lunedì 7 marzo 2011

L’alleanza terapeutica

 
Non potrei mai dare della testa di cazzo a un collega, perché violerei le norme della deontologia professionale. Mi astengo, dunque, da ogni giudizio su chi ha firmato il comunicato dell’Amci (Associazione medici cattolici italiani) in favore della legge sul fine vita, e mi limito a sollevare qualche perplessità.
In primo luogo: “Nella realtà concreta della professione medica – c’è scritto – è più presente il rischio dell’abbandono piuttosto che quello dell’accanimento terapeutico”. E allora che senso ha fare una legge? Hanno ragione quanti affermano che non serve?
Di poi: “Le Dat non possono costituire un testamento vincolante per il medico curante il quale, ben attento alla relazione umana che lo lega al suo paziente, avrà sempre a cuore di rispettare l’alleanza terapeutica, fondamento della professione medica, tenendo conto, nell’assunzione delle proprie inalienabili responsabilità, delle volontà espresse dal paziente o dal suo fiduciario”. Le quali, tuttavia, alla faccia dell’alleanza, possono essere ignorate quando il paziente o il suo fiduciario esprimessero la decisione di non volere un tubo nello stomaco o un ago in vena. Aghi e tubi non sono attrezzi terapeutici? Non è accanimento terapeutico imporli contro la volontà del paziente? L’alleanza terapeutica non dovrebbe avere come base minima una concordata condotta del terapeuta?
 
Qui mi fermo, sennò finisco per violare le norme della deontologia professionale.
 
 

La trattativa


A maggio e a luglio dell’anno prima c’erano state le stragi di Capaci e di Via d’Amelio. Nel maggio del 1993, a Firenze, la mafia fa strage in Via dei Georgofili. Due mesi dopo, fa scoppiare bombe a Roma e a Milano. Gli attentati sono rivendicati, con la minaccia di fare centinaia di morti. Di lì a poco, il 31 ottobre, si scopre un furgone imbottito di esplosivo nei pressi dello stadio Olimpico, qualcosa non ha funzionato e non è esploso. È l’avventura terrorista dei corleonesi di Totò Riina.
Col 1° novembre, sempre del 1993, arriva la scadenza del 41bis per molti detenuti e il ministro della Giustizia, Giovanni Conso, non lo rinnova a 140 di loro. Da quel momento in poi la mafia smette di piazzare bombe.

“Se ne può desumere che la trattativa/ricatto abbia avuto i suoi effetti tra luglio e novembre?”. La domanda è posta proprio da Conso, in apertura dell’audizione dell’11 novembre 2010 presso la Commissione parlamentare antimafia.
“Innanzitutto di fronte a me stesso – aggiunge – e di fronte alla verità, e alla storia, giacché il tema è tale da incidere sulla storia del paese, ho il dovere di ammettere che la questione ha proprio questa consistenza: perché non sono stati prorogati?”. E da subito chiarisce: “Posso garantire, posso garantirlo sotto ogni forma di giuramento, che da parte mia non c’è mai stato neanche un barlume di trattativa. Per principio non avrei mai trattato con nessuno degli appartenenti a questa parte anti-stato”.

Possiamo credergli solo se crediamo al suo giuramento? Conso sembra capire di chiedere troppo e concede: “L’apparenza potrebbe trarre in inganno: non si sono rinnovati quei provvedimenti restrittivi – si può argomentare – e così si è favorita questa parte”. E allora? Come possiamo evitare di farci ingannare dall’apparenza senza dover fidare solo sul suo onore? È semplice: abbiamo tutto ciò che Conso ha detto e scritto riguardo al 41bis prima di quel mancato rinnovo del 6 novembre 1993.
E cosa ne abbia sempre pensato, senza mai farne mistero, Conso lo rammenta agli auditori, ma prima fa presente che quel rinnovo non fosse un atto dovuto, ma del tutto discrezionale. E non si trattava di mandarli liberi, ma solo di sospendere una misura utile, sì, ma che Conso aveva sempre considerato, e continua a considerare, sul confine tra diritto e arbitrio, tra pena e tortura. E tuttavia utile, quando applicata con giudizio. Per esempio, nel gennaio del 1994, non esita a rinnovare il 41bis ad un altro pacchetto di detenuti.

Questo è quanto pensava, e continua a pensare, del 41bis. E non aveva notizia di richieste da parte dei corleonesi, tanto meno aveva contatti con intermediari: tutto fu deciso in piena autonomia, sulla base del suo personale convincimento che levare il “carcere duro” a quei 140 mafiosi di basso profilo fosse – insieme – cosa possibile senza essere dannosa e forse anche utile.
Questo può dirsi trattare? Così pare a quanti hanno prima coccolato e poi abbandonato la teoria della trattativa tra mafia e Berlusconi come contesto nel quale prende vita Forza Italia. Come se non fosse più possibile dopo le dichiarazioni di Conso, come se la decisione da lui presa nel novembre del 1993 fosse “la” trattativa, e ogni “altra” trattativa venga così ad essere esclusa. Con sommo imbarazzo della teoria.

Io credo a Conso. Intendeva mandare un segnale ai corleonesi dopo la cattura di Totò Riina: era un prezzo piccolo in cambio di un vantaggio che gli sembrò essere acquisito con la fine degli attentati. A torto o a ragione, chi può dire? Rinnovare o no il 41bis a quei mafiosi era in sua facoltà, la legge non glielo imponeva, né gli imponeva di consultare alcuno.
Siamo nella pienezza del diritto. Mancano addirittura i prerequisiti della trattativa. C’è un uso temperato della misura restrittiva. Ed è dichiarato il fine. Sulla bontà del mezzo spettava decidere al Guardasigilli. Dovrebbe essere la prova che i principi possono cimentarsi con la realtà senza uscirne troppo malconci. E invece, per chi voleva che Spatuzza avesse in pugno una verità piana, è un colpo micidiale. Da rimuovere.
È in questo deficit di fede nello stato di diritto che la sinistra giustizialista confessa il suo limite. Sarebbe stato utile correggere la teoria, si è limitata a ritirarla.

