domenica 11 marzo 2012

Hans e Greta, nomi di fantasia

Dev’essere stato assai frustrante farsi un culo grosso come una capanna, per anni, nel tentativo di dimostrare dalle pagine di Avvenire che non vi fosse alcuna ragione per aprire una discussione in sede legislativa sulle esenzioni fiscali di cui godono gli immobili di proprietà ecclesiastica, e che chiedere di discuterne fosse strumentale, per poi leggere in prima pagina, su Avvenire, che almeno una ragione s’era trovata e proprio Angelo Bagnasco, quello che gli passa la mesata, concedeva: “Discutiamone”. Roba da mangiarsi il fegato, povero Umberto Folena. Distrarsi, dunque, pensare ad altro, cambiare genere e registro. La bioetica, per esempio, ma alla mano.


Hans e Greta, nomi di fantasia, ma non richiamano alla mente Hansel e Gretel, quelli dei fratelli Grimm? Sarà per farci intendere che sono prigionieri di una strega? Che la casetta sarà di marzapane ma dentro vi si consuma un incubo? L’augurio è che i due bambini crescano e ammazzino la strega, che poi sarebbe il giusto lieto fine? 

venerdì 9 marzo 2012

Un metablog strafighissimo

Come dareste la notizia che La7 è stata condannata a risarcire Daniele Luttazzi per un milione e 200 mila euro più interessi e spese processuali per la chiusura anticipata, nel 2007, del suo programma “Decameron”? Probabilmente scegliereste un titolo del tipo: «Luttazzi vince contro La7», oppure: «Luttazzi vince causa con la La7», o ancora: «La7 perde causa “Decameron”». Per il lettore dalla memoria corta che non rammenta perché il programma fu chiuso (i responsabili dell’emittente ritennero che quel «Pensa a Giuliano Ferrara dentro una vasca da bagno…» potesse procurare noie), probabilmente aggiungereste un breve ragguaglio del tipo: «era satira», oppure, volendo un po’ allungare il titolo, «per i giudici si trattò di censura».
Ora, però, immaginate di avere una moglie che piglia la mesata da La7 e un debito di riconoscenza nei confronti di Ferrara, al quale il babbo vi raccomandò per entrare nel giro, e dite: come titolereste? Presto detto: «Daniele Luttazzi dice che La7 ha perso la causa contro di lui». «Dice», poi va’ a sapere se è vero, può darsi pure l’abbia persa lui, boh, chissà, passiamo ad altro: sapevate che la birra non va bevuta troppo fredda? No, eh? Siamo un metablog strafighissimo, ammettetelo. 

Bugiardini obliqui

Riporto la prima parte di un articolo che ieri era ospitato da Avvenire nel suo inserto èVita:


“A un mese circa dal previsto arrivo nelle farmacie italiane di EllaOne, la pillola dei cinque giorni dopo, e a poco meno di due anni dal debutto della Ru486, si affaccia sul mercato un’altra pillola dalle potenzialità abortive. Parliamo di Esmya, un prodotto a base di Ulipristal acetato, il principio attivo della stessa EllaOne. Esmya è il nome commerciale di un nuovo tipo di farmaco impiegato per il trattamento preoperatorio dei fibromi uterini nelle donne adulte in età riproduttiva. Il 27 febbraio la Gedeon Richter, la casa farmaceutica ungherese produttrice, ne ha annunciato l’autorizzazione all’immissione in commercio da parte della Commissione europea, decisione che segue il parere positivo del Comitato per i medicinali prodotti per uso umano dell’Agenzia europea per i medicinali del 16 dicembre 2011 e che si applica per tutti gli Stati membri dell’Unione europea. Trattandosi di Ulipristal, però, la prudenza si impone. Lo evidenzia un’interrogazione parlamentare al ministro della Salute presentata in settimana da Paola Binetti, che ribadisce i vantaggi del farmaco nel suo impegno specifico di cura dei fibromi, ma ne rileva il terribile potenziale. «Il prodotto – si legge – verrà messo in commercio in compresse da 5 milligrammi in blister da 28». È sufficiente un rapido calcolo per comprendere che «assumendo 6 compresse insieme si riproducono i 30 milligrammi di EllaOne, mentre con una decina si supera l’effetto della Ru486». Dopo il Cytotec, farmaco comunemente usato come anti-ulcera e abusato come abortivo clandestino, ecco che si rinnova, sotto nuove vesti, il problema dell’uso scorretto di un medicinale per ottenere effetti abortivi. Come fare a contrastarlo?...”.

Ho provavo a mettermi nei panni di chi considerasse necessario contrastarlo e con disappunto ho rilevato che Paola Binetti dava dalle pagine di Avvenire tutte le informazioni utili per un “corretto abuso” del farmaco.

mercoledì 7 marzo 2012

After-birth abortion

Un editoriale di Carlo Cardia (L’infanticidio nel deserto del nichilismo - Avvenire, 6.3.2012) mi dà occasione di dare finalmente una risposta a quanti mi hanno scritto, la scorsa settimana, per segnalarmi l’articolo di Alberto Giubilini e Francesca Minerva (After-birth abortion: why should the baby live? - Journal of Medical Ethics), che ha provocato pronte e vivaci proteste da parte di alcuni organi di stampa cattolici, giornale della Cei in testa. La tesi esposta nell’articolo, che oggi, dopo essere stato difeso dal direttore della rivista, è irreperibile sul sito della rivista (è scomparso anche l’abstract), è zoppa nella formulazione (“aborto post-natale” è contraddizione in termini) e nell’argomentazione (dirò perché): tutto, in pratica, poggia sull’assunto che il neonato non sia persona, come non lo è l’embrione, sicché le ragioni che giustificano l’aborto giustificherebbero anche l’infanticidio. Non c’è bisogno di essere volpini per capire che si tratta dello stesso argomentare di chi è contrario all’aborto, sempre, perché si tratterebbe di “infanticidio in utero” (altra contraddizione in termini).
In entrambi i casi siamo dinanzi a tizi che non riescono a scorgere nessun evento notevole nel nascere: per gli oltranzisti che sono contrari all’aborto la nascita sta già nel concepimento, per Giubilini e Minerva si nasce solo due, quattro o otto mesi dopo il parto. Superfluo dire che si tratta di due forzature inammissibili, almeno a mio parere.
Nel primo caso, infatti, l’ovocellula fecondata avrebbe già statuto di persona e dovrebbe essere considerata soggetto giuridico: voglia o no, una gravida sarebbe tenuta a portare a termine la gravidanza, anche se il frutto del concepimento è conseguenza di uno stupro, anche se la gestazione mette a rischio la sua salute fisica o psichica. Nel secondo caso, invece, il neonato non avrebbe alcun diritto: li maturerebbe tutti successivamente (i due autori dell’articolo non sono molto chiari sul quando). È evidente che in entrambi i casi si preferisca guardare un problema estremamente complesso da un lato solo.
Devo perciò deludere chi ha pensato che la tesi di Giubilini e Minerva fosse anche la mia. Per tutti, cito Giovanni Fontana, che mi ha scritto: “Credo tu sia d’accordo con l’articolo, al di là di una sostanziale rozzezza delle argomentazioni (comunque ben più sofisticate delle repliche avute dal grande pubblico), come lo sono io”. No, non sono affatto d’accordo con l’articolo. Le argomentazioni sono rozze, ma la tesi è palesemente insostenibile.
Agli altri – cito, tra tutti, Nicola Bergonzi, che mi ha fatto la cortesia di linkarmi tutto il necessario per questo post – dico che a mio parere il discrimine deve essere posto intorno all’epoca gestazionale oltre il quale il feto ha possibilità di vita autonoma (20-22 settimane). Non vorrei ripetermi: rimando alla polemica che si è consumata su queste pagine tra me e Francesco Maria Colombo, l’anno scorso.

