lunedì 29 settembre 2014

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Il corsivo di Pierluigi Battista sul Corriere della Sera di lunedì 29 settembre (Della Valle faccia solo l’imprenditore) chiude in questo modo: «Robert Musil ha narrato nell’Uomo senza qualità le velleità politiche del magnate dell’industria Arnheim nella costruzione di una maestosa “Azione Parallela”. Finì male: facile profezia». Tre perplessità. La prima è relativa al fatto che Arnheim comincia a frequentare le riunioni in casa Tuzzi, dove si discute dell’organizzazione dell’“Azione Parallela”, solo perché è invaghito di Diotima: quello che cerca di sfruttare l’impresa, di cui peraltro è il promotore, per assecondare le sue velleità politiche è il conte Leinsdorf. La seconda è relativa a quel «finì male»: in realtà Robert Musil morì prima di portare a termine L’uomo senza qualità e al punto in cui lasciò la narrazione degli eventi non c’è traccia di alcun fallimento, né del progetto dell’“Azione Parallela”, né dei disegni personali del conte Lainsdorf. Ma la perplessità più forte è relativa a quel «© RIPRODUZIONE RISERVATA» in calce al corsivo: chi si sognerebbe mai di appropriarsi delle cazzate scritte da Pierluigi Battista?

Da fetenti

Il 78% dei napoletani è dell’idea che Luigi De Magistris farebbe bene a dimettersi, ma l’attenzione va posta al restante 22%, solidale al suo fottersene di una legge dello Stato che invece gli impone di farlo. Tra chi pensa faccia bene dev’esserci chi ha apprezzato le sue parole al funerale di Ciro Esposito, quando deplorando chi sospettava proprio ciò che le indagini avrebbero successivamente accertato, e cioè che il giovane fosse del manipolo di ultras che alla finale di Coppa Italia era arrivato armato di bastoni e di coltelli, intenzionato a provocare disordini, prese le difese della teppaglia e lanciò un’accusa ai responsabili dell’ordine pubblico: «Ciro si è messo tra l’odio e chi voleva solo vedere una partita… Chi non ha garantito l’ordine paghi». Ma in quel 22% ci sarà pure chi ha apprezzato l’elogio funebre in morte di Davide Bifolco: «È inaccettabile che un ragazzo possa morire in questo modo, a 17 anni. Non accetto la teoria colpevolista, fondata sul fatto che il ragazzo fosse napoletano e provenisse da un quartiere difficile. Il sindaco è vicino ai suoi familiari e ai suoi amici». Da fetenti, come non essere solidale al caro Giggino che ha sempre trovato una parola buona per i fetenti? Aspettiamo che al decreto di sospensione dica: «A me ’u Prefette m’adda fa’ sule ’nu bucchine», e sentiremo un’ovazione. 

sabato 27 settembre 2014

La vista da lì


Lo schema riprodotto qui sopra è tratto da Elementi per una teoria dei media (1970) di Hans Magnus Enzenberger (insieme ad altri saggi, in: Palaver, Einaudi 1976 – pagg. 79-113), e costringe a un riso amaro: ai tempi in cui internet non c’era, si immaginava che qualcosa come internet avrebbe emancipato le masse. Prima di ogni altra considerazione, però, c’è da chiedersi se questa inferenza sia lecita. È un medium, internet? Mi pare sia impossibile negarlo. Risponde alle caratteristiche descritte nella colonna a destra nello schema? Direi di sì. Bene, ha emancipato le masse? Qui la risposta non può essere altrettanto scontata. In fondo, è solo da vent’anni che internet è alla portata di chi voglia servirsene, dunque potrebbe essere troppo presto per escludere che sia in grado di farlo. Ma si ha qualche indizio che lo stia facendo o che almeno stia preparando il terreno? E poi: emancipare le masse da cosa? Qual è il mancipium dal quale dovrebbe/potrebbe liberarci? C’è da attendersi che possa favorire la democrazia?
A dispetto del fatto che l’avvento di internet sia stato coincidente al progressivo estendersi di quella cui Colin Crouch diede il nome di postdemocrazia, c’è chi ne è convinto, rigettando ogni correlazione d’ordine causale tra i due fenomeni ed anzi suggerendo che il primo sia una reazione al secondo. Può darsi, e tuttavia l’antidoto che internet sarebbe allo svuotamento della forma democratica da ogni sua sostanza, verso derive populistiche, fin qui non ha assunto tratti sostanzialmente analoghi? Dobbiamo credere che la sua azione possa essere efficace per meccanismo di tipo omeopatico? L’emancipazione delle masse è da pensare come vittoria di una demagogia su un’altra? In altri termini: non c’è da sospettare che internet non abbia in sé alcun potenziale liberatorio, ma sia semplicemente un’estensione, una duplicazione, dell’agorà in cui la democrazia – com’è per sua natura – degenera in dispotismo plebiscitario? Se è così, dovremmo rivedere la tesi di Marshall McLuhan per la quale «il medium è il messaggio» o convenire che internet non è niente di nuovo.
A me basta questo per chiudere La vista da qui di Massimo Mantellini (minimum fax, 2014) con la netta convinzione che l’ottimismo che parrebbe voler infondere al lettore – ottimismo temperato da un sano realismo, ovviamente, perché l’autore è persona amabilmente posata – sia lo stesso di Hans Magnus Enzenberger. Per star lì, più di quaranta anni dopo, a consigliarci di aver fiducia nell’irresistibile pulsione che la plebe avrebbe a farsi popolo, è da considerare libro più che coraggioso: direi quasi temerario.    