È così che si trattano i pontefici!


Meotti ha ragione: la gran parte degli alti prelati in Terrasanta e dintorni rimproverano ai “sionisti” di “occupare” la Palestina e di fare “pulizia etnica”; il Sinodo speciale sul Medio Oriente dello scorso ottobre sembrava un meeting filopalestinese; i più importanti giornalisti cattolici diffamano Israele; La Civiltà Cattolica schizza fiele; e insomma pare che la Santa Sede preferisca stare dalla parte dei “devoti della morte” contro gli israeliani, dei quali dovrebbe essere invece “naturale alleata”. Non c’è una comune radice giudaico-cristiana? E allora è sacrosanto il richiamo alla coerenza che Meotti rivolge a Benedetto XVI: “Pope Benedict should now reverse the tragic wave against Israel and the Jews – which its enemies want to annihilate – with the same powerful determination with which he raises his voice in defense of the «nonnegotiable» principles concerning human life. Israel is also not negotiable”.
“Should”, mica “would”. “Now”, mica “sooner or later”. Schiena dritta, insomma, mica come quel semigenuflesso del signor direttore. Bravo Meotti, è così che si trattano i pontefici!

Sì, il richiamo è in inglese, perché è rivolto dalle pagine del Jerusalem Post. E qui viene spontaneo chiedersi: Lungotevere Raffaello Sanzio dista meno di due chilometri da Piazza San Pietro, perché andarglielo a consigliare da Gerusalemme, a più di 2.000 chilometri di distanza? Da così lontano, siamo sicuri che il Papa senta, si penta e cambi strategia in Medio Oriente?


ifeelcud.it


Non ho a disposizione i dati del 2010 e dunque prendo in considerazione quelli dell’anno precedente (fonte Cei). La somma totale raccolta grazie all’8xmille per l’anno 2009 è di 967.538.542 euro. L’88,1% è andato al sostentamento del clero (381.300.000), alla manutenzione ordinaria della sua macchina sul territorio (381.238.542) e al carburante per muoverla (90.000.000); il 7,8% ai poveri del Terzo Mondo; il 3,1% a quelli nostrani. È così da sempre. Da quando c’è l’8xmille – ormai è un quarto di secolo – il criterio di ripartizione è costante: mai più del 12% ai poveri, mai meno dell’83% ai preti.
Dati noti? Nel 2003 lo sapeva solo il 4,2% degli italiani, e non ho disposizione dati più recenti. Tuttavia nel 2008 è uscito La questua di Curzio Maltese e saranno diventati il 5, il 7, forse addirittura il 10%. Facciamo il 20%? Se fosse, avremmo ancora 4 italiani su 5 ingannati dai martellanti spot televisivi che la Cei imbottisce di bimbetti africani, barboni sdentati, emaciati strappati alla droga, puttane levate dalla strada, come se l’8xmille andasse solo a loro.
Non è il criterio di ripartizione ad esser degno di attenzione, non se si conosce un poco il clero: a ripartire diversamente, non sarebbe ancora lì. Se lo si conosce un poco, non è degno di attenzione neanche il suo cinismo: è da sempre che i bisognosi gli fanno da esca per prendere all’amo i caritatevoli. Nemmeno gli strumenti di questo cinismo sono degni di attenzione: se si conosce un poco il clero, si capisce che sono gli stessi di sempre, anche se adeguati ai tempi. È per questo che in questi sette anni – Malvino li compie proprio oggi – non ho mai sprecato troppo tempo su l’8xmille. Ma stavolta è diverso. Stavolta c’è da segnalare ifeelcud.it, che è qualcosa di più del solito spillar soldi ai fessi.

Ora anche i giovani possono fare tanto per sostenere l’8xmille, aiutando gli anziani a compilare e consegnare la scheda allegata ai loro modelli CUD, per esempio. Così i fondi dell’8xmille arriveranno ai tanti progetti che la Chiesa cattolica porta avanti in tutto il mondo, donando a chi ha più bisogno la speranza di una vita migliore”. Chi ha più bisogno? Vedi sopra: i poveri per l’11,9% e il clero per il restante 88,1%.
Si sa, l’Italia è patria della disoccupazione giovanile e i disoccupati non hanno un CUD da compilare: perché tenerli fuori dal circuito? D’altra parte, si sa, gli anziani sono anziani. La modulistica li rimbambisce, se già non sono rimbambiti. E poi, a una certa età, la vista è ballerina. Chi può essere sicuro, infine, che gli spot televisivi abbiano martellato a dovere? Ci vorrebbe un’idea, avrà pensato il solito creativo in tonaca, e gli è venuta: un concorso a premi.
“Bastano cinque mosse. Chiedi al tuo parroco di iscrivere la tua parrocchia al concorso ifeelCUD. È molto semplice, ed è ovviamente gratuito. Chiama i tuoi amici e crea la squadra, può partecipare chiunque abbia un’età compresa tra i 18 e i 35 anni. Abilitata la squadra sul sito, si può cominciare a fare sul serio, sta a voi trovare il modo di raccogliere più schede CUD possibile. Usate la simpatia, l’inventiva e il buon senso: chi si impegna di più vince! Portate le schede firmate per l’8xmille al centro Caf Acli più vicino, il concorso finisce il 30 aprile 2011. Più schede avrete consegnato più alte saranno le probabilità per te e la tua squadra di vincere un viaggio insieme a Madrid per la Giornata Mondiale della Gioventù del 2011”. Due piccioni con una sola fava.

