venerdì 22 luglio 2011

Sta per scatenarsi ancora la speranza di un paese normale?


Nell’impossibilità di avere una piena comprensione del presente, che è uno dei limiti insuperabili della natura umana, solitamente ci affidiamo a ciò che ci sembra relativamente chiaro del passato prossimo o di quello remoto, lo pigliamo, lo adattiamo per quanto ci è possibile in analogia e traiamo conclusioni, che talvolta ci tentano addirittura ad azzardare previsioni sul futuro, a costruire modelli e sistemi, e a illuderci di avere una chiave buona per ogni porta chiusa. Miserie dello storicismo, ma è che siamo inconsolabili orfani della storia, che peraltro non ci ha lasciato altra eredità che un album di foto e didascalie sbiadite, sulle quali consumiamo nostalgie insensate e rimpianti molto poco motivati.
È che ogni limite insuperabile della natura umana ha in sé l’irresistibile sfida a tentare di superarlo e, quando si comincia, non si finisce più. In questo, acuti o ottusi, colti o incolti, ci somigliamo tutti, e anche nel più stupido e ignorante degli esseri umani c’è un Sisifo che inutilmente suda. D’altro canto, la sfida posta nell’impossibilità di una piena comprensione del presente non può essere affrontata con maggiori garanzie affidandoci all’azzardo di chi pure abbia solida reputazione di persona estremamente acuta e straordinariamente colta, perché nell’uso dell’analogia non c’è intelligenza o esperienza che possano assicurarci un risultato efficace, e qui è superfluo portare esempi dei tragicomici infortuni capitati lungo il corso della storia a veri giganti del pensiero. E tuttavia ci consola sbagliare in buona compagnia piuttosto che da soli, sicché ogni epoca produce azzardi di gran pregio, proponendoci un uso dell’analogia che risponde ai gusti e alle più intime aspettative del momento.

Oggi, per esempio, l’azzardo che pare dare garanzia di una più piena comprensione del presente e di una più probabile previsione del futuro è quello di ritenere che siamo alla vigilia, anzi all’esordio, di una riedizione di Mani Pulite. Certo, nessuno spinge l’azzardo fino all’uso dell’analogia come ricalco. C’è chi sembra farlo, certo, ma è evidente che si tratta di una neanche tanto sottile forma di scaramanzia: più o meno consapevolmente, c’è chi cerca di scongiurare che la riedizione di Mani Pulite faccia gli stessi danni e chi spera che non tradisca le stesse speranze.
In questo senso, la bipolarizzazione del sistema politico produce un significativo uso strumentale dell’analogia come ricalco, dagli opposti fini secondo chi vi faccia ricorso, ma dallo stesso risultato, che è insieme danno e voglia di vederlo stavolta evitarlo, speranza e voglia di non vederla stavolta delusa. Mi pare, tuttavia, che non sia molto chiaro – neanche ai grandi del pensiero del nostro presente – che è proprio il bipolarismo (ancorché imperfetto) a rendere improponibile l’analogia, sovrastimato il calcolo dei possibili danni, esagerata ogni possibile speranza. Non c’è molto spazio, in mezzo, per una diversa rilettura di Mani Pulite e, così adattata al presente, l’analogia ritorna indietro deformata, come scritta da Travaglio o da Ferrara.

Davvero non è possibile rinunciare all’uso dell’analogia? E quale analogia fu usata nel tentativo di comprendere cosa fosse Mani Pulite nel mentre era in corso? Servì a molto sentirla come Liberazione? E servì a molto sentire la Liberazione come un nuovo Risorgimento? Anche il fascismo ci provò e non gli servì a molto. E quale analogia fu calcata sul Risorgimento? Quale dannazione ci condanna a fare sempre peggio, e sempre nella convinzione che, se non la sprechiamo, stiamo riavendo l’occasione per rivivere un passato migliore, che invece è a malapena una bugia consolatoria? Domande retoriche, naturalmente, e che perciò hanno in sé già una risposta.
Dunque, sta per scatenarsi ancora la speranza di un paese normale? Ma i paesi normali fanno un uso diverso del passato prossimo e remoto, e quindi questa speranza può scatenarsi come e quanto vorrà, ma sarà sempre delusa. Oppure: dobbiamo temere che stia per scatenarsi un’altra guerra civile, un altro inconcludente saldo fratricida? Ma le guerre civili finiscono, prima o poi, e qui, invece, dopo che il sangue è scorso, i nemici li vedi sempre a cena insieme, e la mattina dopo pronti a recitare ancora la loro parte, ritagliata sull’analogia preferita dagli uni o su quella preferita dagli altri. E con frequenti cambi di parte, giusto per illudersi che qualcosa, nonostante tutto, si muove, si è mosso.

giovedì 21 luglio 2011

A prescindere

Può darsi che non sia stato giusto concedere l’autorizzazione all’arresto di Papa e negare quella all’arresto di Tedesco, ma mi basta che il primo abbia chiesto venisse negata e che il secondo abbia invitato a concederla: se c’è stata ingiustizia, ai miei occhi scompare. Non m’importa molto che la richiesta di Papa fosse umanamente comprensibile e che quella di Tedesco fosse eventualmente tattica, ma penso il primo abbia compiuto un gesto disonorevole, anche se fosse innocente, e che il secondo si sia comportato da persona degna, anche se fosse colpevole.