venerdì 26 settembre 2014

mercoledì 24 settembre 2014

Più tonto che tondo

Ancora una volta il chierico dimostra la sua superiorità sul laico nell’arte di infinocchiare i gonzi, per averne prova basta porgere l’orecchio al coro di lodi che si leva in queste ore per l’arresto di Wesolowski deciso da Bergoglio. Parliamo del tizio che da nunzio nella Repubblica Dominicana commise abusi sessuali su minori, così recita la sentenza di primo grado emessa dal tribunale canonico che qualche mese fa gli comminò il massimo della pena, e cioè – tenetevi forte, ché potrà cogliervi un brivido di orrore – la dimissione dallo stato clericale. Sul reato la Repubblica Dominicana aveva già avviato un procedimento penale, però destinato a rimanere lettera morta per il tempestivo richiamo di Wesolowski a Roma, e questo alla faccia della «cooperazione con le autorità civili» prescritta dalla Lettera circolare della Congregazione per la Dottrina della Fede del 3 maggio 2011 (I, 2, e), uno di quei fluviali documenti ufficiali in cui l’ipocrisia vaticana ama sciacquarsi le palle. Già condannato in primo grado al massimo della pena, dunque, e in attesa del processo d’appello, ma non soggetto ad alcun provvedimento di restrizione della libertà, il Wesolowski, almeno fino a ieri. Nell’impossibilità di inquinare le prove o di procurarsene di false perché era lontano migliaia di chilometri da dove si erano svolti i fatti, nell’impossibilità di reiterare il reato perché di sua spontanea volontà aveva deciso di aspettare il processo di secondo grado standosene buonin buonino in un convento dove al massimo poteva molestare i puttini che incorniciavano labside, nell’impossibilità di sottrarsi con la fuga al peggio del peggio che poteva essere al massimo una conferma della sentenza, che da cittadino della Città del Vaticano non gli avrebbe comportato ulteriore aggravamento della sua condizione, ecco che gli arriva tra capo e collo il provvedimento che un mondo più tonto che tondo strombazza come arresto, e che probabilmente consta del trasferimento da un convento a un altro convento. Evento storico, si strepita, come se tanta severità fosse inaudita, e parliamo del Vaticano, dove la pena di morte è stata formalmente abolita solo nel 2001. Un botto mediatico di grande effetto, senza dubbio, e alla vigilia di un Sinodo che per Bergoglio si annunciava pieno di incognite, comunque assai tosto. Ora potrà affrontarlo molto più serenamente, forte del plauso generale che ammansirà chi minacciava di rovinargli il giocattolo. E tutto questo – onestamente bisogna riconoscerglielo – con un piccolo grande colpo di genio, che per giunta non gli costa nulla. Perché, «in forza del suo ufficio, ha potestà ordinaria suprema, piena, immediata e universale sulla Chiesa, potestà che può sempre esercitare liberamente» (Codice di Diritto Canonico, can. 331), e perché «non si dà appello né ricorso contro la sentenza o il decreto del Romano Pontefice» (ibidem, can. 333, § 3), in culo ad ogni dettato procedurale: è l’esecutivo, il legislativo e il giudiziario, tutto insieme, e nessun Parlamento, nessuna Corte Costituzionale, nessun Tribunale del Riesame può rompergli il cazzo. Ad illustrare al mondo che l’esser figlio di puttana dà i migliori risultati solo quando hai completamente libere le mani. In questo, il laico parte sempre con l’handicap.    