Nel dettaglio: “Per dare a tutti le stesse probabilità di vittoria, indipendentemente dalla popolazione della parrocchia, il calcolo del punteggio verrà ottenuto dividendo il numero di modelli CUD validi consegnati al CAF Acli per il numero di abitanti della parrocchia, e moltiplicando per 100. Esempio: una parrocchia di 3.000 abitanti che riesce a raccogliere e consegnare al CAF Acli 180 modelli CUD, guadagnerà 600 punti (180/3.000 = 0,06 x 10.000 = 600 punti). A questo punteggio andranno poi aggiunti gli eventuali bonus ottenuti”.
Già, ci sono pure i bonus. “Realizza un filmato di 3 minuti con un tema a scelta fra la storia della comunità parrocchiale, del paese, del santo patrono. Potrai aumentare il punteggio della tua squadra del 10%. Realizza un filmato sulla canzone «Si può dare di più», che potrà essere in dialetto o perché no, anche un videoclip! Potrai aumentare il punteggio CUD di un ulteriore 10%. Una giuria sceglierà il filmato più interessante ed emozionante. Il video vincitore aumenterà il punteggio della propria parrocchia del 20%”. E così per l’anno prossimo risparmiamo pure sugli spot. Le tv già concedono lo spazio pubblicitario a prezzo di favore, ma così si abbattono anche le spese di produzione.
Ed è questo che merita attenzione: l’eccezionale capacità di spremere quanto più possibile da chi può e da chi non potrebbe.

[grazie a Denis per la segnalazione]

sabato 5 marzo 2011

ecc.


Il prossimo 9 marzo, inizio di Quaresima, Benedetto XVI sarà nella Basilica di Santa Sabina all’Aventino e presiederà il rito dell’imposizione delle ceneri, che dal VI secolo è occasione di pubblico pentimento che la Chiesa offre ai peccatori, ecc.
Con l’iniziativa del Tribunale di Milano, che gli impone un’altra linea, ci siamo persi la scena di Silvio Berlusconi inginocchiato davanti al Papa, Lele Mora a destra, Emilio Fede a sinistra, Nicole Minetti dietro, a offrire il capo, mento sul petto, ecc.
Sul piano mediatico sarebbe stato evento storico, mannaggia quel rinvio a giudizio. I riflettori avrebbero puntato quel pizzico di cenere sul catramino, la commozione avrebbe fatto il resto squagliando il fard, ecc.
Momento topico al Memento mori: una toccatina di palle immortalata dalle telecamere. E lì polemiche, anche aspre, ecc.
Poi finalmente il Fisichella a spiegare: non era gesto scaramantico ma istintiva reazione a una fitta di rimorso, il contesto la legittimava, ecc.


venerdì 4 marzo 2011

Un goccio di morfina e un bacio al crocifisso


L’esame del progetto di legge che dovrebbe “impedire il ripetersi di casi come quelli di Piergiorgio Welby e di Eluana Englaro” – così nelle dichiarazioni dei fautori e dei sostenitori – slitta ad aprile. C’è ancora tempo, insomma, perché i contrari all’autodeterminazione dell’individuo continuino ad interrogarsi e a dividersi, come di fatto è già, tra chi ritiene che la legge sia indispensabile (a fare barricate su ogni caso Welby ed ogni caso Englaro a venire, la magistratura le spazzerebbe via, come ha già fatto) e chi pensa che sia “meglio nessuna legge che questa legge” (una bocciatura della Corte Costituzionale o un’abrogazione referendaria potrebbero spianare la via all’eutanasia, per abbrivio).
Ferma restando la comune convinzione che la vita non appartenga all’individuo, ora discutono sul piano della bassa convenienza se sia meglio collezionare tante piccole sconfitte o rischiarne una sola, ma bella grossa. Ed è spaccatura. Per esempio: Avvenire vuole la legge, Il Foglio dice che è meglio di no. E fin dentro il governo: Roccella sì, Bondi no.
I contrari all’autodeterminazione, ma contrari pure a una legge che la neghi esplicitamente, trovano sponda insperata nei favorevoli all’autodeterminazione che, per diversa premura, pensano che sia “meglio nessuna legge che questa legge”: Stefano Rodotà, Ignazio Marino, Roberto Saviano, ecc. Anche questa, come le altre parti in causa, ha le sue buone ragioni: più nessun giudice a Berlino, con una legge come quella.
Come vedete, tutti mostrano coerenza. I preti vogliono che la vita sia dichiarata indisponibile da una legge che recepisca il magistero morale della Chiesa: coerenti nel premere per avere, nero su bianco, quello che Silvio Berlusconi ha promesso meno di due settimane fa.
I loro compagni di merenda, atei ma devoti, sono mossi da sano senso pratico e un certo naso: si accontentano di rompere il cazzo, ora a un Welby e ora a un’Englaro; e sono anche disposti a rassegnarsi del vederli trovare un giudice a Berlino, prima o poi; ma, a monito e deterrenza, mirano almeno a ribadire che ci sono cose che si possono fare, ma illegalmente, e dunque con discrezione, per non dare il cattivo esempio ai poveri di spirito. Nessuna contraddizione: è l’altra faccia del Catechismo, quella che torna comodo a chi divide gli uomini in pastori e pecore, nella certezza di avere nell’ovile dignità di cane.
Coerenti pure Rodotà, Marino, Saviano, ecc. Se il progetto di legge è accantonato, rimane uno spiraglio. Per quanto stretto sia, meglio che niente.