Il buon Dio


Alcune settimane fa, all’Ospedale «Sant’Orsola» di Bologna, sono nate due gemelline affette da toracopagia. Si tratta di una di quelle malformazioni fetali che in passato erano definite “mostruosità doppie simmetriche” e alle quali oggi si dà il nome di diplopagie (craniopagia, ischiopagia, pigopagia, ecc.), patologie esclusive della gravidanza bigemellare monoamniotica monocoriale (1:65-70.000), con la fusione simmetrica di due feti omozigoti lungo tratti anatomici variabili per sede e ampiezza, con la pressoché costante fusione di uno o più organi interni, il che rende spesso assai problematica, talvolta materialmente impossibile, la separazione chirurgica con esito felice per entrambi i neonati. Nel linguaggio corrente si parla di “gemelli siamesi” e nel caso del «Sant’Orsola» si tratta di due bambine nate premature, simmetricamente fuse sulla faccia ventrale per gran parte del tratto toracico e parte dell’addome, con la fusione dei due fegati e un solo cuore in comune, peraltro severamente malformato. Sono ancora oggetto di studio, che in questi casi mette spesso a dura prova la diagnostica , ma da quasi subito, in questo caso, è apparso chiaro che le due sorelline hanno scarse possibilità di sopravvivenza se lasciate nella condizione che il buon Dio ha deciso per loro. D’altra parte, per quell’unico cuore che ora hanno in comune, separarle significherebbe sacrificarne una, ma solo con un 20% di possibilità che l’altra sopravviva.
È evidente che all’enormità dei problemi che si pongono sul piano tecnico si sovrapponga un problema d’ordine morale che almeno in apparenza è di una complessità addirittura maggiore di quella che il caso offre allo staff chirurgico. Se infatti, per ipotesi, le possibilità di salvare una delle due sorelline fosse del 100%, il problema bioetico sarebbe già grosso: per salvare una vita si dovrebbe sacrificarne un’altra e la scelta sarebbe ovviamente in favore del soggetto più forte a scapito di quello più debole. Questo sarebbe moralmente accettabile? Secondo alcuni, sì. Per altri, invece, nessuna scelta moralmente illecita è giustificata da un buon fine, quand’anche questo sia sicuramente raggiungibile scegliendo il male minore (uccidere un neonato) a fronte di un male maggiore (lasciare che ne muoiano due).  Altrettanto grosso sarebbe il problema – e siamo ancora nel campo delle ipotesi – se ci trovassimo di fronte a due “gemelli siamesi” che avessero possibilità di sopravvivere per lungo tempo, se lasciati fusi, ma uno o entrambi corressero il serio rischio di morire affrontando un intervento di separazione, laddove questo fosse tecnicamente possibile. Qui la questione si porrebbe in questi termini: una previsione circa la qualità della loro vita, se lasciati uniti, ci autorizzerebbe sul piano morale, quand’anche fossimo i loro genitori, a decidere di sacrificarne uno (o eventualmente entrambi) sulla base di un giudizio di valore della vita umana tutto calibrato sulla sua qualità? Secondo alcuni, sì. Per altri, invece, la vita è sacra sempre e in questo caso imporrebbe di lasciare uniti i “siamesi”.
Nel caso del «Sant’Orsola», la questione è in apparenza più semplice ma anche, e insieme, maledettamente più difficile. Siamo di fronte a due sorelline che, lasciate unite, hanno poca possibilità di sopravvivere. Poca, sì, ma chi può escludere un miracolo dello stesso buon Dio che le ha volute unite? Contro ogni previsione, se lasciate nelle condizioni in cui sono venute alla luce, potrebbero sopravvivere: separarle, peraltro seguendo il principio del male minore, si rivelerebbe doppiamente immorale (a priori ed eventualmente a posteriori). Decidendo di separarle, al contrario, una sicuramente morirebbe e anzi potrebbero morire entrambe. I medici sostengono che comunque morirebbero entrambe, se lasciate unite, ma con una percentuale così bassa di salvarne solo una e una percentuale così alta di ammazzarle entrambe, è lecito decidere di separarle, ammesso sia possibile, preferendo così escludere un miracoloso intervento del buon Dio? Ecco, dunque, che un caso in apparenza semplificato dalla drammatica cogenza dell’agire sul non agire, se operando in virtù del principio del male minore e della speranza negli strumenti della scienza, diventa mostruosamente complicato volendo rigettare la logica utilitaristica del male minore e la fede nel superiore disegno del buon Dio, ancorché oscuro alla ragione umana.