martedì 23 settembre 2014

Due rilievi

Dopodomani torna Servizio Pubblico e l’homepage del suo website offre un’anticipazione della prima puntata della nuova stagione televisiva con un breve estratto da Napoli senza casco, un servizio firmato da Luca Bertazzoni, accompagnato dal seguente sommario: «Napoli piange ancora Davide Bifolco, ma a meno di 20 giorni dalla morte del ragazzo niente sembra essere cambiato al Rione Traiano: mentre non sono ancora chiare le dinamiche dell’accaduto – la versione dei carabinieri e della famiglia non collimano – ragazzi di 13 anni continuano a girare senza casco, patente e assicurazione. “Non abbiamo i soldi per farla. È normale girare senza casco: lo Stato m’adda fa nu bucchin”», riprendendo in virgolettato la colorita espressione di uno degli indigeni.
Due rilievi mi sembrano opportuni. Il primo è relativo allo scarso rispetto per l’ortografia del dialetto napoletano. Infatti, «m’adda fa» («deve farmi») letteralmente sta per «ha da fare a me» («mi ha da fare»), e dunque «fa» vuole l’apostrofo che indica il troncamento della sillaba finale («-re»): la forma corretta è «fa’» o eventualmente quella pur impropria ma largamente invalsa con l’accento («fà»). Di poi, quel «nu» manca dell’apostrofo di aferesi, infatti è articolo indeterminativo (sta per «unu»), dunque la sua forma corretta è «’nu». Per finire, i sostantivi che finiscono con vocale muta la esprimono graficamente con una «e». Insomma, la frase va corretta in questo modo: «lo Stato m’adda fa’ ’nu bucchine» (volendo rendere in dialetto anche «lo Stato»: «’o State m’adda fa’, ecc.»).
Il secondo rilievo, invece, è relativo allo scarso rispetto per lo Stato, che si traduce in una espressione verbale non meno impropria del suo corrispondente nella forma scritta, anche se ovviamente su tutt’altro piano. Qui, tuttavia, non c’è parere unanime sul come andrebbe corretta. C’è, per esempio, chi la correggerebbe portando il giovinastro in caserma per dargli una registratina alla fonetica spaccandogli incisivi, canini e premolari dell’arcata dentaria superiore, ma è scuola d’altri tempi. Prevale ultimamente altro indirizzo: i rappresentanti dello Stato lascino dire, limitandosi ad un contenuto segno di riprovazione, scrollando il capo, ma facendo attenzione a come lo si scrolla, sennò sarà pure biasimo, ma somiglierà di molto proprio a «’nu bucchine».  

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Tragica figura, quella di Gennaro Serra di Cassano, giacobino partenopeo di illustre casata  e tra i protagonisti della sfortunata parentesi repubblicana del 1799 chiusa nel sangue dai lazzari nostalgici del loro re fellone. Diomede Marinelli scrive che prima di poggiare la testa sul ceppo in Piazza Mercato disse: «Ho sempre lottato per il loro bene e ora eccoli a festeggiare la mia morte». Figura tragica, dunque, ma anche ridicola.