Ma veniamo all’editoriale di Carlo Cardia, il quale pensa di poter approfittare di un articolo infelice, ancor più infelicemente argomentato, per poter mettere in discussione il diritto di una donna di interrompere una gravidanza, quando questa metta a rischio la propria salute e quando il feto non è ancora in grado di vivere fuori dall’utero.
“Credo si debba riflettere ancora sul terreno di coltura che ha favorito l’affermazione di tesi che prima neanche affioravano nel pensiero umano (se non in segmenti di estremismo votati all’irrilevanza), e sulle loro conseguenze. Il terreno di coltura è quello proprio del nichilismo, nel quale l’uomo si trova per caso a vivere e vive seguendo il caso, perdendo coscienza della propria umanità. In questo deserto non esiste verità alcuna, che ci parli e ci interroghi, da ricercarsi con fatica e gioia, diventi criterio di comportamento che avvicina gli uomini, li rende solidali, li fa crescere insieme. Esistono solo opinioni, tante quante sono le persone, tutte burocraticamente eguali, e ogni gerarchia di valore e giudizio è azzerata. L’uomo è abbandonato a se stesso, la sua possibilità di dominio è dilatata fino a comprendervi ogni cosa, a cancellare il concetto di bene e di male, scendendo nel declivio che porta al male assoluto, da consumarsi anche nel privato. Il male è spogliato della sua tragicità, esposto come merce da prendere o lasciare, teoria da accettare o rifiutare, nel silenzio della coscienza”. Cazzate. La tesi esposta nell’articolo di Giubilini e Minerva era espressamente un esercizio di logica applicato alla morale. Non aveva alcuna pretesa di normare, né avanzava proposta in tal senso. [Uso l’imperfetto perché il Journal of Medical Ethics ha ritirato l’articolo, convincendosi infine che fosse indifendibile.]
Altrettanto assurda quanto quella di negare a una donna una gravidanza libera e responsabile, la tesi di Giubilini e Minerva almeno aveva l’attenuante di non porgersi al legislatore come istanza irrinunciabile, tentazione sempre irrefrenabile per i cattolici, che, potendo, manderebbero in galera pure chi si fa le seghe.
Ovviamente è chiaro che Cardia e Avvenire abbiano il diritto di pensare ciò che vogliono e di scriverlo, ma il fatto che la rivista abbia rinunciato allo stesso diritto non dimostra affatto che l’ovocellula fecondata sia persona, ma è questo che Cardia vuol farci intendere: “Il velo teorico che appanna questi concetti fa crescere la vertigine in chi li legge nella loro realtà corporea, e fa riflettere”. Pensando di aver trovato prova provata della sua tesi nella resipiscenza del Journal of Medical Ethics, Cardia esagera e inciampa: “Si pensa alle parole di Fëdor Dostoevskij sul male che si reca ai più piccoli, come alla colpa più grave che esista al mondo”, e così sembra non aver mai letto I fratelli Karamazov, dove per la sofferenza dei piccoli innocenti Ivan chiama Dio a imputato, che trova in Alyosha un avvocato difensore in grave difficoltà. “Inizia un cammino a ritroso nella storia, e si dà corpo a ipotesi che sembrano appartenere alla fantasia corrotta del marchese De Sade”, dimenticando il Dio che stermina gli innocenti primogeniti degli egiziani per fare un favore al suo popolo eletto e che chiede ad Abramo di sacrificargli Isacco. Conviene andare a ritroso?

lunedì 5 marzo 2012

Il parente dell’eroe

Superando di pochissimi voti Rita Borsellino, Fabrizio Ferrandelli sembra avere vinto le primarie di Palermo. Senza dubbio seguiranno polemiche, forse anche chiassose, già se ne avvertono avvisaglie con oblique denunce di brogli e chiamata in giudizio di Pierluigi Bersani, colpevole di aver puntato un’altra volta sul cavallo sbagliato, anche se stavolta era il cavallo della scuderia che non perdeva da un pezzo. Si tratta delle solite polemiche che seguono tutte le primarie del centrosinistra, che una volta chiuse, chiunque le abbia vinte, dovrebbero vedere i candidati perdenti dare il solenne impegno di un pieno sostegno al vincitore e che invece, di regola, lasciano ferite più o meno purulente, risentimenti mal dissimulati, che di solito portano alle elezioni una coalizione pesantemente fiaccata, pronta a sfibrarsi se le vince e a parcellizzarsi se le perde. La litigiosità intestina mossa da ambizioni, sempre sovradimensionate a chi le indossa, sembrerebbe essere scritta nel dna del centrosinistra. Negli ultimi anni, poi, è sempre più evidente, talvolta con atroce evidenza, che sotto la vernice delle idee sfoggiate dagli opposti contendenti alla guida della coalizione c’è ben poco, spesso nient’altro che il marchio di una cordata.
Nel caso di Palermo, le polemiche sarebbero seguite anche se avesse vinto Davide Faraone o Antonella Monastra. Non così, c’è da scommettere, se avesse vinto la sorella del giudice che fu vittima di un attentato nel 1992. Per il nome che porta, la vittoria di Rita Borsellino sarebbe parsa altra cosa che la vittoria di un ex Idv sostenuto da dissidenti del Pd e da Raffaele Lombardo, chiacchieratissimo governatore della Regione Sicilia. Non è escluso che anche stavolta qualcuno insinuerà che la mafia possa averci messo lo zampino, è da escludere che sarebbe accaduto se avesse vinto Rita Borsellino: c’è da presumere che lo farà Leoluca Orlando, è il pezzo forte del suo esiguo repertorio.

A chi gli chiedeva chi avrebbe votato a Palermo, qualche giorno fa, su Raitre, Luigi De Magistris ha risposto: “Rita Borsellino, senz’alcun dubbio”. Perché? Perché “con quel cognome” non avrebbe potuto farne a meno. Che il partito al quale iscritto appoggiasse proprio Rita Borsellino non gli è parso motivo sufficiente, ma è probabile che l’Idv abbia deciso di appoggiarla per la stessa ragione che a Luigi De Magistris parrebbe sufficiente per votarla.
È evidente che il rispetto della memoria di Paolo Borsellino implichi l’obbligo di un occhio di riguardo a sua sorella, almeno per chi pensa di poter con ciò reclutare un martire alla propria causa. È altresì evidente che la sorella di un martire possa far carriera politica indipendentemente da ogni qualità e da ogni merito. Può darsi io sia in errore, ma mi pare una pessima abitudine, che in sé ne chiude altre due, altrettanto disdicevoli, tutte e due molto italiane.
La prima è quella di estendere i meriti di un eroe ai suoi familiari, che io trovo non meno odiosa dell’estendere le colpe di un reo ai suoi cari. D’altra parte, questa abitudine è di così ampia presa da essere rintracciabile ovunque, anche dove il familismo trova critiche feroci. Basti l’esempio della signora Farina e della signora Schett, alle quali i radicali, in barba al vigente diritto di famiglia, si ostinano a negare il loro cognome, per sbandierarle come bandiere: Maria Antonietta Coscioni e Mina Welby.
La seconda pessima abitudine è la negativa della prima: il parente dell’eroe si sente investito delle sue virtù e rivendica pieno diritto di incassarne gli utili. Quanto scommettiamo che Rita Borsellino insinuerà che la sua sconfitta sia oltraggio alla memoria di suo fratello?