Giordano Bruno Guerri, nel suo articolo sul doloroso caso delle sorelline siamesi (il Giornale, 20.7.2011), si augura che a scegliere siano i genitori. Ma i genitori delle gemelle nate con un cuore in comune hanno già scelto: lo hanno fatto quando hanno saputo della loro drammatica condizione, ed hanno deciso continuare la gravidanza e farle venire al mondo così come erano, pur nell’angoscia e nella sofferenza che accompagna sempre la nascita di bambini gravemente disabili”. Così scrive Eugenia Roccella (il Giornale, 21.7.2011), la quale però non può avere piena chiarezza sulle ragioni che hanno spinto i genitori a scegliere di portare avanti la gravidanza: può darsi, per esempio, che sperassero di poter salvare una delle due bambine sacrificando l’altra. In tal caso, almeno in parte, potrebbero essere stati guidati da una logica utilitaristica. È dunque scorretto affermare che “questa libera decisione dei genitori [sia univocamente valida] ad indicare ai medici la via da seguire: la vita per le loro figlie, il meglio per le loro figlie”. La logica che li ha guidati a tale scelta potrebbe essere comunque eugenetica: salvare la figlia più forte, rinunciando a quella più debole. Le conclusioni di Eugenia Roccella appaiono dunque infondate: “Sarebbe ingiusto nei confronti di quei genitori coraggiosi, e di quei medici che li stanno aiutando, affrontare questa storia come una decisione sulla vita e la morte, una decisione di cui ci si deve assumere la responsabilità, decretando: «tu sì, tu no»”. Al contrario, la questione potrebbe dover essere posta proprio in questi termini, e per precisa volontà dei genitori, addirittura antecedente alla nascita delle gemelline, addirittura contestuale alla decisione di farle nascere. Giordano Bruno Guerri avrebbe, dunque, espresso un parere assai più ragionevole, proprio perché più rispettoso della libertà d’opzione dei genitori.
Ma la posizione di Eugenia Roccella è zoppa anche sul piano della morale cattolica. Infatti scrive: “Se, come sembra di capire, le due bambine insieme non riuscirebbero a sopravvivere, allora l’eventuale intervento di separazione servirà ad aiutare almeno una a vivere, nel tentativo di evitare una doppia morte. Non sarà, quindi, la scelta di far morire una e di far vivere l’altra, ma il tentativo di salvare almeno una persona da morte certa”. Siamo comunque dinanzi alla scelta del male minore, moralmente inaccettabile per la dottrina cattolica. Si prenda, per esempio, il caso di una gravidanza decagemellare: è pressoché sicuro che tutti e dieci i feti non arrivino a raggiungere maturità alla vita fuori dall’utero, ma questo non giustifica l’aborto selettivo di 6 feti per accrescere le possibilità di sopravvivenza per gli altri 4. Mutatis mutandis, il caso delle gemelline siamesi del «Sant’Orsola» è analogo, perché nessuno può con certezza escludere che il buon Dio voglia che esse sopravvivano, insieme a tutti e 10 i feti della gravidanza deca gemellare, o che muoiano tutti e 12, ma di morte naturale, per la imperscrutabile volontà dello stesso buon Dio.
Altrettanto errata, a mio modesto avviso, è la posizione di Ignazio Marino (“Personalmente credo che non me la sentirei ad intervenire chirurgicamente, già sapendo che una bambina sarebbe sacrificata”), come è bene argomentato da Chiara Lalli: “È molto diffusa l’idea che non agire sia moralmente privo di conseguenze o comunque moralmente meno coinvolgente dell’agire. Ma è una idea ingenua e sbagliata. La differenza è essenzialmente emotiva e psicologica: se non agisco, se non mi sporco le mani, mi sentirò meno responsabile. Ma se il mio non agire implica delle conseguenze peggiori del mio agire?”. C’è però da rammentare che Ignazio Marino si dichiara cattolico e qui si dimostra più cattolico di Eugenia Roccella.



Pathos


Immaginate che vi ficchino un “tubo nel gozzo”. Brutto, eh? Ecco, dunque, il lodevole paginone de il Giornale contro la barbarie della “nutrizione forzata”. Cambio di linea dopo l’appoggio al ddl Calabrò? Macché, mica si tratta della violenza fatta agli italiani, ai quali una legge di schietto stampo clericofascista scippa la libertà di scegliere se essere tenuti artificialmente vegetanti o essere lasciati naturalmente morire. No, si tratta dello sdegno per la “nutrizione forzata” che si impone alle oche, in Francia, in Spagna e in Ungheria, per gonfiarne il fegato e incrementare la produzione di paté. Il “tubo nel gozzo” che muove allo sdegno il Giornale è quello che sono costrette a subire le povere pennute. Tutto pathos da paté.  


Alfonso Papa va in galera


Lo sfregio


“Il rischio – per Roberto Pertici – è che l’ammirazione per la sua ultima battaglia oscuri la precedente azione politica contrassegnata invece da limiti ed errori”. Ben venga, dunque, questa biografia di Giacomo Matteotti scritta da Gianpaolo Romanati (Un italiano diverso. Giacomo Matteotti – Longanesi, 2011), che però  “suggerisce piuttosto che tirare conclusioni esplicite”. Poco male, per quelle ci pensa il Pertici (L’Osservatore Romano, 18-19.7.2011). E comincia col sottolineare che “Giacomo Matteotti non fu il primo morto ammazzato della sua famiglia. Anche il nonno Matteo era stato ucciso: davanti al suo negozio, durante una rissa”. Evidentemente l’avevano scritto nel sangue, e chissà che quelli della banda Dumini non siano stati solo uno strumento del destino. D’altronde i Matteotti, oltre ad essere socialisti, dunque laicisti, avevano un peccato originale gravissimo: erano ricchi, avevano fatto fortuna “mettendo le mani su vaste proprietà ecclesiastiche espropriate con le leggi del 1866 e del 1867”. Son cose che si pagano, ed ecco il Pertici, mandato dagli espropriati a far pipì sulla tomba di Matteotti: pisello piccolino, getto storto, ma per lo sfregio è il pensiero che conta. 