Tutti hanno ragione, e allora c’è bisogno di qualcuno che si pigli il carico di aver torto, e me lo piglio io. Io ritengo che la cosa migliore sia che la legge passi, che la Corte Costituzionale non la bocci e a un eventuale referendum non si raggiunga il quorum: ritengo che la cosa migliore sia che gli italiani abbiano quello che in fondo meritano. Essendo in favore del testamento biologico al 67,4% e non riuscendo a esprimersi così in Parlamento. Devono continuare a implorare un goccio di morfina in cambio di un bacio al crocifisso. Sennò non imparano.


Suore stuprate da preti


“Vatican confirms report of sexual abuse and rape of nuns by priests in 23 countries” è notizia vecchia di dieci anni, ma ritorna come nuova in queste ore, naturalmente assai strillata. Temo che si tratti di un banale errore e credo di sapere come possa essersi verificato. La scorsa settimana, il 25 febbraio, Richard Dawkins ha ripreso sul suo blog l’articolo di Frances Kennedy per The Indipendent del 21 marzo 2001, ma senza aggiungervi commento e, anche se ha correttamente linkato l’articolo, tutti devono aver pensato che si trattasse di attualità. È errato anche che la notizia sia stata data la scorsa settimana dal National Catholic Report, che invece si limitò solo a riprenderla, a suo tempo, il 6 aprile 2001, insieme alle rivelazioni di una delle vittime.
Tutto il resto è vero, naturalmente: suore stuprate da preti per anni, qualcuna costretta ad abortire, tutte costrette a tacere sotto minaccia, fino allo scoppio del bubbone, con le rivelazioni di una di loro; vero anche che nel 2001 la Congregazione per il Clero ammise i fatti. Ma – appunto – dieci anni fa.

[L’11 gennaio 2004 uscì su il Riformista un mio articolo a commento del messaggio che Giovanni Paolo II aveva inviato ad un simposio internazionale sul tema “Dignità e diritti della persona con handicap mentale” a cura della Congregazione per la Dottrina della Fede, nel quale affermava che anche i soggetti con handicap mentale avessero diritto di amare e di essere amati e “bisogno di tenerezza, di vicinanza, di intimità”. Mi chiedevo come si sarebbe potuto evitare che ci fossero gravidanze e provocatoriamente scrivevo: “Si intende formulare una deroga al divieto di quella contraccezione alla quale la Chiesa si ostina ad essere contraria tranne che per le suore missionarie in terra d’Africa?”. Questo sembrò offensivo ad un lettore che mi scrisse per chiedermi donde avessi tratto informazione. Mi limitai a inviargli il link dell’articolo di Frances Kennedy, accompagnandolo con la testimonianza resami da due suore: mia zia e una sua consorella.] 

E allora sia lecito porgergli una domanda


Ennesima di Mario Adinolfi, stavolta per “il diritto di ogni bambino a avere una madre e un padre”, perché “travestirsi da papà e mamma quando si è Gino e Gabriele” è roba “contro natura”, e il bambino “viene ridotto a puro oggetto”, e poi “ne va della cultura complessiva del contesto sociale”, insomma, meglio l’orfanotrofio che l’adozione da parte di una coppia gay.
Tempo sprecato fargli notare che si tratta di luoghi comuni che numerosi studi multidisciplinari hanno dimostrato falsi, perché da tempo, forse da sempre, Mario Adinolfi apre bocca solo per far rumore e ricordarci che esiste. Stavolta, però, esagera un poco: “Meglio avere persone che ti vogliono bene davvero – scrive – rispetto a quelle che si devono travestire da mamme per farlo”. E allora sia lecito porgergli una domanda: tu obeso e compulsivo, tua sorella depressa e suicida, ma per caso mamma si chiamasse Antonio?

“Per come l’abbiamo scorso in tre secondi l’articolo è bello da leggere”




giovedì 3 marzo 2011

E ti saluto la quadra


“… l’oscuro pm finalmente trova la quadra
e capisce il ruolo di Bisignani…”

Avevo detto “oscuro”, cazzarola, non Woodcock.
 

Sephardic jazz





“Questo non è materialismo”


Nel 1970, grazie a Lampugnani Nigri, editore in Milano, arrivò da noi Fenomenologia e materialismo dialettico di Tran Duc Thao, che in Francia era uscito nel 1951. Anche se fieramente refrattario ad ogni sensibilità filosofica, mio padre comprò il libro e provò a leggerlo. Era stato quello stronzo di Tran Duc Thao, sovente citato in francese da ***, segretario della sezione alla quale era iscritto, a costargli l’espulsione dal Pci, cinque o sei anni prima. Mi sarebbe difficile spiegare, non ho mai afferrato bene le ragioni di quella espulsione, e poi non è quello che conta. Conta che a pag. 63 trovo sottolineato: “Il problema fondamentale della fenomenologia non concerne la determinazione delle condizioni a priori dell’oggetto, ma s’identifica, in realtà, con quel medesimo problema in cui si sono cimentate le religioni e le metafisiche: il problema dell’origine del mondo. […] La riduzione fenomenologica è la via che ci consente di trascendere il mondo per ritornare alla sua origine”; e a fianco trovo scritto a matita: “Questo non è materialismo”. E mi sento suo figlio.


Si tratta di “maltrattamenti in famiglia” (art. 572 c.p.) anche a pestare l’amante


Dinanzi a una sentenza che di fatto equipara l’amante alla moglie, e così stravolge il retto significato di famiglia, introducendo in giurisprudenza un pericoloso assunto di equivalenza tra coniuge e convivente, le gerarchie ecclesiastiche dovrebbero strapparsi le vesti, denunciare il laicismo strisciante della Cassazione, lanciare l’allarme per l’ennesimo attacco sferrato al cuore della società cristiana. Ma mi sa che stavolta faranno finta di niente.