Spirito, con la minuscola


È la prima pagina della Logica come scienza del concetto puro (1905). A me pare che bastino queste due dozzine di righe a darmi ragione di quanto scrivevo alcune settimane fa: «Non è un caso che di Croce non vengano più ristampate le opere filosofiche: a rileggerle si sente puzza di cane morto. Fosse per quelle, Croce sarebbe stato già dimenticato da tempo: lo ritroveremmo solo in due righe, su qualche dizionario, come un neo-hegeliano della scuola di Bertrando Spaventa. A salvarlo dall’oblio è stato solo il suo tiepido antifascismo, qualche discorso in Parlamento, qualche pagina ben scritta sul Seicento, il catalogo degli aneddoti smerciato dalle figlie, le citazioni ormai stucchevoli che certi tromboni sfiatati si passano da ormai tre generazioni».
A poco più di un secolo da quando fu scritta, la Logica sta a dimostrare perché del sistema crociano non resti in piedi nulla: ne era la struttura portante e non uno degli assunti relativi a pensiero, concetto, intuizione, sensazione o rappresentazione è in grado di reggere a quanto abbiamo scoperto grazie alle neuroscienze. L’idealismo crociano, di cui la Logica è il prontuario, esce con le ossa rotte proprio dallo scontro con la scienza che Croce aveva pensato di poter eludere degradandola a mero strumento per “chiamare a raccolta moltitudini di rappresentazioni o almeno di indicare con sufficiente esattezza a quale forma di operazione convenga ricorrere per mettersi in grado di ritrovarle e di richiamarle”. Dove è possibile trovare, oggi, chi sia disposto ad affermare che «la conoscenza ha due forme: è o conoscenza intuitiva o conoscenza logica; conoscenza per la fantasia o conoscenza per l’intelletto; conoscenza dell’individuale o conoscenza dell’universale; delle cose singole ovvero delle loro relazioni; è insomma, o produttrice di immagini o produttrice di concetti»? Sulle gengive gli arriverebbe l’ultima edizione dei Principles of Neural Science di Kandel, Schwartz e Jessel, che pesa più di un chilo e ha copertina dai bordi micidiali.
Il sistema crociano può aspirare solo a qualche paginetta nei manuali di Storia della Filosofia, prima o dopo quelle dedicate a Giovanni Gentile, che, se non avesse avuto linfelice idea di compromettersi col fascismo, oggi godrebbe senza dubbio di maggiore attenzione di quanta ne residua su Benedetto Croce, per l’esser stato, seppur tiepidamente, antifascista e l’aver preso titolo di liberale, sebbene gli si possa imputare, come ho scritto in altra occasione, «il fallimento del liberalismo in Italia, insieme ai tanti liberali che come lui hanno tradito la lezione del liberalismo di scuola anglosassone, mettendo la persona al posto dell’individuo e sporcando di metafisica il concetto di libertà».

Sono stato fatto oggetto di severo rimprovero per i giudizi espressi nei post che qui ho richiamato. Mi è arrivato via e-mail da un tizio che si è definito «crociano» e che ha mosso obiezione alle mie affermazioni con argomenti che compensavano la loro intrinseca debolezza col veemente pathos del nipote al quale abbiano offeso il nonno.
Ho l’abitudine di non rispondere a una lettera senza aver prima verificato se la firma in calce corrisponda o meno al vero nome di chi l’abbia inviata. Non potendo accontentarmi dell’account del mittente, che può essere mendace quanto la firma, mi affido a Google: parto dalla convinzione che chi ha letto ciò che scrivo su queste pagine abbia quel minimo di attività in rete che inevitabilmente porta a lasciar segno del proprio nome o di un account di uso corrente. Questa volta non ne ho trovato traccia.
Avrei lasciato cadere la faccenda, cestinando la lettera senza darvi risposta, se non fosse che la prosa, levati gli insulti discretamente fioriti, suonava particolarmente legnosa, di timbro scolastico, e però coi  «quindi» zoppi e i «dunque» orbi. Bastava poco per scoprire che si trattava di ampi stralci copiati da filosofico.net, anche malamente cuciti assieme. Ho sorriso: era la lettera di un buontempone, quasi certamente «crociano» estemporaneo, per bizza o impuntatura. Spirito, ma con la minuscola. Meritava una pagina di Croce, che probabilmente neanche avrà mai letto, e con commento.

sabato 3 marzo 2012

Dai, Menichini, abbozza almeno un mezzo inchino

Dopo l’insistente piagnisteo col quale Stefano Menichini ci ha maciullato i coglioni per settimane e settimane mi sarei aspettato che sul sito di Europa la notizia fosse in primo piano e, invece, neanche un cenno: tornano gli aiuti pubblici per l’editoria italiana e chi ha chiesto l’elemosina con tanto pathos non riesce a trovare neanche una parolina, neanche un piccolo grazie. Anche se nelle sue tasche arriva per l’interessamento di un sottosegretario, si tratta pur sempre di denaro nostro: un minimo di buona educazione non guasterebbe, e che cazzo.
Dai, Menichini, abbozza almeno un mezzo inchino. Non è tanto per la gratitudine verso il contribuente, dimostra che eri in buona fede quando scrivevi che non erano soldi rubati. 

venerdì 2 marzo 2012

Se tanto mi dà tanto

Se per una cover di Dalla, peraltro cantata con le adenoidi, Morgan ha bisogno di arrivare a quella midriasi, a Brahms, per comporre la sua ninnananna, non sarebbero bastate due tonnellate di anfetamina. 

“Lux in arcana”

Una batteria di cento storici impiegherebbe almeno due o tre secoli per passare al setaccio gli ottantacinque chilometri lineari di scaffali che compongono l’Archivum Secretum Vaticanum e naturalmente non vi troverebbe i documenti che furono distrutti nel corso dei dodici secoli che copre la raccolta perché ritenuti compromettenti per il buon nome della Ditta. Naturalmente non troverebbero neppure i documenti che per lo stesso motivo non furono mai archiviati o che addirittura non furono mai redatti a registrare i capitoli più infami di quella che Karlheinz Deschner ha definito storia criminale del cristianesimo. Probabilmente, invece, troverebbero qualche copia di quelle opere che la Ditta si premurò di distruggere ritenendole pericolose per la fede e che oggi riteniamo andate irrimediabilmente perse o delle quali neppure c’è giunta notizia. Anche solo per questo motivo sarebbe impresa meritevole, ma portarla a compimento avrebbe un costo immenso.
C’è poi una difficoltà insormontabile: l’archivio è formalmente “aperto” dal 1881, ma le procedure per accedervi sono estenuanti e la libertà di ricerca nella sterminata mole di codici e faldoni è estremamente limitata. Comprensibilmente limitata, direi, perché molti dei cunicoli che attraversano la storia della Chiesa di Roma sono ignoti anche ai chierici e lasciarvi entrare un laico, col rischio che ne esca con qualcosa di imbarazzante, sarebbe pericoloso. Accedere all’Archivum Secretum Vaticanum, dunque, è possibile. Pressoché impossibile, invece, pensare di potervi trovare documenti imbarazzanti per la Chiesa di Roma, se non per un fortuito caso che le rigide regole poste all’accesso e alla ricerca mirano efficacemente a scongiurare. Tutto questo è ampiamente noto ed è per questo che solo pochi fessi inoltrano domanda per accedere ai documenti dell’archivio, al punto che è la stessa Ditta a doverli invogliare.
Questo parrebbe il senso della mostra che nei giorni scorsi ha visto esposti al Museo Capitolino cento documenti tratti dall’Archivio Segreto Vaticano dopo attenta selezione: a sfogliare il catalogo si ha già la sensazione della presa per il culo, ma il tocco di stile – lo stile tipico della Ditta – sta nel titolo della mostra, che è “Lux in arcana”. Un fiammifero acceso allo sbocco di una immensa cloaca sotterranea e hanno l’impudenza di chiamarla luce.