mercoledì 20 luglio 2011

martedì 19 luglio 2011

La storia, questa stupidina


Per chi di Papa Giovanni XII (955-964) sapeva solo ciò che aveva letto in Storia criminale del cristianesimo di Karlheinz Deschner (tomo V, cap. X), dove non è dipinto come un santo, era un dovere spendere quell’euro e mezzo al quale era posto in vendita su una bancarella il Giovanni XII di Achille e Pietro Teofilatto della Domus Theophylacti Opus (Palombi Editori, 2001), che la quarta di copertina dipingeva come un santo. È solo a pag. 314 (cap. XV) che poteva trovarsi ragione di due dipinti così diversi, ma col sorgere di un sospetto, che subito era sciolto nell’apprendere che la Domus Theophilacti Opus ha sede nel Castello Teofilatto, che “tra il 900 ed il 1100 appartenne alla potente famiglia romana del Senatore Teofilatto, che, con il Papa Giovanni XII e con i Conti di Tuscolo, aveva larghi interessi in tutto il territorio”. Superfluo rilevare che il Castello Teofilatto è di proprietà della famiglia Teofilatto, e qui sarà il caso di sospendere il giudizio sul rigore della ricerca storica che porta a dipingerci Giovanni XII come un santo. Sì, si dice che abbia fatto cardinale un bambino di 10 anni per ripagarlo di certi indicibili favori, ma si tratterà di una calunnia di quel porco di Liutprando, al quale il Deschner ha dato ingenuamente credito. Per quanto mi riguarda, propendo per la tesi dei Teofilatto e per la santità dei loro antichi e larghi interessi. Anzi, visto che il Castello è dato come “ideale per qualsiasi tipo di ricevimento, pranzi o cene riservate, buffet, cocktail e rinfreschi”, prenoterei. Ma pretendo lo sconto.


lunedì 18 luglio 2011

Raffaele Costa rimase inascoltato



Quando in libreria arrivò La Casta di Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo (Rizzoli, 2007), fu subito best seller. Non riuscivo a capacitarmene e scrivevo:

Nelle 442 pagine de L’Italia dei privilegi – l’autore è Raffaele Costa, l’editore è Mondadori, l’anno di pubblicazione è il 2002 – ho trovato tutto quello che c’è nelle 284 pagine de La Casta di Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo (Rizzoli, 2007), e molto – ma davvero molto – di più. Oltre al merito di essere scritto assai meglio de La Casta, L’Italia dei privilegi ha il pregio di essere molto più documentato, quello di non concedere nulla alla retorica, e insieme a L’Italia degli sprechi di 4 anni prima (stesso autore, stesso editore) costituisce un’istruttoria assai più lucida e spietata sul «sistema Italia». Sicché non so farmi una ragione del perché 5 anni fa il libro di Costa non abbia avuto il successo di vendite avuto quest’anno da quello di Stella e Rizzo. E non riesco a immaginare altro che questo: non erano ancora pronti i tempi perché bastasse un libro a fare da detonatore, ecco perché nulla era concesso alla retorica”.

Sbagliavo: non era una questione di tempi, era proprio la retorica l’ingrediente che mancava a quello che ancora oggi è l’insuperabile lavoro di Costa. Era la retorica dello sdegno che aveva dato il successo al volume di Stella e Rizzo, ma mancava ancora qualcosa al successo che in queste ore sta raccogliendo Spider Truman: il tono delatorio del fuoriuscito dal Palazzo. Non che il libro di Costa ne fosse privo (il sottotitolo de L’Italia dei privilegi era A cura di un privilegiato), ma lo sdegno era tutto a cura del lettore, perché l’autore si limitava ad elencare i privilegi goduti dai suoi pari. Alla denuncia di Costa mancava il detonatore: era una delazione, ben più dettagliata e documentata delle quattro rimasticature di Spider Truman, ma a farla non era un licenziato, un trombato, un estromesso. La delazione mancava di un elemento psicologico essenziale: l’intento vendicativo.
Così Spider Truman è credibile, almeno per gli allocchi che corrono a dirgli mi piace su Facebook, mentre Raffaele Costa rimase inascoltato. Questo è il paese dove pure un moto nobile come l’indignazione ha bisogno di una spinta ignobile come il livore di un precario che ha taciuto fino a quando la Casta gli dava le briciole e ora spiffera tutto il risaputo perché non gliele dà più. Troppo poco per dedurne che in ogni Spider Truman c’è un italiano medio?


E tu, Nichi, quando ti spari?


“Il progetto di un grande ospedale pubblico-privato ha preso avvio circa un anno fa quando don Luigi Verzé, presidente del San Raffaele ha avanzato la proposta al presidente Vendola. Insediata una apposita commissione di lavoro costituita da tecnici in campo sanitario, universitario, giuridico e amministrativo-regionale, la Regione ha incontrato i vertici del San Raffaele a fine 2007. Ora, il prossimo passaggio dovrebbe essere proprio la definitiva approvazione dell’ipotesi progettuale e quindi l’avvio delle procedure di attivazione”
Gazzetta del Mezzogiorno, 17.5.2008

“Oggi, il Presidente della Regione Puglia, On. Nicola Vendola, l’Assessore al Bilancio della Regione, Avv. Michele Pelillo, il Sindaco di Taranto, Ippazio Stefano e una rappresentanza del Consiglio Comunale di Taranto sono in visita ufficiale al San Raffaele di Milano. La collaborazione tra le due realtà ha l’obiettivo di realizzare e gestire congiuntamente, attraverso una fondazione mista (Regione Puglia-San Raffaele), il nuovo «San Raffaele del Mediterraneo», nella città di Taranto. A seguito della delibera della Giunta Regionale pugliese (04/08/2009) il progetto della nuova struttura è diventato concreto. Il San Raffaele del Mediterraneo sarà un ospedale pubblico di assoluta avanguardia, sul modello del San Raffaele di Milano”
Fondazione Centro S. Raffaele del Monte Tabor, 22.10.2009