Piazzisti


“Ci sono degli insegnanti che vogliono inculcare
dei principi che sono il contrario di quelli
che i genitori vogliono inculcare ai lori figli”

Se invece di ripetere “inculcare” avesse usato un altro termine (per esempio, “trasmettere”), avremmo avuto la piena antitesi che era nelle intenzioni di Silvio Berlusconi: la famiglia trasmette legittimamente dei principi, la scuola pubblica ne inculca illegittimamente degli altri, che per giunta sono contrari ai primi. Il fatto è che, quando è arrivato a “principi”, dalla platea del II Congresso Nazionale dei Cristiani Riformisti (Roma, 26.2.2011) si è levato l’applauso, e lì, per affrettarsi a chiudere la frase e goderselo, è mancato il controllo lessicale.
Per dar forza al concetto si è affidato alla reiterazione ravvicinata dei termini, che è nell’armamentario retorico dei piazzisti (epifora, isocolon, anadiplosi, epanortosi, ecc.), ed è caduto in infortunio. Come se un venditore di tappeti, dopo aver definito “zerbini” i prodotti della concorrenza, chiudesse dicendo: “I miei zerbini sono incomparabilmente migliori”.

Questo genere di critica alla scuola pubblica non è nuovo, e non nasce fuori da essa: in embrione già sta in quanto la Cisnal Scuola lamentava verso la fine degli anni Cinquanta, prendendo corpo nella polemica sui contenuti dei libri di testo (soprattutto quelli di Storia) che si sollevò da destra sul finire degli anni Settanta.
Silvio Berlusconi pesca con le bombe in acque stagnanti: attacca una scuola pubblica che non c’è più, se mai ce n’è stata una come quella che descrive. Anche qui rivela il suo limite, che poi è anche la sua forza: l’evocazione di luoghi comuni che pretendono di essere promossi ad affermazioni di piano buon senso.
Può funzionare e infatti ha sempre funzionato. Potremmo dire che è stato straordinario in questo: promuovere alla dignità di argomenti molte frasi fatte che trenta e quarant’anni fa trovarono fortuna nell’immaginario democristiano e missino.

Dopo aver intascato tutto l’intascabile, la Chiesa cerca di smarcarsi: “Ci sono tantissimi insegnanti si dedicano al proprio lavoro con grande generosità, impegno e competenza, sia nella scuola statale che non statale”. Si tratta di una coltellata, senza dubbio, ma è segno che perfino il presidente della Cei rigetta il tentativo di farsi sequestrare in quell’immaginario. Adorabile bastardo, il cardinal Bagnasco, senza dubbio. Ma certamente più attento a cogliere nell’aria i luoghi comuni che sono destinati ad aver fortuna domani. Piazzista di più salda tradizione.

martedì 1 marzo 2011

Avvenire, 27.2.2011 - pag. 39


Caro direttore, mi pare che Roberto Saviano, dopo il meritato successo di Gomorra, si sia montato la testa. Si dedica ormai a monologhi oracolari inscenati in contesti ossequienti fino alla piaggeria, parla come se largisse il verbo di verità ad accoliti da istruire alla sequela. Ignora l’obiezione, il contraddittorio, il sospetto di essere nel torto. Non argomenta, sentenzia. E lo fa su tutto lo scibile umano, con quella sfrenata propensione alla tuttologia di chi si è ritagliato il ruolo di guru...

E questo non è bello perché spetta solo ai preti.

[...]



“Nasce facendo tv innovativa su Raitre, poi passa a Raidue, comincia a sentirsi oppresso dall’egemonia di sinistra e s’incanaglisce, gira spot in cui rovista tra la spazzatura, conduce talk-shows sul sesso, fa spettacolo del se stesso panzone. Quello è il vero Ferrara. […] La strada alla Carfagna, in effetti, l’ha spianata lui: prima creatura televisiva a ottenere la responsabilità di un dicastero. Probabilmente, da lì in poi lui stesso ha cominciato a darsi un’importanza che prima non aveva, a studiacchiare un po’ di più. […] O pensate che sia un pensatore, Ferrara? Ha mai poi scritto libri? Lascerà qualcosa di intellettualmente interessante? Secondo me no”

Il ritorno dell’orco (Piste, 28.2.2011)



The Book of Fallacies / 3



Attendevo l’occasione per parlare delle “distinzioni fittizie” nei “sofismi di confusione” (The Book of Fallacies, IV, 6) e oggi ho finalmente modo di evitare la faticosa prosa benthamiana a riguardo, con un esempio pratico: quello qui sopra.
Per predisporre la “protezione” a salvaguardia di qualcosa (per esempio, di una libertà), non è possibile che mi sia necessaria l’“attuazione” di qualcos’altro (per esempio, di una volontà in quel senso)? Io dico che è possibile. Se, infatti, voglio difendere il mio diritto di rifiutare qualcosa (per esempio, di vegetare in coma), dovrò fuor di dubbio attuare qualcos’altro a protezione di questo diritto (per esempio, la nomina di un tutore che rappresenti la mia volontà in tal senso). E allora dov’è la distinzione tra “protezione” e “attuazione”? Se c’è, è fittizia, e presumibilmente serve a confondere, e dunque è da rigettare. Però Jeremy Bentham consiglia di smontare sempre, prima.


E adesso va’ a capire chi ha ragione



“For most women an abortion is safer than carrying a pregnancy and having a baby”, così sulle nuove linee guida del Royal College of Obstetricians and Gynaecologists, ma Il Foglio ha da ridire, perché neanche tre giorni fa il Papa ha detto che “l’aborto distrugge la donna”.