mercoledì 22 febbraio 2012

Se non vi convince, ci sarebbe Antonio Gramsci


Avete mai letto il Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa? Quando avete due o tre orette da perdere, fatelo. Arrivati in fondo, provate a tirare le somme: vedrete che vi sarà impossibile avere un’idea precisa di quale società esca fuori da tutte quelle pagine. Vi sembrerà di essere dinanzi a un monumento di ambiguità, sul piano politico e su quello economico, del quale potrete farvi una ragione in due soli modi.
Il primo è quello di cui ci dà esempio Massimo Faggioli sull’ultimo numero di Leftwing: «Il magistero cattolico sulle questioni economico-sociali è ben più antico del magistero del pontefice regnante, chiunque egli sia. La forza intellettuale del cattolicesimo sta nel fatto che sulle grandi questioni la tradizione viene ribadita e allo stesso tempo sviluppata nel tentativo di essere fedeli al Vangelo in uno sforzo creativo di rispondere alle emergenze sociali del mondo in cui viviamo. Nessuno ormai più sostiene la naturale compatibilità del cattolicesimo col liberismo, né l’idea di un “comunismo originario” nel magistero sociale di Gesù di Nazareth. Nei suoi grandi documenti il magistero sociale cattolico tenta di non prestarsi troppo allo Zeigeist, anche in materia economica. È sulla pelle delle persone che si giocano le dottrine economiche, e la chiesa sa che un magistero sociale respinto dai fedeli è come se non fosse stato mai proclamato»
Convincente? Può darsi. Se non vi convince, ci sarebbe Antonio Gramsci: «Sul “pensiero sociale” dei cattolici –scrive – mi pare si possa fare questa osservazione critica preliminare: che non si tratta di un programma obbligatorio per tutti i cattolici, al cui raggiungimento sono rivolte le forze organizzate che i cattolici posseggono, ma si tratta puramente e semplicemente di un complesso di argomentazioni polemiche positive e negative senza concretezza politica. Ciò sia detto senza entrare nelle quistioni di merito, cioè nell’esame del valore intrinseco delle misure di carattere economico-sociale che i cattolici pongono alla base di tali argomentazioni. In realtà la Chiesa non vuole compromettersi nella vita privata economica e non si impegna a fondo, né per attuare i principi sociali che afferma e che non sono attuati, né per difendere, mantenere o restaurare quelle situazioni in cui una parte di quei principi era già attuata e che sono state distrutte. Per comprendere bene la posizione della Chiesa nella società moderna, occorre comprendere che essa è disposta a lottare solo per difendere le sue particolari libertà corporative (di Chiesa come Chiesa, organizzazione ecclesiastica), cioè i privilegi che proclama legati alla propria essenza divina: per questa difesa la Chiesa non esclude alcun mezzo, né l’insurrezione armata, né l’attentato individuale, né l’appello all’invasione straniera. Tutto il resto è trascurabile relativamente, a meno che non sia legato alle condizioni esistenziali proprie. Per  “dispotismo” la Chiesa intende l’intervento dell’autorità statale laica nel limitare o sopprimere i suoi privilegi, non molto di più: essa riconosce qualsiasi potestà di fatto, e purché non tocchi i suoi privilegi, la legittima; se poi accresce i privilegi, la esalta e la proclama provvidenziale» (Quaderni dal carcere, 5).
Analisi datata? Nel leggere il Compendio vi sarà sfuggito che «la Chiesa non si fa carico della vita in società sotto ogni aspetto, ma con la competenza sua propria, che è quella dell’annuncio di Cristo Redentore. La missione propria che Cristo ha affidato alla sua Chiesa non è d’ordine politico, economico o sociale: il fine che le ha prefisso è di ordine religioso. Eppure proprio da questa missione religiosa derivano un compito, una luce e delle forze che possono servire a costruire e a consolidare la comunità degli uomini secondo la Legge divina. Questo vuol dire che la Chiesa, con la sua dottrina sociale, non entra in questioni tecniche e non istituisce né propone sistemi o modelli di organizzazione sociale: ciò non attiene alla missione che Cristo le ha affidato» (68): qualsiasi sistema o modello può andar bene, basta che consenta alla Chiesa la missione che le è propria. 
Crederemo, insomma, a Massimo Faggioli che nel magistero sociale della Chiesa vede la «tradizione cattolica di equilibrio tra capitale e lavoro» o ad Antonio Gramsci che gli riconosce «un puro valore accademico» e lo definisce «elemento ideologico oppiaceo»?

domenica 19 febbraio 2012

Bah

“Gli agenti dell’Fbi lo hanno bloccato intorno a mezzogiorno davanti alla sede del ministero del lavoro a Washington, a due passi da Capitol Hill. Amin Khalifi, 29 anni di nazionalità marocchina, era convinto stesse per compiere un attacco suicida contro il Congresso. Ma in realtà la sostanza che portava indosso, sotto una veste, non era esplosiva. A fornigliela sarebbero stati alcuni investigatori che lo controllavano da settimane, e che per incastrarlo si sono spacciati per emissari di al Qaeda. L’indagine dell’Fbi sarebbe partita più di un anno fa, dopo che alcune conversazioni telefoniche dell’uomo - arrivato negli Stati Uniti a 16 anni e da tempo immigrato clandestino, residente ad Arlington, in Virginia - sarebbero state intercettate. Conversazioni in cui Khalifi avrebbe parlato della sua intenzione di compiere un attentato. Qui è scattata la trappola degli agenti dell'Fbi che, spacciatisi per membri dell’organizzazione terroristica numero uno al mondo, avrebbero fornito all’uomo un finto abito-bomba ed una pistola non funzionante” (America Oggi, 18.2.2012).