“Basta leggere le delibere dell’anno 2009 numero 2033, 2039 e numero 320, 331 e 1154 partorite dalla giunta regionale pugliese nell’anno 2010 per comprendere appieno il senso dell’elargizione gratuita (ben 120 milioni di euro, vale a dire denaro pubblico) a don Verzé. La delibera di giunta regionale numero 1154 dell’11 maggio 2010 è comunque un giallo nel mistero: infatti non è stata resa nota in barba alla trasparenza amministrativa. Un nostro collaboratore ha fortuitamente intercettato una missiva datata 6 maggio 2009, trasmessa da don Verzé all’«illustrissimo Dott. Nichi Vendola». Cosa rivela la lettera? Narra il programma relativo proprio al San Raffaele del Mediterraneo. In sostanza illustra la dotazione di 572 posti letto; indi che la nuova opera sanitaria dovrebbe arginare il flusso di mobilità ospedaliera passiva che nel 2007 è costata alla regione Puglia 133 milioni di euro; poi ancora che il costo presunto del complesso sanitario tarantino è stato stimato in un importo indicativo di 200-210 milioni di euro. Nell’epistola di don Verzè si legge inoltre: «Ho appreso con piacere che la Regione Puglia ha già posto la realizzazione del nuovo ospedale tra i primi obiettivi prioritari e ha riservato a questo fine la cifra di 100 milioni di euro sul Programma Fas 2007-2013». Firmato senza ombra di dubbio: «Sac. Prof. Luigi M.- Verzé»”
Altra voce del Sannio, 4.9.2010

“Don Luigi Verzé chiama il Vaticano per il salvataggio dell’ospedale San Raffaele di Milano, sommerso da 900 milioni di debiti”
Il Sole-24 Ore, 1.7.2011

“L’ex vicepresidente del San Raffaele, Mario Cal, ex braccio destro di Don Verzé, si è tolto la vita. Nei giorni scorsi era stato ascoltato dalla procura di Milano in relazione al buco da quasi un miliardo di euro nei conti del gruppo ospedaliero. Si era chiuso da pochi minuti nel suo ufficio alla Fondazione San Raffaele, quando ha impugnato una calibro 38 regolarmente detenuta e si è sparato un colpo alla testa”
ansa.it, 18.7.2011


sabato 16 luglio 2011

Il viola è passato di moda


“È firmato da intellettuali, persone comuni e artisti l’appello che da alcuni giorni invita chi vorrebbe che il governo si dimettesse a indossare qualcosa di arancione” (ansa.it, 15.7.2011).
Mi sa che l’anno prossimo andrà molto il fucsia.


 

venerdì 15 luglio 2011

“Il paese è grato al Parlamento”


Al 31 marzo dell’anno scorso, quando Giulio Tremonti prometteva che la finanziaria ne avrebbe drasticamente ridotto il numero, le auto blu erano 629.120, e cioè 21.000 in più dell’anno prima e oltre 400.000 in più che nel 2005. Non sono riuscito a trovare dati aggiornati a quest’anno, ma nemmeno ho trovato notizie relative ad una riduzione del parco macchine a disposizione della Casta in questi ultimi 16 mesi, sicché devo ritenere che a tutt’oggi il costo di questo privilegio non sia inferiore ai 21 miliardi di euro ufficialmente dichiarato l’anno scorso. Superfluo dire che un consistente taglio di questa spesa sarebbe strutturale: di là da ogni implicazione di carattere morale, di là dal segnale che questo taglio darebbe a un paese che da sempre soffre una insostenibile pressione fiscale, si tratterebbe di far cassa. Neppure con la manovra finanziaria oggi partorita dal Parlamento si è intaccato questo sperpero: possiamo computarlo intorno ai 18 miliardi di euro, visto che in Francia, con una popolazione di poco superiore a quella italiana, circolano solo 65.000 auto blu, poco più di un decimo di quante ne circolano in Italia. Ma questa è solo una delle voci che avrebbero potuto far cassa e che invece sono state eluse da una manovra finanziaria dal peso di 48 miliardi, per di più spalmati su tre anni: più di un terzo sarebbe stato coperto mettendo mano a ciò che Giulio Tremonti prometteva l’anno scorso. Non è stato fatto.
Una voce mai neppure presa in considerazione è quella che fa dell’Italia il maggiore finanziatore di una confessione religiosa: tra contributi diretti e sgravi fiscali, il Vaticano costa ogni anno all’Italia circa 4 miliardi di euro. Ma se questo onere è da considerare un salasso inevitabile, visto che la Casta ecclesiastica è ancor più intoccabile di quella della classe politica, altre spese potevano essere tagliate, ma neanche sono state neanche prese in considerazione: dall’abolizione delle province alla possibilità di accorpare i comuni con meno di 5.000-10.000 abitanti; da un taglio delle “pensioni eccellenti” che non fosse, come è stato, soltanto simbolico, e dunque inconsistente, alla chiusura del rubinetto che le casse dello stato tengono aperto da sempre in favore di una miriade di cricche grandi e piccole, ormai ben mimetizzate nel parastato.
Si potevano tagliare i finanziamenti occulti e manifesti ai partiti e alle loro emanazioni, si poteva far piazza pulita degli sconti fiscali che ogni clientela è riuscita fin qui a lucrare senza soluzione di continuità tra Prima e Seconda Repubblica. Si poteva, infine, imporre un aggravio fiscale alle rendite parassitarie. Si è preferito, come sempre, colpire i più deboli, tosare fino alla carne viva fasce sociali già poco o null’affatto garantite. Questa sarebbe la “prova straordinaria” data dal Governo, almeno a quanto dice Giorgio Napolitano, che in nome del popolo italiano dice: “Il paese è grato al Parlamento”. E si tratta di personalità ad alto indice di gradimento, praticamente impossibile mandarlo a cagare.

