabile che rivendica il diritto di essere irresponsabile, che si rifiuta di rettificare la mostruosa cazzata che ha mandato in pagina, che si ostina a non ammettere il suo torto anche quando validamente dimostrato, che non accetta le pene alternative al carcere cui le vigenti norme destinano un recidivo e che viola gli arresti domiciliari che gli sono stati concessi.

Viene il sospetto – delle due, una – che Sallusti abbia seri problemi psichici o lucidamente conti sul fatto che, giocando a fare la vittima, possa ribaltare la realtà in suo favore. In questo secondo caso, non ci troveremmo di fronte ad uno dei disturbi descritti da Heinz Kohut in Narcisismo e analisi del Sé (1971), ma di fronte a una patologia di sistema che eleva a martire un delinquente. Giacché non ci stupisce che per Moosbrugger il «suo diritto» sia la  «sua giustizia», ma che Ulrich voglia salvarlo sulla base di quello stesso assunto.    

mercoledì 5 dicembre 2012

martedì 4 dicembre 2012

Un uomo verticale?

Ma l’avete sentito? Un discorso da fare arrossire di vergogna chi ne aveva dette di cotte e di crude.
L’avevano dipinto come un moccioso ambizioso e spregiudicato, nel migliore dei casi, ma c’era stato pure chi s’era spinto a definirlo un corpo estraneo, una mutazione genetica della sinistra, una spora di berlusconismo portata dal vento in campo avverso, la punta di lancia di una oscura lobby d’affari con sede alle Cayman. E invece no, ne ha dato prova con un discorso da incorniciare, che ha strappato l’applauso anche ai suoi avversari: senza nulla recriminare ha ammesso la sconfitta, se n’è addossata tutta la colpa, se n’è scusato coi suoi, esortandoli a dare il massimo impegno per portare Bersani a Palazzo Chigi.
Ha detto che terrà fede a quanto solennemente promesso fin dall’inizio della sua corsa nelle primarie: sarà leale nei confronti di chi ha vinto, ne sosterrà il programma e la squadra, condividendone la linea e le scelte sulle alleanze. È quello che si aspettava dai suoi avversari se avesse vinto: si è impegnato a farlo lui, se avesse perso, e lo farà.
Soprattutto – e l’ha ripetuto due o tre volte – chi ha vinto ha vinto e chi ha perso ha perso: una scissione non gli passa nemmeno per l’anticamera del cervello, di costruire una corrente neanche a parlarne, non batte cassa per quel 40% che ha preso, non chiede poltrone per sé o per i suoi. Perché lui non inciucia. Lui non franceschineggia. Un uomo verticale, insomma.

Bello, eh? Oggi, poi, neppure sono passate 48 ore, apri Il Fatto Quotidiano e leggi uno dei suoi che già fa il vocione: «È un’esigenza di Bersani considerare questo 40%. Io sono a disposizione, sarei un ottimo ministro delle comunicazioni». Mica uno strapuntino, Mario Adinolfi vuole un dicastero.
Parla a nome di Matteo Renzi, non cè ombra di dubbio, ma avendone mandato? Se sì, ciò che sembrava verticale in realtà era obliquo: Renzi non avrebbe alcuna intenzione di tener fede all’impegno preso domenica sera, semplicemente non vorrebbe assumersene la responsabilità in prima persona. L’obliquo, però, si farebbe viscido nel dare il mandato proprio ad Adinolfi, invece, chessò, a un Ceccanti o a un Ichino.
Oppure no, Adinolfi parla a nome di Renzi, ma senza alcun mandato, però ritenendo di interpretarne le intenzioni, che sarebbero assai diverse da quelle dichiarate domenica sera: in pratica, Renzi sarebbe verticale, ma per Adinolfi è obliquo.
Non se ne esce: o Renzi smentisce Adinolfi e lo diffida dal prendere iniziative personali (meglio sarebbe, in realtà, che se lo levasse dai coglioni) o quello che di Renzi dicevano i suoi avversari era proprio vero (ma non faceva paura, faceva ridere).  


Aggiornamento
Adinolfi si rimangia quel che ha detto. O glielo fanno rimangiare. 

lunedì 3 dicembre 2012

[...]


[...]