Non andava espulso appena è stato identificato come immigrato clandestino? Si è preferito lavorarlo, e per un anno, dando solidità alle sue intenzioni, chissà quanto solide inizialmente, e fornendogli assistenza, sebbene fosse tutta ingannevole, fino a munirlo dei mezzi, anche se inefficaci. Potremmo dire che la colpevolezza di Amin Khalifi è stata pazientemente costruita: il terrorista è stato confezionato a partire da qualche sua frase colta da Echelon.
Ho molte perplessità su questo modo di combattere il terrorismo: quella dell’Fbi non è stata una indagine, come è stata definita, ma una operazione; un attentato è stato sventato, ma dopo averlo incoraggiato e in buona parte preparato; le risorse impiegate a tale scopo sono state spropositate rispetto al risultato, anche concedendo che avessero come secondo fine quello deterrente. Perplessità sul piano della legalità, relativamente al metodo, ma anche nel merito, cioè riguardo la reale efficacia di tali strumenti. 

sabato 18 febbraio 2012

giovedì 16 febbraio 2012

Un vero e proprio crimine


Chi si fosse trovato a passare per via di Torre Argentina, ieri, a tarda sera, non avrebbe potuto fare a meno di toccare con mano il vivo pathos della bestia inferocita perché ferita a morte: un Pannella incazzatissimo ringhiava tutta la sua rabbia in faccia a un mortificatissimo Nicotra, colpevole di essere stato intervistato da International Herald Tribune e di non aver versato il dazio della sua militanza radicale. 
“Luca Nicotra, the 29-year old secretary of Agora Digitale, which lobbies for Internet freedom, said the kind of job mobility found in the U.S. or British labor markets «just doesn’t exist in Italy». «The notion of lifetime employment is central to a country that doesn’t offer any work alternatives», Mr. Nicotra said. Entrepreneurship could offer another path, he said, «but in Italy that spirit is rare, because it isn’t taught» outside of business schools”. Neanche una parola d’ordine  di quelle che Pannella distribuisce ai suoi come ostie, non un cenno al fatto che Agora Digitale faccia parte della galassia radicale, il signorino aveva lucrato in visibilità senza pagare la percentuale, e sì che in foto gli faceva da sfondo proprio la placenta dalla quale ha tratto nutrimento. 
Sono volate accuse pesantissime, fino a una delle più infamanti: Mister Nicotra è stato accostato a Miss Innocenti, l’ingrata che in tante puntate di Anno Zero non trovò mai modo di portare acqua al mulino, nemmeno un cucchiaino. Di peggio c’era solo l’accostamento a Mister Capezzone, ma quella è accusa che scatta solo alla recidiva e di solito passa a sentenza.
“Hai perfino tolto l’aggettivo «radicale» alla tua associazione...”.  “Ma non l’ha mai avuto, Marco...”. Niente, non c’è stato modo di farlo ragionare, si era sentito ennesimamente tradito.


Fin qui, la cronaca. Volendo, potrebbe porsi la questione: in circostanze analoghe, sempre più frequenti negli ultimi anni, cosè che manda in bestia Pannella? Nella migliore delle ipotesi, è la convinzione che sia stato violato il galateo non scritto del perfetto militante radicale, che in ogni intervento pubblico è tenuto a citarlo almeno una volta. Fateci caso: non si ha intervento pubblico di un dirigente radicale che si sottragga a questa regola. Nella peggiore, è il vedersi impallato dall’ultimo arrivato. Lesa maestà in entrambi i casi: nei partiti a guida carismatica, un vero e proprio crimine. 

“Mi permetto di dire”


a Giovanni Fontana

Lasciamo perdere chi l’abbia scritto e rimaniamo al testo. Il nostro scrive: “La prima serata di Sanremo ha fatto i record di ascolti, e mi permetto di dire che me l’ero immaginato”. Volendo, potreste già buttarvi a indovinare: c’è quella virgola superflua che è una mania del nostro, ma soprattutto c’è tutta la sua spocchia. La prima serata di Sanremo ha sempre fatto record di ascolti, anche quando l’edizione si rivelava particolarmente infelice e lo share crollava nelle serate successive. Ci voleva questo grande intuito per immaginare che anche quest’anno sarebbe stato così? Non proprio, vero? E tuttavia il nostro ci tiene a mettersi in posa da uomo di gran fiuto. Lascio a voi il giudizio su quel “mi permetto di dire”. A me suona fastidioso come un patetico tentativo di falsa modestia. Trattandosi di una previsione scontata, direi che il patetico stinge nel ridicolo. Ma può darsi che io esageri e che la formula sia solo un tic. Tuttavia, dite, i tic sono psicologicamente neutri? Io non penso. Ma andiamo avanti.
“Ieri sera, vedendone pochi sprazzi e leggendo i feedback su Twitter, capivo sì che era uno spettacolo straordinariamente deprimente e imbarazzante, ma capivo anche che lo stavano guardando quasi tutti. E mi veniva da pensare, dei miei amici quelli con l’alibi «Sanremo fa così schifo che va visto», e che ora twittavano che non ci potevano credere, a quanto faceva schifo; mi veniva da pensare: ma non guardiamo la tv praticamente mai, l’abbiamo abbandonata con soddisfazione a un pubblico poco esigente o senza possibilità di scelta, o disabituato a qualunque qualità, e poi quando la accendiamo ci meravigliamo che quel che troviamo sia di totale mediocrità? Che vi aspettavate, Sorkin? Nanni Moretti?”.
Lo stavano guardando quasi tutti. Lui no, seguiva a sprazzi. Anche qui una virgola superfla – tra “mi veniva da pensare” e “dei miei amici” – e altra spocchia. Ma c’è molto altro ancora. Direi che ci troviamo dinanzi a un bozzetto. C’è la plebe, il “pubblico poco esigente o senza possibilità di scelta, o disabituato a qualunque qualità”. Poi c’è l’eletta schiera dei suoi amici – sarebbe meglio dire degli affiliati al clan – che “non guard[ano] la tv praticamente mai”. Non “mai”: “praticamente mai”. Nella “totale mediocrità” dev’esserci qualche eccezione, chessò, Le invasioni barbariche o i siparietti di Bordone nel salottino della Cucciari? Sì, probabilmente quella è roba che si salva, tutto il resto è cacca.
Bene, nel bel mezzo di questa eletta schiera di amici che guarda il Festival di Sanremo perché “fa così schifo che va visto” – si direbbe che si infliggano questa tortura per una sorta di missione sociologica, ma ci viene suggerito che questo sia solo un “alibi”, sarà che sono stupidi o masochisti o chissà cosa – ecco che svetta lui. Sanremo fa schifo anche a lui, ma la sua missione sociologica è di taglio superiore: non guarda il Festival, lo segue a sprazzi e intanto studia i feedback. Siamo dinanzi all’eccellenza della critica, via. Si trattasse di un film di merda, il nostro andrebbe al cinema lo stesso, si siederebbe con le spalle allo schermo e prenderebbe appunti sulle reazioni del pubblico. Non già del pubblico minuto, peraltro, al quale quella merda probabilmente piace pure: il nostro studia le reazioni di chi presentiva che il film fosse di merda e al cinema è andato lo stesso, proprio come ci è andato il nostro, ma sedendosi nel verso giusto, che poi è quello sbagliato. Qui sta lo scarto di superiorità che si rivela nel nostro.
Non fosse evidente, c’è la prova: “Che vi aspettavate, Sorkin? Nanni Moretti?”. Si potrebbe obiettare che sia del tutto fuori luogo contrapporre a un festival di canzonette la sceneggiatura di un lungometraggio o di un serial, ma è evidente che quei due nomi non caschino a caso: stanno lì a certificare che il nostro ha un sincero orripilamento per il genere nazionalpopolare. Si tratta della caratteristica reazione dell’adolescente che per prendere le distanze da ciò che detesta ha bisogno di fare almeno un cenno ai modelli che ama e che dunque non si limiterà mai a dire “Albano mi fa schifo”, ma aggiungerà sempre “a me piacciono i Baustelle”.
A parte, si porrebbe una questioncella abbastanza curiosa: il Festival di Sanremo fa schifo e Il Post ci manda un inviato? “Chi ci aiuta a trovare una stanza a Sanremo per il festival vince una settimana di retweet da parte del Post” (17:17 - 7 Feb 12): una settimana di retweet da parte del Post, mica cazzi, di più si poteva offrire solo un slip della signora Bignardi con dedica autografa. Tanto interesse per uno schifo ampiamente previsto? Bah.
Bene, adesso è il momento di dare uno sguardo alle conclusioni piovute sul taccuino del nostro al termine di questo suo studio, tutto di sponda. Qui le cose si complicano, ma solo in apparenza: “Questo è il disastro dei contenuti editoriali italiani, dall’informazione all’«intrattenimento»: tutti si sono dedicati per anni a battaglie politiche sull’«indipendenza», sulla «libertà», sul «pluralismo», come se ci fossero i cattivi da una parte e i buoni sconfitti dall’altro. Protestavamo contro l’eliminazione di Santoro e accettavamo le trasmissioni pomeridiane, Miss Italia e la povertà di Porta a porta. Protestavamo contro gli editoriali di Minzolini ma ci limitavamo a sorridere dei servizi sui cagnolini o i banchetti di natale al telegiornale. E intanto infatti il disastro vero era lo scadimento della qualità delle cose da ogni parte, compresa quella dei «buoni», il fine che giustificava i mezzi, l’informazione fatta male da ogni parte e l’intrattenimento idem, con poche eccezioni. Là fuori è pieno di combattivi difensori della democrazia e della libertà che fanno le cose male, con metodi e risultati pessimi e diseducazione di tutti. Con la straordinaria sanzione di ieri sera: quando i temi presunti della difesa della libertà, dell’indipendenza e della democrazia popolare sono diventati oggetto del peggiore prodotto di intrattenimento televisivo mai visto: scopa. Nel senso del gioco di carte. E noi tutti lì a guardare e dire che schifo”
Non si capisce molto, vero? Però lascia un retrogusto di risentimento, no? Tutto diventa chiaro, però, se facciamo cadere il velo e diamo un nome all’autore del testo che abbiamo fin qui letto: sapendo che si tratta di Luca Sofri, la traduzione va in automatico. Siamo dinanzi a un atto d’accusa rivolto ai dinosauri del Pd: avevano un gran guru della comunicazione a disposizione e non gli hanno mai dato lo spazio che meritava. Voleva la direzione de l’Unità, voleva un programma su Raitre, qualche consulenza di quelle grasse e invece lo hanno trattato come un Adinolfi qualsiasi. Ditemi voi se non è normale che gli escano le virgole di troppo.