Stupisce?



Un vecchio radicale, Lorenzo Strik Lievers, e un ciellino di lungo corso, Luigi Amicone, firmano insieme (vedremo perché non ci sia troppo da stupirsi) una lettera a Il Foglio: i due sollecitano Giuliano Ferrara a farsi promotore di una campagna in favore di unamnistia, una campagna di quelle di cui il giornale e il suo direttore sono capaci”.
Qui potremmo aprire una parentesi, chiederci quante campagne de Il Foglio abbiamo avuto un buon esito e se quella dei due sia poi unidea così felice. Ma non importa, certe campagne hanno buon esito già nel dare visibilità a chi le sollecita, a chi promuove e a chi le sostiene: già in partenza non se ne prefiggono altro che quello minimo di costruirsi una buona reputazione. Non è bello, daltra parte, dubitare della buona fede altrui quando il fine dichiarato è, come in questo caso, senza dubbio assai nobile. Altra cosa è se unamnistia sarebbe la soluzione del problema o solo un palliativo.
Come ho già scritto alcuni giorni fa, ben oltre la premura di carattere umanitario, unamnistia è ormai indispensabile, fosse solo per evitare laccendersi di rivolte carcerarie, che avrebbero drammatica portata e conseguenze tragiche. E tuttavia, senza una riforma della giustizia che elimini la vergogna della detenzione preventiva e stabilisca pene alternative alla carcerazione per i reati meno gravi, unamnistia servirebbe solo a rimandare la soluzione del problema, che probabilmente si riproporrebbe in dimensioni analoghe, e in breve tempo. Non siamo forse allemergenza a pochi anni da un indulto? Senza la depenalizzazione dei reati connessi alluso di sostanze stupefacenti e una matura svolta antiproibizionista, senza politiche che invertano la rotta sui problemi posti dallimmigrazione, le carceri italiane sono destinate a rifarsi stracolme. Qui, però, è difficile trovare intese tra radicali e ciellini. Non stupisce, invece, vederli insieme su una iniziativa che soddisfa il comune bisogno di visibilità, perché comune è la loro condizione di esigua minoranza in seno alla società italiana, e comune è la natura settaria delle loro comunità.
Non è tutto naturalmente, perché in ciellini e radicali, come in Giussani e in Pannella, cè un altro punto in comune, anche se assai ben celato: la convinzione che a muovere una società debba essere una élite compassionevole. Dove la con-passione è la funzione che fa prossima persona a persona (in entrambi il rigetto dellindividuo) e il diritto (naturale ancorché acquisito, in Pannella; divino ancorché incarnato, in Giussani) è espressione del sacro: in entrambi – radicali e ciellini – la politica è il farsi di un evento eucaristico, tra grazia e carità.


[...]

giovedì 14 luglio 2011

Corri ad abbeverarti, plebe!


Ci sono concetti che avrete fatto enorme fatica a penetrare e che probabilmente vi avranno richiesto mesi e mesi di studio, forse anni, per esser colti nell’interezza della loro complessità. L’ileomorfismo, per esempio, non vi ha dato problemi? E la teoria delle superstringhe? Via, non fate i presuntuosi, su qualcosa vi sarete senza dubbio scervellati prima di arrivare ad afferrarlo. Bene, siate umili e dite: sapreste dire cos’è lo strategismo?
Facile, troppo facile, fare spallucce. Probabilmente è la complessità del concetto a spaventarvi e a farvi esorcizzare la vostra inadeguatezza nello scherno che riservate a un gigante del pensiero come l’avvocato Alfonso Luigi Marra. Non importa, fate pure, tanto poi si sa come la va: dopo morto, correrete a rivalutarlo come avete fatto con Franco e Ciccio, che da vivi schifavate e ora siete costretti a dire immensi.
Per quando sarà, vi do una dritta: il Marra ha concentrato il succo del suo ingegno in una definizione dello strategismo che da sola vale tre riletture dei suoi libri. Come Heidegger lo capite meglio quando scazza fuor da tomi sontuosamente rilegati, il Marra lo cogliete al volo nell’intervista che oggi è in edicola su New Star, il “settimanale di spettacolo, cultura, attualità diretto da Massimo Maffei, giornale che mantiene aperto il dialogo con il mondo giovane, ma che guarda con rinnovato interesse a tutte le generazioni, prodotto frizzante, dinamico, allegro, colorato, ricco di contenuti che spaziano dalla tv al gossip, dal cinema alla moda, a solo un euro tutte le settimane in edicola”. È qui che il Marra si distilla e si dà – Dio, come si dà! – anche a chi finora si è ostinato a non capirlo. Corri ad abbeverarti, plebe!