E adesso va’ a capire chi ha ragione. Perché non c’è dubbio che quelle linee guida siano il risultato di lunga ricerca e approfondito studio sotto severo controllo scientifico, ma di parti e di aborti, alla fin fine, i ginecologici potranno mai saperne più del Papa?


[...]




“Se vedemo n’artra vorta!”



Poco più di due anni fa scrivevo: “Sentiremo ancora parlare dei lefebvriani: come avanguardia da riacciuffare rincorrendola o come retroguardia da fuggire lasciandola nello scisma” (in Appendice copio-incollo l’articolo, per giornalettismo.com). Ma subito mi pentivo, perché un vaticanista dei nostri scriveva: “Non ci sono divergenze gravi tra le due parti e il gesto di questi giorni di Ratzinger [la revoca della scomunica ai vescovi lefebvriani] non può che accelerare il tutto” (paolorodari.com, 23.1.2009).
Be’, sbagliavo a pentirmi, perché un vaticanista dei nostri – poco importa che sia lo stesso di prima, perché sono tutti uguali – oggi scrive: “Dopo l’uscita nel 2007 del motu proprio Summorum Pontificum con cui si è permessa la celebrazione secondo il rito antico, e dopo la revoca della scomunica ai quattro vescovi lefebvriani, una nuova primavera sembrava potesse nascere tra le due parti, ma ben poco di quanto auspicato in partenza sembra sia effettivamente nato... La galassia tradizionalista non dorme sonni tranquilli... (Il Foglio, 1.3.2011).
Gesù, Giuseppe, Sant’Anna e Maria! Se invece di limitarti a studiare le cose cattoliche telefonando a questa e a quella tonaca, di tanto in tanto, faccio per dire, avessi studiato un po’ di teologia, saresti stato tanto ottimista allora? E ora saresti così pessimista?

[Diceva bene Padre Pizarro: “Se vedemo n’artra vorta!”.]

*


Appendice


SENTIREMO PARLARE ANCORA DEI LEFEBVRIANI


1. Con un decreto della Congregazione per i Vescovi in data 21.1.2009 arriva la rimozione della scomunica latae sententiae che la stessa Congregazione aveva formalizzato il 30.6.1988 nei confronti di monsignor Marcel Lefebvre e dei quattro vescovi che egli aveva consacrato senza mandato pontificio, ma ciò che maggiormente fa discutere è il fatto che uno d’essi, monsignor Richard Williamson, abbia affermato nel corso di un’intervista rilasciata ad una tv svedese: “I believe that the historical evidence is hugely against 6 million having been deliberately gassed in gas chambers as a deliberate policy of Adolf Hitler. I believe there were no gas chambers”.
Occorre liquidare in fretta questa faccenduola di contorno, perché i problemi relativi alla rimozione della scomunica sono ben più seri e complessi: liquidiamola dicendo che l’estrema destra svedese sta saldando un’intesa politica con frange del cattolicesimo tradizionalista che trovano riferimento proprio in elementi della Fraternità Sacerdotale «San Pio X» (FSSPX) fondata da Lefebvre [1]; che la multisecolare tradizione antigiudaica del cattolicesimo (un antisemitismo non razziale, ma teologico, fondato sul mito di un “vero Israele” cristiano) ha un residuale ma significativo ascendente su molti settori (impropriamente detti) conservatori; e diciamo che le intese politiche esigono reciproche garanzie in forma di affettuose attenzioni. La Santa Sede ha ufficialmente dichiarato che quelle di monsignor Williamson opinioni personali, e questo dovrebbe bastare a chi voglia farselo bastare: gli altri – gli ebrei, in primo luogo – possono consolarsi col fatto che nella Preghiera del Venerdì Santo si continua a pregare affinché escano dalle tenebre dell’errore e si convertano, ma almeno senza più chiamarli “perfidi”.
Possiamo liquidare in fretta anche un’altra questione che è sempre stata menzionata ogni volta che si è parlato dei lefebvriani in questi 21 anni trascorsi da scomunicati, come se fosse l’unica ragione che motivasse la loro disobbedienza: quella sulla liturgia. Affezionati al messale di Pio V, i seguaci della FSSPX hanno già avuto quello che volevano col motu proprio Summorum Pontificum di Benedetto XVI (7.7.2007): “Missae Sacrificium, iuxta editionem typicam Missalis Romani a B. Ioanne XXIII anno 1962 promulgatam et numquam abrogatam, uti formam extraordinariam Liturgiae Ecclesiae, celebrare licet”.
Tutto dovrebbe e potrebbe considerarsi chiuso con quello che oggi viene presentato come “un atto di misericordia del Papa” nei confronti di alcune pecorelle tornate all’ovile, ma le cose non stanno proprio così. E qualche problemino affiora fin dai testi del decreto della Congregazione dei Vescovi e della risposta di monsignor Bernard Fellay, attualmente a capo della FSSPX. Nel primo si legge che “si auspica che questo passo sia seguito dalla sollecita realizzazione della piena comunione con la Chiesa di tutta la Fraternità San Pio X”, che evidentemente al momento non è ancora “piena” (e vedremo che grazioso eufemismo sia questo); da parte sua, monsignor Fellay scrive che i suoi sono “fermamente determinati nella volontà di rimanere cattolici e di mettere tutte le nostre forze al servizio della Chiesa” e “per questo ci fa tanto soffrire l’attuale situazione”, segno che la rimozione della scomunica non rimuove interamente la sofferenza. È questa sofferenza, il punto che rimane in discussione, e che già fa dichiarare alla Congregazione dei Vescovi la necessità “di non risparmiare alcuno sforzo per approfondire nei necessari colloqui con le Autorità della Santa Sede le questioni ancora aperte, così da poter giungere presto a una piena e soddisfacente soluzione del problema posto in origine”.