«I dissensi sono più visibili degli accordi come il male è più vistoso del bene. Ciò non toglie che la vita non sarebbe possibile, se in realtà i consensi non fossero superiori ai dissensi ed il bene più duraturo, più serio e più comprensivo del male. Sarebbe perciò desiderabile che gli italiani acquistassero il gusto di consentire e sperimentassero la gioia del dir sì».
Il giorno che ammazzarono Aldo Moro tirai un sospiro di sollievo. Povero ingenuo che ero, pensai che insieme a lui morisse pure un certo modo – tutto italiano – di far politica. Sbagliavo. Se ne era stato l’artefice, moriva troppo tardi: aveva già avvelenato i pozzi. In realtà – ci avrei messo una decina d’anni per capirlo – ne era stato solo la più esemplare espressione: con lui – in lui – quel modo di far politica trovava solo il più efficace stilema, facendosi proverbiale. Non ne era stato l’artefice, ma solo l’antonomasia. Fulgida, peraltro, perché anche la rogna può avere in certe croste qualche aspetto affascinante, e Aldo Moro ne aveva.
Difficile parlarne, oggi che è un santino. Fosse ancora vivo, fosse morto in altro modo, sarebbe più facile, ma la condanna delle Brigate Rosse lo ha reso ingiudicabile, si può solo venerarlo come martire, e guai a non farlo, si farebbe pessima figura. Mai come oggi, invece, andrebbe disseppellito e portato alla sbarra come il maggior responsabile del cancro che divora la politica italiana. Può darsi, infatti, che la molecola di base fosse già lì, qualcun altro l’abbia lavorata fino a trasformarla in tossina, ma è con Moro che diventa cancerogena. È Moro che promuove ad arte il mezzuccio della mediazione ad ogni costo, è lui che snerva il conflitto in trattativa, è lui che porta il diverso e l’uguale a quell’equilibrio che li corrompe entrambi. Per il «gusto di consentire», nella «gioia del dir sì».


domenica 2 dicembre 2012

2.12.2012


... e il trattore vroom
e il pulcino o-oh...


Daje

Voglio bene a Francesco Cundari, perciò con la delicatezza che non userei con altri – taglierei corto con un «ma va’ a raccoje cicche!» – correggo la lettura che egli dà de Er compromesso rivoluzzionario. Ciccio scrive che queste primarie gli hanno dato il dejà vu di tutti i mugugni sollevatisi dalla base a lamentare l’inclinazione all’inciucio che pare tentazione connaturata del vertice, dalla svolta di Salerno al compromesso storico, alla bicamerale, all’idea di un’alleanza con l’Udc di Casini, e scrive che trova la migliore obiezione a questi lamenti nei versi dell’Anonimo romano che scrisse:

Chi la vo’ cruda, ‘mbè, chi la vo’ cotta,
tutti però a volemme sur carvario
p’isolamme e potemme da’ ‘na botta.

Finché ho sbottato e a ‘sto catilinario
j’ho fatto: “Però er mio, porca mignotta,
è un compromesso rivoluzzionario”.

Bene, si tratta di una citazione infelice. L’Anonimo romano ha lo stesso disagio, le stesse riserve, gli stessi timori della base, ma è uomo d’apparato, deve obbedienza al capo e deve farne sue le ragioni, lasciando nell’intimo le sue perplessità. Che non mancano.


Daje, Ciccio, non è rivoluzzione, è ’na tattica: la plebe ha naso e lo storce, questo è tutto.  



Quanto rimane di Croce


A sessant’anni dalla morte, di Benedetto Croce ci rimane solo il «carattere». La sua logica e la sua estetica sono ormai coperte da uno spesso strato di polvere sotto il quale vanno a curiosare solo pochi eccentrici. Dei suoi studi storici, tolto quanto oggi sarebbe improponibile perché guasto già nel metodo, ci resta appena qualche pagina felice. Del critico letterario, invece, conviene tacere: non aveva altri strumenti che il gusto, peraltro assai discutibile. Così per il politico, che, visto alla giusta distanza, ha già da tempo rivelato tutti i limiti che stavano nel «carattere»: è a lui che dobbiamo il liberalismo meno liberale dEuropa, un liberalismo tutto metafisico, politicamente inerte, perfino un po codino.

Giudizio ingeneroso? A me non pare. D’altra parte, se vi è capitato di porgere l’orecchio a quanto si è detto di Benedetto Croce in occasione di questo anniversario, non avrete fatto fatica a cogliere qualche imbarazzo anche in chi ne incensava la figura, perché a levare tutto quanto è irrimediabilmente superato in ciò che scrisse resta appena il necessario per riempire mezza paginetta di enciclopedia: neo-hegeliano della scuola di Bertrando Spaventa, idealista di ritorno, insinuò nella cultura del paese lo sciagurato scetticismo verso la scienza che ci è costato, e ancora ci costa, il gravissimo ritardo che abbiamo accumulato nei confronti dell’Europa. Antifascista della secondora, attraversò il Ventennio senza  grosse difficoltà, accettando di buon grado il ruolo tacitamente pattuito col Regime, quello del dissidente al quale non veniva torto neanche un capello. Intanto pontificava: la vera libertà – diceva – è quella teoretica, che costruisce la realtà a partire dalla conoscenza, la quale, insieme all’intuizione, è espressione dello Spirito, che si manifesta nella Storia come ipostasi dell’Io trascendente. La tragedia è che due o tre generazioni di intellettuali si sono sciroppati questo beverone.