“Lo strategismo è ovviamente una visione appunto strategica, furbesca, prevaricatoria, non dialogica, delle relazioni umane. L’elemento di novità è che la mia analisi sullo strategismo si inquadra nella mia teoria sul modo di formazione del pensiero e nella mia tesi circa la sessualità come strumento per addivenire all’emozionale profondo dell’altro e quindi come fondamentale forma di linguaggio. Il potere ha invece sempre istituito culture che bloccassero la sessualità allo stadio genitale, perché una sessualità di tipo dialogico innescherebbe il confronto, che poi si estenderebbe alla famiglia e alla società, e nel confronto ogni forma di prevaricazione si dissolverebbe. Strategismo che, in quanto strumento per vincere, è ineludibile e le cui radici raggiungono profondità inenarrabili, ma che è oggi divenuto straordinariamente perverso, sicché occorre che cambi di qualità e divenga compatibile a un maggior livello di civiltà. Il livello di strategismo\pazzia dell’uomo di oggi è infatti tale che, nel vano scontro su tutti i piani, tutte le forze stanno per spezzarsi, e tutte le mete, pur a portata di mano, sono sempre più irraggiungibili per i sempre più tragicamente ridicoli lottatori, che assurdamente si sono consumati al solo scopo di impedirsi l’un l’altro di raggiungerle”.

Nota So bene che qui si è violato il copyright, ma era a fine didattico e scientifico (primo comma dell’art. 10 dell’Allegato A della delibera dell’Agcom del 6.7.2011) e dunque il direttore di New Star mi fa una pippa.

A freddo



Non faccio alcuna fatica ad ammettere che a caldo mi sono fatto prendere la mano dalla rabbia. Come accade ogni volta che vedo scippare un diritto, anche stavolta, con la legge sulle dichiarazioni anticipate di trattamento approvata ieri alla Camera, d’istinto ho distolto l’attenzione dalle merde umane che l’hanno votata e l’ho rivolta a chi la subirà, naturalmente lamentandone quanto di assurdo e atroce ricadrà sulla sua pelle e su quella dei suoi cari, ma solo quando e se dovesse capitargli.
Chi ha voluto una legge che sul piano dei principi sancisce l’indisponibilità della propria vita e sul piano del diritto l’obbligo di subire un trattamento medico eventualmente indesiderato come l’alimentazione artificiale forzata – le merde umane che pensano di poter decidere sulla vita e sulla morte altrui, facendosi interpreti di un bene assoluto che sta sempre oltre e spesso contro il bene di ciascuno – hanno colpe solo relative: mosse da convinzioni o da interessi che a priori pongono al di sopra di ogni elementare rispetto dell’individuo e della sua sovranità, anche stavolta hanno agito in modo coerente, con l’ottusa determinazione di chi pensa di guadagnare merito dinanzi al proprio dio, lucrandone qualche personale vantaggio in cielo e nel frattempo in terra. Questi squallidi burattini dello Stato etico sono colpevoli di un crimine, ma chi lo subisce nell’indifferenza ne è complice: tanto più colpevole quanto più ignaro d’essere vittima potenziale.
E allora, schiumando bile, mi sono lasciato andare: ho scritto che, “potendo e volendo, si possono scippare diritti a chi non è capace di conquistarseli e difenderli, visto che non li merita”. Una bestialità, convengo, e ringrazio chi ha voluto essere indulgente nei confronti di uno sfogo, promettendogli di non vacillare più nell’ottimismo della ragione, nella speranza che la plebe possa emanciparsi e in tutte quelle altre sante illusioni che ci aiutano a credere possibile un mondo un poco più decente.
Porgo le mie scuse e a freddo, oggi, guardo questa legge, che “riconosce e tutela la vita umana, quale diritto inviolabile ed indisponibile, garantito anche nella fase terminale dell’esistenza e nell’ipotesi in cui la persona non sia più in grado di intendere e di volere, fino alla morte accertata nei modi di legge”. Presume di poterlo fare, vietando “ogni forma di eutanasia e ogni forma di assistenza o di aiuto al suicidio, considerando l’attività medica e quella di assistenza alle persone esclusivamente finalizzate alla tutela della vita e della salute nonché all’alleviamento della sofferenza”. Con ciò è fatto primario richiamo alla “dignità della persona”, che in pratica è negata col dichiarare che la sua vita le è indisponibile. Si arriva, come è noto, a stabilire l’obbligo dell’alimentazione artificiale forzata per soggetti che non sono in condizioni di poterla rifiutare, ma alla quale nessuno potrebbe obbligarli se in condizioni di opporre un rifiuto. Con ciò si intenderebbe riconoscere la “dignità della persona” che non voglia farsi infilare un sondino nello stomaco, e che può rifiutarlo fino a quando può farlo, ma negandole questa dignità e imponendogli il sondino quando non ne ha più la possibilità.
Sono almeno quattro gli articoli della Costituzione che rendono questa legge inammissibile. Quando poi si affida al medico la decisione ultima di eseguire o meno le volontà espresse da un soggetto che non sia più grado di verificarne il rispetto, si arriva al paradosso che le sue disposizioni possono essere disattese, anche in senso opposto, prevalendo il diritto del medico a non ritenerle condivisibili. Qui la legge si presenta davanti alla Corte Costituzionale e fa eutanasia di se stessa.
La speranza che la plebe possa emanciparsi può ritenersi superflua: basterà lo tsunami di ricorsi che senza dubbio si abbatterà su questa legge, che a questo punto c’è da augurarsi passi al Senato senza che cambi neppure una virgola. Così come è scritta, è perfetta per essere ridotta a pezzetti. Nessuno si azzardi a raccogliere firme per abrogarla in toto o in parte: ha in se stessa la dichiarazione anticipata che vuol essere ammazzata. Sarà accontentata.




mercoledì 13 luglio 2011

[...]