2. In un’intervista a caldo, subito dopo l’annuncio ufficiale della rimozione della scomunica, monsignor Fellay ha dichiarato: “Accettiamo e facciamo nostri tutti i Concili fino al Concilio Vaticano II, sul quale esprimiamo delle riserve”. Sono le stesse riserve che sollevarono il “problema posto in origine”: ben prima della consacrazione dei quattro vescovi con procedura che poneva gli estremi della disobbedienza scismatica [2], ben oltre le divergenze sulle questioni di natura liturgica, la polemica di monsignor Lefebvre era a monte: il Concilio Vaticano II avrebbe affermato la rinuncia della Chiesa all’affermazione della “regalità sociale di Cristo”.
Per monsignor Lefebve, era Giovanni Paolo II il “non cattolico”, lo “scomunicato”, quello “fuori dalla Chiesa”, il capo della “setta modernista annidata nel Vaticano” (15.6.1988); e allo “pseudo-restauratore” Joseph Ratzinger, allora prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, diceva: “Voi avete cercato di dimostrarmi che Nostro Signore Gesù Cristo non può e non deve regnare nella società, [...] noi [invece] siamo per la cristianizzazione: non possiamo capirci” (14.7.1987).
Spaccatura profondissima, verticale: sull’ermeneutica dei Vangeli, sulla cristologia, sul magistero sociale, sull’ecumenismo e – solo infine – sulla liturgia. I lefebvriani hanno sempre riaffermato la “regalità sociale di Cristo”: con Pio X sostengono che “separare lo Stato dalla Chiesa [...] è una tesi assolutamente falsa, un perniciosissimo errore. Basato in effetti sul principio che lo Stato non deve riconoscere nessun culto religioso, essa è innanzitutto gravissimamente ingiuriosa per Dio; infatti il Creatore dell’uomo è anche il Fondatore delle società umana [...] Noi Gli dobbiamo dunque non solamente un culto privato, ma un culto pubblico e sociale per onorarLo” [3]; e con Pio XII sostengono che “nel corso di questi ultimi secoli si è tentata la disgregazione intellettuale, morale e sociale dell’unità nell’organismo misterioso di Cristo. Si è voluta la natura senza la grazia; la ragione senza la fede; la libertà senza l’autorità; e qualche volta anche l’autorità senza la libertà. Questo nemico è diventato sempre più concreto, con un’audacia che Ci lascia stupefatti: Cristo sì, la Chiesa no. Poi: Dio sì, Cristo no. E infine il grido empio: Dio è morto; o piuttosto Dio non è mai esistito. Ecco il tentativo di edificare la struttura del mondo su fondamenti che Noi non esitiamo a indicare col dito come i principali responsabili della minaccia che pesa sull’umanità: un’economia senza Dio, un diritto senza Dio, una politica senza Dio” [4]. I lefebvriani sono la forma più fulgida e coerente del pensiero teocratico cattolico [5], un pensiero cui la storia ha tolto occasione ma non speranza, e che ritorna col suo irresistibile fascino a provocare dubbi, fino a vere angosce, anche in alto.

3. Scrive Carlo Cremona: “Quando [monsignor Lefebvre] saliva sino alla residenza estiva di Castel Gandolfo verso le ore notturne e si aggirava intorno alle mura della vecchia villa, non in penitenza e nemmeno disposto a trattare, ma per «convertire» il papa che, a suo parere, aveva tradito la Chiesa di Dio, Paolo VI si chiedeva: «Che fare?»” [6].
La tradizione gronda di riferimenti anche relativamente recenti alla pretesa teocratica della Chiesa, che solo il Concilio Vaticano II ha definitivamente dichiarato accantonabile, ma la resipiscenza affiora e provoca disagio, sicché è in questi termini che deve essere letta la “misericordia” di Benedetto XVI nei confronti della FSSPX: si riconosce alla buonanima di monsignor Lefebvre la fedeltà alla tradizione (che è anche tradizione del pensiero teocratico cattolico); gli si continua a rimproverare il non aver accettato il cambio di prospettiva introdotto dal Vaticano II riguardo al ruolo della Chiesa in un mondo largamente secolarizzato; si riaccolgono come figli diletti i suoi seguaci, fidando sulla possibilità di convincerli che Cristo può essere Re anche senza sfoggiare la corona.
È una possibilità che Joseph Ratzinger non ha mai escluso: “Non vedo alcun futuro per una posizione che si ostina in un rifiuto di principio del Vaticano II. Infatti essa è in se stessa illogica. Punto di partenza di questa tendenza è infatti la più rigida fedeltà all’insegnamento, in particolare di Pio IX e di Pio X e, ancor più a fondo, del Vaticano I e la sua definizione del primato del Papa. Ma perché i Papi sino a Pio XII e non oltre? Forse che l’obbedienza alla Santa Sede è divisibile secondo le annate o secondo la consonanza di un insegnamento alle proprie convinzioni già stabilite? [...] I seguaci di mons. Lefebvre [...] sostengono che, mentre si è intervenuti subito, con la pena severa della sospensione, nei confronti di un benemerito arcivescovo a riposo, si tollera in maniera incomprensibile ogni forma di deviazione dalla parte opposta. [...] Le deviazioni «a sinistra» rappresentano senza dubbio una vasta corrente del pensiero e dell’iniziativa contemporanea nella Chiesa, tuttavia quasi da nessuna parte hanno trovato una forma comune giuridicamente definibile. Al contrario, il movimento dell’arcivescovo Lefebvre è probabilmente molto meno ampio dal punto di vista numerico, tuttavia è dotato di un ordinamento giuridico ben definito, di seminari, di istituzioni religiose, ecc. [...] Dobbiamo impegnarci per la riconciliazione, fin tanto che e per quanto essa è possibile, e usare tutte le opportunità concesseci a questo scopo” [7].
Resta il problemino: convincerli che da Giovanni XXIII in poi il Papa continua ad essere infallibile, anche quando rinuncia a proclamare la “regalità sociale di Cristo”, cioè la legittimità della pretesa che fonda sulla tesi che “separare lo Stato dalla Chiesa [sia] un perniciosissimo errore”. Potrebbe risultare impresa dura.