TgLa7, 22.9.2014 - h. 20,18



Il TgLa7 dà notizia che Genny ‘a Carogna è stato raggiunto da un provvedimento di custodia cautelare per i fatti che l’hanno visto tra i protagonisti dei torbidi che funestarono la finale di Coppa Italia del 3 maggio.
Non malaccio, il filmato di Flavia Filippi. Riassume i fatti, dà conto degli sviluppi delle indagini e chiude illustrando in sintesi l’idea che il magistrato s’è fatto di quanto accadde a Roma, quel giorno, nei pressi dello Stadio Olimpico: né martiri, né eroi, solo uno scontro tra due bande di delinquenti. Ancorché implicito, v’è cenno a quanto è emerso nelle ultime settimane, e che oggi pare imporre una rilettura assai diversa da quella che si diede a caldo, quando sembrò che si fosse trattato di un agguato ai danni di inermi tifosi in trasferta: un centinaio di ultras del Napoli, armati di bastoni e di coltelli, aggredirono quattro o cinque ultras della Roma, armati di pistola, e ci scappò il morto.
Neanche varrebbe la pena di star qui parlarne, se non fosse per il commento di Enrico Mentana: «Il fatto più sconcertante è che questo interviene cinque mesi dopo i fatti, per effetto di una decisione che riguarda la visione di alcuni filmati che erano già a disposizione il giorno dopo i fatti, con accuse che almeno in parte sono poco affini con le cose che si vedono dagli stessi filmati».
Non è così, d’altronde è lo stesso servizio filmato ad aver dato conto del fatto che proprio grazie alle indagini condotte in questi mesi si stia ora arrivando a un quadro diverso da quello che appariva all’inizio. Ma poi non è Mentana stesso a riconoscere che le accuse ora mosse non sono interamente supportate dalle prove video? Boh, si sarà espresso male, anzi, ammettiamo con umiltà che saremo noi a non aver capito.
Quello che invece è inammissibile: «Bisognerà avere molto presente che si sta giocando col fuoco di ultras di due tifoserie particolarmente calde e che alcune delle accuse sembrano, con tutto il rispetto, scritte da chi dell’ambiente del calcio non ha mai visto nulla». Perché anche qui il lessico non è particolarmente felice, ma non lascia adito a dubbio sul contenuto. Chi ha «scritto» le accuse doveva forse tener conto del fatto che l’ambiente del calcio in qualche modo toglie loro peso o, peggio, le fa diventare pretesto, se non causa, di ulteriori disordini? Meglio pensare che Mentana non fosse in serata.

lunedì 22 settembre 2014

Avranno imparato la lezione, uno pensa

Hanno fatto così anche con Berlusconi, per vent’anni, e non è servito a niente. Avranno imparato la lezione, uno pensa. Macché, anche stavolta pensano che a far perdere consensi a un demagogo possa bastare il riuscire a coglierlo in contraddizione con se stesso, dar prova che non sia uomo di parola, che non mantenga le promesse, che cambi idea con la disinvoltura con cui una puttana passa da cliente a cliente. Così con Renzi: twittava #enricostaisereno e due minuti dopo se lo inculava, diceva che le Europee non fossero un test per il governo e ora fa il gradasso come se quel 40,8% l’avesse preso alle Politiche, prometteva miracoli nei primi cento giorni e ora ne pretende mille, diceva che l’art. 18 fosse un problema posto solo nel dibattito mediatico e ora lo mette al centro del Jobs act…. Come se il paese avesse bisogno di un galantuomo a Palazzo Chigi.
È che questi lodevolissimi spulciatori di bestioni sono sentimentalmente democratici, convinti che alla gente faccia difetto solo la memoria. Magari. È che alla gente fa difetto pure la memoria, ma soprattutto la buona coscienza. Ha bisogno di un millantatore in cui credere, qualcuno che incarni i suoi stessi difetti con l’autocompiacimento di chi li sappia vantarli come pregi, esaltandoli a carattere nazionale. Mente? Lo farà a fin di bene, per mobilitare le forze della speranza. Imbroglia? E chi non lo fa? Ma è possibile che mai nessuno noti nelle movenze, nei toni e nelle smorfie di questi Uomini della Provvidenza le stesse movenze, gli stessi toni e le stesse smorfie di chi applaude loro? Di questa gente sono semplicemente il medium. Fosse bastato rammentare a questa gente la promessa di un milione di posti di lavoro e il meno tasse per tutti, quanto sarebbe durato Berlusconi? Volevano credergli, nessuno avrebbe potuto togliergli la malia del feticcio, se non chi avesse trovato il modo di rubargliela.
Anticipo l’obiezione: possibile che la gente sia tanto in malafede? Non tutta, solo la maggioranza. Ed è una maggioranza che rimane salda attraverso i decenni, forte come l’ignoranza quando è contenta di se stessa, compatta pure quando i flussi elettorali la descrivono liquidissima, senza soluzione di continuità anche quando si divide in due schieramenti: è l’informe e anonimo maggioritario inetto alla libertà e alla responsabilità. Perché un paese come questo dovrebbe salvarsi dal fallimento? Non sarebbe giusto, via.  