Non era il suo “ultimo giorno di missione”, come riportano quasi tutti i quotidiani di oggi: è che la settimana prossima doveva tornare in Italia per una breve licenza. Lo si sapeva già da ieri pomeriggio e infatti Enrico Mentana l’aveva precisato nell’edizione del tg delle 20,00. E tuttavia stamane il Giornale, Avvenire e il Riformista lo scrivono fin nel titolo: ucciso, morto, caduto “nell’ultimo giorno di missione”. Troppo forte la tentazione di dare alla tragedia un tocco di atroce fatalità.

Ancorché eversivo

Temo che Eugenia Roccella abbia ragione: “Qualora per la legge sul testamento biologico si decidesse di indire un referendum, questo finirà come quello per la legge 40”. Dico “temo”, ma in realtà non me ne frega molto: per me e per i miei cari sono in grado di fottermene altamente della legge 40 e della legge che oggi è stata approvata alla Camera e che quasi certamente sarà approvata anche dal Senato, e oso affermare che da medico sono in grado di violarle entrambe, utilizzando strumenti che mi mettano in condizione di sfuggire ad ogni sanzione. Gli altri? Gli altri sono in gran misura gli astensionisti sui quali conta, e a ragione, Eugenia Roccella: mai interessati ai problemi altrui fino a quando non arrivano ad essere i loro problemi, e meritano commiserazione, ma si arrangino.
Negli ultimi sei anni mi sono trovato di fronte molte coppie con problemi di fertilità risolvibili con gli strumenti vietati dalla legge 40: la gran parte aveva disertato le urne ai referendum del 12 e 13 giugno 2005, a quei tempi non avevano ancora deciso di avere un bambino e probabilmente non immaginavano sarebbe stato un problema. Ho seri dubbi nel credere che oggi sarebbero disposti a porsi il problema del testamento biologico: probabilmente aspettano di trovarsi in stato vegetativo permanente, con un sondino infilato a forza nello stomaco, per farsi sensibili al diritto di autodeterminazione e lì scoprire che glielo avevano tolto nel 2011, mentre erano distratti dalla voglia di avere un figlio. Forse anche la commiserazione è troppo, la ritiro.
Sì, Eugenia Roccella ha ragione: potendo e volendo, si possono scippare diritti a chi non è capace di conquistarseli e difenderli, visto che non li meritano. Chi può farli propri nonostante e contro leggi disumane, col reato o col privilegio (che nel fondo hanno uguale radice), può serenamente darsi ragione di una giustizia privata che, goduta senza dare scandalo, è di fatto legittima, ancorché eversiva. Come arrivo ad affermare questo sproposito? Mostratemi le piazze inferocite per l’approvazione del ddl Calabrò alla Camera e lo ritiro.
La mia compagna è incinta, e per avere questo bambino non c’è stato alcun problema: ci fosse stato, non avremmo avuto bisogno di andare a Barcellona o a Zurigo. Ho raccolto i testamenti biologici dei miei cari e ho dato istruzioni dettagliate riguardo al mio fine vita: tutto sarà compiuto senza grosse difficoltà, nel caso, e sfido ogni medico legale a dimostrare che ci sarà stata eutanasia. Sono di un pignolo, io.
Gli altri? Stufo di pensare agli altri, ci pensa Eugenia Roccella. Chi ne condivide le idee, sappia esserne all’altezza. Chi non le condivide, e ritiene odioso che gli vengano imposte, provi con un referendum. Ma poi sia disposto a darle ragione.




lunedì 11 luglio 2011

Tutti insieme a sgranocchiare i Fonzies


Questo post è la risposta a quanti mi hanno scritto in questi giorni per chiedermi perché non ho aderito alla Notte della rete. Ne avevo già dato spiegazione, per quanto assai stringata, ma adesso posso dilungarmi visto che lo Schema di regolamento in materia di tutela del diritto d’autore sulle reti di comunicazione elettronica è noto nel dettaglio, con la conferma del punto che a me pare dirimente. Sarò comunque breve, perché mi pare che le ansie mosse dai promotori dell’iniziativa del 5 luglio possano dissolversi come neve al sole dinanzi all’art. 10 dell’Allegato A della delibera dell’Agcom, dove è posta eccezione al provvedimento di rimozione coatta del materiale coperto da copyright da un blog che possa dimostrare “l’assenza della finalità commerciale e dello scopo di lucro”.
Preferisco non fare nomi, ma quale bavaglio ha da temere il blogger che stamane fa la pubblicità ai Fonzies, rinunciandoci? In altri termini, la sua libertà di espressione è messa in pericolo dalla delibera dell’Agcom o dalla voglia di guadagnare due euro al mese pubblicizzando i noti stuzzichini al formaggio? Si tratta di un ragazzo intelligente e certo non gli sfuggirà quanto sia semplice proteggere il suo blog da censure relative all’uso di materiale sul quale siano posti diritti di proprietà: gli basterebbe rimuovere quella réclame. E allora perché preferisce stare in ansia e trasmetterla anche agli ingenui che non hanno nulla da temere?
Perché l’ansia è un fattore aggregante, e strusciarsi il culo a vicenda in preda a una paura (non importa se reale o meno) è il metodo più efficace per socializzare, creare interdipendenze, costruire consorterie, fidelizzare clientele. Tutti insieme a sgranocchiare i Fonzies.

domenica 10 luglio 2011