martedì 14 febbraio 2012

Cara carta (Chiacchiere errabonde)


“Ormai non sono più visioni sul futuro, ma numeri che parlano chiaro: le vendite dei libri di carta sono in calo, e il ricorso alla stampa tipografica tradizionale è sempre più insostenibile. Per converso la stampa digitale ha fatto passi da gigante, in termini di qualità e flessibilità, ed è una realtà in fortissima crescita”. Così scrive Antonio Tombolini, ma non è l’introduzione a un saggio: pubblicizza il suo Simplicissimus Book Maker. Volentieri mi presto alla marchetta, peraltro non richiesta, anche se con un e-book in mano non m’immagino nemmeno. Oddio, una dozzina d’anni fa ero convinto che non avrei mai comprato un pc, tanto meno che da carta e penna sarei passato a tastiera e mouse, ma l’idea che un libro possa essere fatto altro che di carta e inchiostro mi dà le vertigini, preferisco non pensare al fatto che mi possa capitare anche questo. In realtà, poi, anche non pensandoci, mi rendo conto, per esempio, che non compro più L’Osservatore Romano ma lo leggo on line da almeno tre anni. Cioè, ogni tanto lo compro, ma è solo per sentire quella carta sotto i polpastrelli, perché quello c’è scritto l’ho già letto la sera prima. Bah, sarà che invecchio, ma mi ritrovo con un sacco di contraddizioni e nessuna voglia di risolverle. Cara carta, cara vecchia carta, sei l’ultima che pensavo potessi tradire, ma ogni tanto capita, mi dispiace, e lo rifaccio. Dispiacendomene, ti giuro, e senza mai cavarne la soddisfazione che mi hai dato in tanti anni, ma poi ricapita, e mi ridispiace.
Vabbe’, divagavo. Ma neanche tanto. È che Antonio Tombolini mi offre lo spunto per due o tre pensierini sfusi: sulle “visioni del futuro”, sulla crisi della “stampa tipografica tradizionale” e su cosa sarà della cara vecchia carta.

Quand’ero un bimbetto, le scommesse della fantascienza erano assai ottimistiche. Segno del tempi: s’era in pieno boom e il futuro non poteva essere immaginato che roseo. Ricordo che le cose cominciarono a guastarsi sul finire degli anni sessanta e Il medioevo prossimo venturo di Roberto Vacca (1971) segnò il cambiamento di umore. A rileggerlo, tuttavia, si scopre che il pessimismo aveva cominciato a serpeggiare da almeno una decina d’anni prima, ma in circoli ristretti, tra analisti guardati con sospetto, forse considerati pure un po’ matti. Ignoti al grande pubblico, comunque, come lo sono i matti che prevedono il rinascimento prossimo venturo. Miserie dello storicismo, ci cascano anche i migliori, quelli che, se non ci azzeccano, ci vanno assai vicino.
In esergo riportava una citazione dall’Apocalisse di Giovanni (20, 1-5) ed andava subito giù duro, il libricino di Vacca: “Mentre scrivo mancano trent’anni al compimento del secondo millennio della nostra era e, per ragioni diverse da quelle di mille anni fa, molti si attendono a breve scadenza una tragica catastrofe totale. I profeti di oggi non dicono che dobbiamo temere angeli, draghi e abissi, ma che dobbiamo temere l’olocausto nucleare, la sovrapopolazione, l’inquinamento e il disastro ecologico”. Il clima era completamente mutato, anche piuttosto in fretta, devo dire, perché solo quattro o cinque anni prima un numero di Epoca prometteva un futuro mica male. Forse qualcuno avrebbe fatto fatica ad adattarsi ad una alimentazione tutta artificiale e in pillole, qualcuno avrebbe avuto un po’ di eczema per quelle tutine argentate così aderenti, modello Star Trek, ma per il resto non c’era troppo da lamentarsi: due o tre ore di lavoro a settimana, non di più; vacanze interstellari con grossi sconti per famiglie; case ipertecnologiche e robot tuttofare; energia a iosa e a gratis, grazie all’atomo; il Gerovital, poi, sarebbe stato mutuabile.
Né questo, né l’apocalisse, c’è da dire: un po’ e un po’, diciamo. Già una dozzina d’anni dopo, infatti, Ridley Scott avrebbe stravolto Philip Dick e in Blade runner, che è del 1982, avrebbe costruito un 1992 diverso da quello immaginato del 1968. Meno apocalittico, diciamo. È che siamo portati a immaginare il meglio sempre migliore di quel che poi in effetti sarà, e col peggio esageriamo anche di più. Ci facciamo prendere la mano, ecco.
Il libro di Vacca mi è ricapitato sotto mano in questi giorni e l’ho riletto, senza però riuscire a rievocare l’impressione che potesse avermi fatto quarant’anni fa. Una nota, appuntata a margine del passo che ho riportato, non mi ha aiutato, perché ambigua: “E questo libro si salverà?”, chiedevo. Non potevo certo prevedere l’invenzione degli e-book, ma lo stato in cui era ridotto il volume ha dato a quella nota il valore di una folgorazione: una bolla sulla quarta di copertina, pagine ingiallite, quasi friabili, e in gran parte staccate dalla costa, per la polverizzazione della colla. Un po’ distrutto dal tempo, un po’ no. Il supporto resisteva, diciamo. Così per quanto ho riletto: “Da molti segni appare che un tempo di fenomeni degenerativi è già cominciato…”. Ben detto: già da allora si cominciavano a produrre libri in materiale scadente, era l’inizio della crisi del cartaceo.