4. Se abbiamo liquidato la questione liturgica per mettere in primo piano il pensiero teologico-politico lefebvriano, non possiamo dimenticare che lex orandi est lex credendi e che “non si comprende nulla della rivoluzione liturgica [del Concilio Vaticano II] se non la si considera come la prima fase di una rivoluzione di tutta la religione cattolica: del dogma, della morale, del sentimento” [8], che i lefebvriani hanno sempre accusato di essere luterana: un tradimento della fede, un’eresia. Continuando a tener fuori dalla nostra discussione le faccende relative all’uso del latino, all’orientamento del sacerdote, alla posizione dell’altare, ecc., non possiamo fare a meno di considerare che ciascuna questione di apparentemente esclusiva natura liturgica, intesa come formale, è tenuta a rendere conto di una forma che qui è sostanza, e non si limita a rappresentarla, contenerla o simbolizzarla. Tutto rimanda, dunque, al ruolo del clero nella comunità ecclesiale: del prete nella messa, ma anche del magistero pontificio nella società.
Con la rivendicazione da parte protestante di un sacerdozio dei battezzati laici (al pastore è data solo la funzione di capo dell’assemblea), che ai lefebvriani pare sia stato raccolto dalla “riforma” del Vaticano II, si ha una perdita dell’asse gerarchico ecclesiale: questo offende il sacramento sacerdotale e in conseguenza – ma sarebbe meglio dire: insieme – Cristo. La lingua volgare al posto del latino toglie al messale il vero e proprio sangue che la irrora; trasformare l’altare in tavola dà all’eucaristia una funzione memoriale togliendole la cifra di grazia; allo stesso modo – identicamente - il magistero della Chiesa è mortificato se viene sacrificato in quella forma che si limita a rappresentare, contenere o simbolizzare la grazia offerta ai popoli. Insomma: la Chiesa e lo Stato non devono essere separati, e non è difficile immaginare in cosa possa tradursi questa unione.

5. Sarà difficile convincere i lefebvriani che la forma sia validamente riformabile senza intaccare la sostanza della pretesa magisteriale nell’affermazione della “regalità sociale di Cristo”, perché il Concilio Vaticano II l’ha già fatto, ed è sul Concilio che i lefebvriani continuano a “esprimere riserve” anche dopo la rimozione della scomunica. Eppure, quando l’allora cardinale Ratzinger stilava il protocollo d’intesa del 5.5.1988 che sarebbe stato poi rigettato da monsignor Lefebvre, il “problema posto in origine” era proprio il Vaticano II: “La comunità politica e la Chiesa sono indipendenti e autonome l’una dall’altra nel proprio campo” [9], con ciò che implicava sul piano politico.
Ai lefebvriani, probabilmente, non basteranno mai le rassicurazioni di Benedetto XVI, che non possono andar troppo oltre ciò affermava da prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede: “Se per restaurazione si intende un tornare indietro, allora nessuna restaurazione è possibile. Ma se per restaurazione intendiamo la ricerca di un nuovo equilibrio… allora sì… è del resto già in atto. Sì, [per la Chiesa] il problema degli anni sessanta era acquisire [leggi: far propri, appropriarsi] i valori migliori espressi da due secoli di cultura liberale” [10], che per i lefebvriani hanno sempre considerato anticristiana, rifiutando anche la soluzione di una Chiesa “tradizionalista, ma in privato” [11].
Sì, sentiremo ancora parlare dei lefebvriani: come avanguardia da riacciuffare rincorrendola o come retroguardia da fuggire lasciandola nello scisma. Sarà quando sarà completata l’operazione del pontificato di Benedetto XVI: far vomitare ai cosiddetti “progressisti” ciò che avevano frainteso del Vaticano II. Se non muore prima.

[2] Codice di Diritto Canonico, Can. 1382
[3] Pio X, Vehementer (11.2.1906)
[4] Pio XII, Udienza (12.10.1952)
[5] Devo chiarire: non ho scritto “teocrazia cristiana”, che sarebbe stata una sciocchezza, ma “teocrazia cattolica”, facendo riferimento a un modello politico, prim’ancora che una realtà storica (il Papa-Re), e trova forma piena nella Quanta cura (Pio IX, 1864), anche se ha lontani antecedenti, addirittura medievali (Alvaro Pelayo), dunque addirittura antecedenti allo scisma luterano. (Più in qua: in Joseph-Marie De Maistre e Plinio Correa De Oliveira.)
[6] Carlo Cremona, Paolo VI, Rusconi 1991
[7] Vittorio Messori, Rapporto sulla fede, Edizioni San Paolo 1985
[8] Raymond Dulac, Monde et Vie (VI/1969)
[9] Gaudium et spes, 76 (7.12.1965)
[10] Joseph Ratzinger, Jesus (XI/1984)
[11] Giulio Maria Tam, Documentazione sulla Rivoluzione nella Chiesa (II/2001)

[pubblicato col titolo Lefebvre ha vinto o ha perso? (giornalettismo.com, 29.1.2009)]