Tra i discorsi commemorativi vale la pena di segnalare quello di Giorgio Napolitano, che dà la misura di quanto Benedetto Croce sia davvero morto, morto del tutto. Il filosofo, lo storico e il letterato stavano sullo sfondo, meglio evitare di metterli in primo piano, sennò sarebbe giocoforza entrato in scena Antonio Gramsci: il commemorando si è dovuto accontentare di mostrarci il «carattere», per giunta affacciato alla finestrella temporale di otto mesi tra il 1942 e il 1943. Cadono le bombe su Napoli e il Padre della Patria scappa a Sorrento, però è tanto triste, perché può portarsi appresso solo qualche migliaio di libri. Poi Sorrento non si rivela tana sicura e gli Alleati lo portano in motoscafo a Capri. Anche lì don Benedetto è triste, dorme poco perché pensa all’Italia sventrata e riempie il suo taccuino di elevati concetti…
Insomma, sarà stato senza dubbio involontario, ma ne è uscito un bel gavettone.

Cosa rimane di Benedetto Croce, oggi, oltre il «carattere», oltre quella figura di madonna pellegrina portata a spalla da Badoglio e da De Nicola? Tutto sommato, rimane solo il suo Perché non possiamo non dirci cristiani. Più citato che letto, d’altronde, sicché per tanti è un libro, e invece si tratta solo di quindici paginette. Puzzano come l’autore e forse questa è la volta buona per leggerle e commentarle. L’occasione mi è data dall’ennesima citazione. Era su Il Foglio di giovedì 29 novembre: «I laicisti non gli possono perdonare un testo coraggioso e innovativo: Perché non possiamo non dirci cristiani». Coraggioso e innovativo? Sorvoliamo su tutte le altre stronzate disseminate nel testo – una per tutte: «Amo vedere in lui il più coerente prosecutore - malgré lui-même - di Nietszche» – e passiamo a contemplare il coraggio e l’innovazione che stanno in 



Prima osservazione: «cristiani» sta tra virgolette. Non possiamo non dirci cristiani, ma dando a «cristiano» un significato diverso da quello che ci suggerisce un termine che sta per «seguace di Cristo». Anche se non vogliamo, anche se non volessimo, siamo «cristiani»: lo siamo anche se non siamo «seguaci di Cristo». Dunque dobbiamo? No, sennò avremmo trovato Perché dobbiamo dirci «cristiani» (un salto qualitativo che toccherà a Marcello Pera, mezzo secolo dopo). Qui invece vuol essere rappresentata una tensione che va dal resistere al cedere: Croce ritiene di essere in grado di convincerci, e infatti non mette neanche un punto interrogativo. Nelle sue intenzioni non c’è quella di convertirci sul piano religioso, ma su quello dove «cristiano» piglia un’accezione – non tarderemo a scoprirlo – culturale, dove però «cultura» ha significato estensivo e assume valenza di stadio antropologico.
Ma leggiamo.


Cominciamo male, con una reticenza.  «L’oggetto di questo discorso», infatti, è proprio l’autocompiacenza:  anche qui – vedremo – «spirito cristiano» sta per rappresentazione (ypo-krisis). Infatti si tratta di un discorso...  


Il problema è che si tratta di una storia «cristianamente» intesa, di una verità che è il risultato di un processo di inveramento «cristianamente» perseguito: ci muoviamo in una tautologia. 


Siamo dinanzi a un esemplare saggio di idealismo: il cristianesimo non è un fatto nella storia, ma un pensiero che la penetra e la muove. Per crederlo non  c’è bisogno di essere cristiani (credere che Dio si sia incarnato), basta essere «cristiani» («crocianamente»   cristiani): dare per scontato che il pensiero sia qualcosa che non nasce nella materia biologica, ma la informa. Levento non si chiama Cristo  – può anche non chiamarsi Cristo – ma è comunque irruzione del trascendente nellimmanente: in premessa è assunto come dimostrato che lo spirito si manifesti nella storia come ipostasi di un io trascendente. In altri termini, siamo dinanzi alla spiegazione del cristianesimo grazie al dogma che lo fonda. La persuasione crociana si rivela espediente retorico da rubricare come fallacia. Da subito ci è chiaro che Croce sarebbe stato più onesto se avesse scelto un altro titolo: Perché non posso non dirmi cristiano. Prova del nove?