Non era iniziata male, anzi. La Bibbia di Johann Gutenberg, per dire, si mantiene ancora in ottimo stato. Altra carta, altro inchiostro, altro prezzo. Sfondo una porta aperta dicendo: un altro genere di lettore. 
Non era iniziata male, la storia, ma neanche benissimo. La gloria andò a Gutenberg, ma il merito era stato tutto del grande Panfilo. Chissà come gli girerebbero le palle a leggere, su Wikipedia, che è certo abbia usato i caratteri mobili 22 anni prima di Gutenberg, senza però riconoscergli alcun reale primato: sarebbero auspicabili ricerche negli Archivi di Stato di Venezia, Capodistria e Milano”, cincischiano. Ignorando che Antonio Coccio, detto il Sabellico (1436-1505), testimonia: Alle altre felicità del principato del doge Pasquale Malipiero si aggiunge che allora, per la prima volta, la maniera di stampare i libri fu trovata in Italia; quella invenzione stessa che si dice essere di un germano” (Storia veneta, 1486).
Testimonianza viziata da orgoglio campanilistico, si dirà. Si dirà che della Bibbia di Gutenberg ci sono giunti 16 esemplari e delle opere stampate dal Nostro nessuna. E questo è falso, perché ci rimane testimonianza del padre guardiano del convento di Capodistria, morto nel 1476: cita un Responsorio di SantAntonio da Padova stampato dal grande Panfilo nel periodo che soggiornò in quella città. Prove in abbondanza che vi soggiornò fino al 1446: quattro anni prima che a Magonza vedesse luce la Bibbia del germano”

Sarà stata carta di qualità peggiore, questo è tutto. Certo, una Bibbia si conserva con cura maggiore di un Responsorio. Sta di fatto che la crisi de Il Foglio ha preso ad avvitarsi con la infelice scelta di cambiare la carta sulla quale veniva stampato: stesse stronzate, ma sotto i polpastrelli si cominciò a sentirlo. 
La crisi del cartaceo prende piede dal trattar male la carta. Per esempio, vorresti farne una Bibbia in volgare ma la chiami il manifesto? Non può che finir male.

domenica 5 febbraio 2012

“Cinque cose per fare bella figura”

Diamo la qualifica di blog a siti web che non lo sono affatto e forse un po’ di chiarezza non guasterebbe. L’ho già detto, l’ho già detto, ma stavolta mi pare di avere un buon esempio da offrire per ripetermi, e mi ripeto: “Un «nanopublishing» è un blog? Un «corporate blog», un «blogames» o un «M-blog» sono blog? […] Le bacheche on line di personaggi pubblici (politici, uomini di spettacolo, giornalisti, ecc.) sono blog? A mio modesto avviso, no. Si tratta di «siti informatici» che fin troppo spesso non hanno neanche la buona grazia di fingersi «diario in rete». […] Prendo i primi 250 nella classifica di BlogBabel. Se solo depenno le vetrinette di azienda, i civettini di trasmissione televisiva e i siti web di vario vippume, scendono a 89. Se depenno pure i blog collettivi, che non ho mai capito perché ci ostiniamo a considerare blog quando sono imprese redazionali, arrivo a 31”.
L’esempio? Cade l’80° anniversario della nascita di François Truffaut e un blogger può scriverne o no. Se deciderà di scriverne, s’improvviserà critico cinematografico, con pipponi più o meno interessanti, o toglierà la museruola alla memoria, si lascerà andare alle emozioni che gli hanno procurato quei film oppure, perché no, butterà giù il suo perentorio “Adèle H. è una cagata pazzesca!”. Potrà decidere di non parlarne affatto, ovviamente. Perché il cinema non è fra i suoi interessi, perché Truffaut non gli pizzica le corde, perché odia gli anniversari. Oppure potrà limitarsi a postare uno spezzone da Youtube, una citazione da Les aventures d’Antoine Doinel, il solito laconico link che rimanda a Wikipedia.
Un blog che non è un blog, ma un giornalino in rete con l’ansia di non “bucare” ciò che un giornalone cartaceo non “bucherebbe” mai, farà come Il Post e riempirà il “buco” con una scheda di quelle che si leggevano sul retro dei vhs in allegato ai settimanali: a metà tra Wikipedia e il perfetto nulla, che è il luogo ideale dell’esserci per esserci. Non deve venir meno la missione, tuttavia. Parlo della missione informativa, naturalmente. Ecco, allora, che il coccodrillo di vecchia impagliatura diventa “una guida minima per iniziare”, “cinque cose per fare bella figura”, il bignamino essenziale per annuire come si deve quando nel salotto televisivo prende la parola il tuttologo di riferimento, naturalmente della scuderia Sofri-Bignardi, la ditta che si appresta a ereditare i fasti che furono della ditta Costanzo-De Filippi.

venerdì 3 febbraio 2012

Qualche anno fa, ci avrei perso del tempo

Ho telefonato al vecchio e gli ho chiesto: “Ma quella cosa della scomunica a Fidel Castro era solo una voce che girava o davvero…?”. Lo interrogo sempre più raramente su faccende di questo genere, perché ormai ha 85 anni e a quell’età la memoria, si sa, smette d’essere fedele. Qui mio padre m’è sembrato non aver dubbi: “Ma quale voce? Ne parlarono tutti i giornali. Roncalli disse che Fidel sarebbe andato all’inferno”.
A quei tempi, nel 1962, era ancora nel Pci (sarebbe stato espulso qualche anno più tardi, per aver detto che a Praga s’era consumata una porcata) e da bravo militante si teneva aggiornatissimo sull’interno e sull’estero. Rammentavo una discussione piuttosto accesa tra i suoi amici, al tavolino di un bar – avrò avuto sette o otto anni, quindi sarà stato nel 1964 o nel 1965, certamente d’estate – e avevo nitido il ricordo di un tale che, obiettando alla vulgata del “papa buono”, proprio in relazione alla scomunica di Castro, diceva: “Giovanni XXIII e Pio XII, stessa merda!”. 
Volevo una conferma a quanto mi era noto da più fonti e su cui non avevo avuto dubbi fino alla lettura di Rosso Malpelo: “Palla gigantesca!” (Avvenire, 2.2.2012). Gianni Gennari smentisce che papa Roncalli abbia mai scomunicato Fidel Castro. Passi che sia riportato da Wikipedia e da Raistoria, ma mio padre può essere in errore?
In realtà, non c’era neanche bisogno che Giovanni XXIII scomunicasse Fidel Castro: nel 1962 era ancora vigente il decreto del 1949 col quale Pio XII scomunicava i comunisti, tutti. Non sarebbe mai stato revocato formalmente, decadendo implicitamente – secondo non unanime interpretazione – solo nel 1983, col nuovo Codice di Diritto Canonico. Tuttavia innumerevoli fonti riportano la notizia di questa scomunica, e con concordanza di data (3 gennaio 1962). Qualcuna fa cenno pure alla promessa della pena eterna, che ho pensato fosse un di più aggiunto da mio padre, e che probabilmente non sarà stata fatta da Roncalli in persona, ma da qualche zelante al seguito. E allora – chi ha ragione?
Qualche anno fa, ci avrei perso del tempo. 

giovedì 2 febbraio 2012

“Eminenza, faccia qualcosa!”