Non può darsi ratio di una rivoluzione cristiana così sentita senza dare per scontato che lanima nel cui centro essa operò stesse lì da tempo ad attenderla, inadeguata prima e finalmente pronta proprio quando Dio decise di incarnarsi. Un cristiano (senza virgolette) ci vedrebbe il progetto divino, il «cristiano» di Croce ci vede il lavoro dello spirito. E infatti scrive:


Un cristianesimo che perde i suoi connotati teologici per diventare la cifra storicamente leggibile di un procedere umano mosso dallo spirito. Cè però da fare la dovuta distinzione tra spirito e Spirito Santo, sennò la tautologia sarebbe evidente in quanto tale. E allora Croce ci mette una toppa:


Fatto. La «forza trascendente e straniera» è diventata «atto originale e creativo». Il fatto è che per Croce la creazione – nel pensiero, nellazione, nel linguaggio, nellarte, nella storia – è sempre «creazione spirituale». Lo vedremo più avanti, tra due capoversi, quando respinge lobiezione (la «parola di critica rampogna») che questo voglia dire «idealizzare» le dottrine e i fatti, facendo rientrare dalla finestra il trascendente fatto uscire dalla porta: afferma che in quell«idealizzarli» è attiva l’«intelligenza» che li intende. In parole povere, lo spirito si intellige in ciò che ha creato.
Tutto il procedere di Croce sta in questo tentativo di fondare uno statuto dello  «spiritual come trascendente immanentizzato, sicché potremmo dire che tra cristiano e «cristiano» la differenza sostanziale sta nel momento in cui si coglie l’ipostasi: nel cristiano si ha con  l’avvento di Cristo, mentre nel «cristiano» è antecedente, per cui l’avvento di Cristo realizza la possibilità, prima negata, che lo spirito si riconosca in ciò che ha creato. L’evento, che per il cristiano segna una rottura nella storia (al punto che tutto di lì in poi sarà a.C. o d.C.), per il «cristiano» segna il superamento di una tappa. Vediamo cosa accade.    


La «creazione spirituale» è di fatto una scoperta: il trascendente opera nell’immanente un progresso che gli consente il ri-conoscersi. 


Siamo dinanzi ad una interdizione che in qualche modo è analoga a quella della Pascendi di Pio X: lì vi era il divieto di leggere il cristianesimo come capitolo di storia, qui vi è il divieto di sottoporlo a critica. Altro che «coerente prosecutore di Nietzsche»! Croce ci ingiunge di sospendere ogni giudizio addirittura sui mezzi coi quali il cristianesimo realizzò la conquista dell’occidente. 


Quella che Karlheinz Deschner ha definito Kriminalgeschichte des Christentums trova in Croce una sistemazione nella naturale difficoltà che la verità incontra nel processo veritativo: cataste di morti come trascurabile effetto collaterale del progresso umano in tensione verso lassoluto. E qui – sia consentito il bisticcio incrociamo Croce in un luogo comune molto trafficato in tutto il Novecento.  


Comincia a farsi chiaro perché non possiamo non dirci cristiani: significherebbe perdere centralità, egemonia, primato antropologico, significherebbe svendere loccidente. Siamo ad una elaborazione neanche troppo sofisticata del cristianesimo come instrumentum regni: Croce si fa apologeta del patrimomio di famiglia e ci invita a chiudere un occhio su come lo abbiamo accumulato.


Sembra di scorrere le pagine nelle quali Karl Marx elogia le virtù della borghesia, ma almeno in quelle le presenti condizioni dello stato borghese non sono affatto estranee al discorso, anzi. Croce, invece, tronca.  


Sospeso ogni giudizio su come siamo allapice del progresso umano, seduti sul groppone dei barbari che a buon diritto possono non dirsi cristiani, concediamo un occhio benevolo allalbum di famiglia e riscriviamo la storia degli antichi dissapori: il cugino accoltellò lo zio, il nonno azzoppò il babbo, ma in fondo, via, eravamo e siamo sangue dello stesso sangue.


Di fatto e di diritto siamo cristiani quanto il papa, forse anche di più. 


Non se ne voglia, il papa, ma sappia che in Gesù era preannunciato Croce. 


Non fosse chiaro:


Sicché: 


Come dire: Santità, abbia pazienza, ché Croce ci sta lavorando.


E qui, se siete veramente liberali, distinto vi dovrebbe scappare un «amen». Andate in pace, il discorso è finito. 

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Questo è quanto rimane di Croce. Andrebbe seppellito insieme al resto.