Il calo delle nascite è la più comune ossessione di chi ha deciso di non far figli e non c’è bisogno di essere psicologi per trovarne spiegazione. È tipica perciò dei chierici, che amano considerarsi padri dei figli altrui e che soffrono quando scarseggia prole fresca, ma è comune pure tra i laici che restano folgorati sulla via di Damasco dopo aver dissipato gli anni dell’età fertile in quell’estatica fissazione narcisistica che nella riproduzione vede e teme una fattispecie di amputazione.
Vera e propria mania, la crisi demografica. Per quelle ex femministe che abortivano con la stessa disinvoltura con la quale si schiacciavano i brufoletti e che poi son diventate pie figlie di Maria ed editorialiste di Avvenire. Per quei giovanottoni invecchiati male nella malata ricerca di un centro di gravità permanente – politico, culturale, esistenziale – che poi coincideva sempre col buco del culo di un potente, fino a quando il culo è diventato quello pontificio. Per quegli intellettualucci nevrastenici che hanno protratto l’adolescenza fin sulla soglia della senescenza, teorizzando che il capitalismo si procura forza-lavoro da chi non ha altra ricchezza che la propria prole e che far figli è fare il gioco delle multinazionali, peraltro incrementando l’inquinamento, per poi arrivare a trovare mica male l’“andate e moltiplicatevi”, facendosi accesi sostenitori del bonus bebè e del ritorno delle donne ai fornelli. Per preti d’ogni ordine e grado, ovviamente, perché il gregge dall’età media troppo alta dà poca lana e poco latte.
Provate a verificare: una dozzina di questi scassacazzi, presi a caso, raramente arriva a un totale di tre figli, che poi sarebbe il minimo che vorrebbero da ogni coppia. Guai, però, a obiettare: “Falli tu!”. Si offendono. Hanno fatto un’altra scelta di vita, loro. Hanno scelto di far figliare gli altri, esortandoli.

Doppia esortazione, nel taglio basso di pag. 12, oggi, su Avvenire, da parte di due eminenze di peso: il cardinal Bagnasco e il cardinal Caffarra. Nessun richiamo al solito Gen 22, 17: quasi solo Inps e geopolitica, con quale strisciatina di tiepido buonsenso. Ma dei due è il secondo che dà il meglio. D’altra parte, il Caffarra tenta da decenni di autopromuoversi come fine pensatore. In realtà, riciccia il personalismo wojtyliano di Persona e atto, ostinandosi a impreziosirlo col maldestro tecnicismo dell’eclettico che si dà a spericolate incursioni nella psicologia e nell’antropologia.
Per esempio, sulla “progressiva perdita del senso della differenza sessuale”, che è cifra del moderno come momento di liquefazione dei ruoli tradizionalmente codificati: “La difficoltà di riconoscere l’alterità nella sua differenza quale in modo archetipo si dà a vedere nel dismorfismo sessuale umano è un fattore decisivo per il cambiamento demografico. Ciò ha portato da una parte ad una progressiva omologazione del femminile e del maschile, e dall’altra a porre l’atto generativo dentro la sfera del privato. Un atto, quindi, che viene socialmente sotto-stimato. Come mi hanno confermato molte madri”.
Poverino, avrà voluto dire “dimorfismo” e gli è scappato “dismorfismo”. Forse intendeva dire “archetipico”, ma gli è venuto “archetipo”: poco male, via, ci siamo intesi.  Però s’è rifatto mettendo il trattino di sapore heideggeriano tra “sotto” e “stimato”: non è una volgare “sottostima”, quella della quale il momento riproduttivo è fatto oggetto, ma una “sotto-stima” e chi ha orecchio fine per intendere finemente intenda.
Ciliegina sulla torta tutta storta? “Come mi hanno confermato molte madri”. Quasi sembra di vederle, queste madri, sembra quasi di sentirle: “Eminenza, faccia qualcosa! Le nostre scopate hanno un valore sociale, lo dica forte, si faccia sentire!”.

mercoledì 1 febbraio 2012

Non è la fine del mondo

Ho smesso di leggere Il Foglio da poco più di tre mesi e ho spiegato il perché in un post dello scorso 20 ottobre, al quale rimando per non ripetermi. Per l’attenzione che questo blog ha sempre dedicato al giornale di Giuliano Ferrara, l’ho considerato un atto dovuto. Vorrei solo rammentare che scrivevo: “Se qualcuno dei miei lettori mi invierà qualcosa pubblicato su Il Foglio sollecitandomi un commento, può darsi che vi butterò uno sguardo, ma non si offenda se non risponderò in pubblico, né in privato: vi dedicherò attenzione solo se davvero dovesse valere la pena”.
Da allora ho ricevuto una ventina di email di richieste in tal senso, ma nessun allegato mi è parso degno di un commento, fatta eccezione per uno sfregio di Marina Valensise alla memoria di Jacques Lacan. Se devo giudicare da quanto mi hanno segnalato i miei lettori in questi mesi, devo ribadire: “Il Foglio sembra aver esaurito il repertorio dei suoi trucchetti più sofisticati e non riesce che a produrne di meschini, tanto meschini che neanche vale più la pena di segnalarli… Nemmeno riesce più a fare incazzare, che pure può essere un buon motivo per continuare a leggere un giornale: prevale una sensazione di fastidio, mista a pena”.
Di nuovo c’è solo che tra ieri e oggi mi arrivano ben sei email che mi segnalano l’editoriale nel quale Giuliano Ferrara dà finalmente atto che il suo giornale è in crisi, dopo averlo negato tante volte, sempre baldanzosamente. Lo avevo già letto (Massimo Mantellini lo commentava due giorni fa con spietata lucidità), ma scriverne mi era parso superfluo. Qui finalmente mi decido a due righe, così rese doverose.

Lascio da parte lo specifico, preferisco tenermi sul generale, perché la crisi de Il Foglio è la crisi di tante altre testate che sono in edicola solo grazie al finanziamento pubblico, come Stefano Menichini ci dà modo di rammentare grazie a un suo intervento su Il Post, che si commenta da solo.
Preferisco dirlo a lui, piuttosto che a Giuliano Ferrara: non condivido le tue opinioni e difenderò sempre il tuo diritto di esprimerle, ma da nessuna parte nelle opere di Voltaire sta scritto che tu abbia il diritto di mangiare grazie alle tue opinioni e che a riempirti il piatto debba essere il contribuente. Se non riesci a fare delle tue opinioni un lavoro che ti dia da vivere, coltivalo come hobby e cambia mestiere. Soprattutto, non piagnucolare come se la chiusura de Il Foglio (ma stai pensando a quella di Europa, vero?) fosse la fine del mondo. Tuttal più è che Rutelli non riesce più ad assicurarti uno stipendio.