domenica 21 settembre 2014

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Uno dei miei tanti limiti è il non riuscire ad arrivare neppure al secondo capoverso degli articoli che trattano di quei grovigli di srl coi quali una razza di individui a me aliena più dei Grigi di Zeta Reticuli riesce a cavar soldi dall’erario pubblico, dagli enti previdenziali o da soci sprovveduti, poco dentro o poco fuori il frastagliatissimo contorno del diritto societario. Con le aziende della famiglia Renzi mi sono armato di pazienza e mi sono inflitto una duegiorni di full immersion, recuperando tutto quello che ho trovato in rete, sfogliando codici e gazzette ufficiali, leggendo sentenze e statuti, arrivando a costruire pure il classico schemino coi rettangolini e le freccette.
Era solo un pretesto, l’ho capito quando ho messo tutto via avvertendo con grave imbarazzo che in me prendevano forma Bouvard e Pécuchet con le facce di Lillo e Travaglio: in realtà non mi interessava affatto capire quanto di illegale possa esserci stato nella gestione di quegli affari, volevo solo metter naso nel milieu, ficcar le mani nel letame dal quale è nato il fiore che oggi l’Italia s’appunta in petto. E devo dire che non sono stato deluso nelle aspettative, perché una cosa è lo studio di un carattere a partire da tratti biografici tutto sommato aspecifici, un’altra è il coniugarli all’esempio che hai avuto in tu’ babbo.
Un babbo che probabilmente uscirà pure pulito dall’inchiesta in corso, ma che senza dubbio mostra tutta la patognomonica del maneggione di provincia. Sembra quasi di vederli, padre e figlio, una ventina d’anni fa, discutere di affari: embrione di una riunione del Consiglio dei Ministri. «La Nazione esce col Rigoletto in allegato, ocché tu ci vedresti a strillonarlo, un gobbo in abiti del Seicento o un Verdi in palandrana?». «Il Verdi costa meno e fa la sua porca figura. Piuttosto c’è il negro che continua a rompere il cazzo per la questione dei contributi, ocché si fa, glieli si paga o all’Inps abbiamo qualche amico?».

sabato 20 settembre 2014

C’è complottismo e complottismo

C’è complottismo e complottismo, la gamma è così ampia che rende pressoché impossibile un loro inquadramento tassonomico, qualunque sia la ratio con la quale si intenda procedere. Se infatti si decide di raggrupparli per le entità cospirative responsabili del complotto (Savi di Sion, Massoneria, Cia, Gruppo Bilderberg, Mafia, Servizi Deviati, P2, ecc.), la classificazione regge solo fino a un certo punto, perché non di rado la teoria cospirativa ne contempla intrecci sinergici. Così se il criterio prende a oggetto la struttura narrativa della teoria, perché in essa, anche se variamente combinati, convergono sempre gli stessi elementi. Né va meglio col cercare di assegnare ad ognuna di queste costruzioni letterarie un differente grado sulla scala che dall’arbitraria concatenazione di presunte coincidenze sale fino alla più malata delle paranoie, perché l’attribuzione avrebbe giocoforza discontinuità di metodo. Sarà seccante per le conseguenze, perché al buon senso non sfugge che una differenza dovrà pur esserci tra la teoria di una Spektre che ci ficca microchip sottopelle e quella che spiega l’avviso di garanzia a Tiziano Renzi come dispettuccio che la magistratura ha voluto fare a suo figlio per vendicarsi del fatto che quello le abbia scorciato le ferie, e che dev’essere pure una differenza bella grossa, ma così stanno le cose: in entrambi i casi, la costruzione regge su un vizio di argomentazione, e non è affatto detto che nel secondo caso sia in gioco un fattore di natura epistemologica, mentre nel primo sia di tipo psichiatrico; in entrambi i casi, la teoria regge sull’impossibilità di essere smentita se non nel rigetto di un sospetto che non può produrre prove, e che tuttavia non può essere rigettato, pena l’esser vittima consenziente del complotto, dunque in qualche modo complice; in entrambi i casi, non c’è modo di escludere che c’entrino pure i Rettiliani. Hai voglia a far presente che l’avviso di garanzia fosse nel più ordinario dei calendari e che a darne notizia sia stato proprio l’indagato: nulla potrà mai far vacillare il complottista dalla certezza che sei mesi fa il babbo del Cazzaro sia stato fatto oggetto delle attenzioni dell’inquirente in previsione che Palazzo Chigi licenziasse il decreto che la magistratura così vuole ammazzare in culla. A sollevare anche soltanto un dubbio, non c’è dubbio, si è giustizialisti. E per quanto un avviso di garanzia sia – appunto – un atto di garanzia in favore dell’indagato, non sospettare ci sia dietro una congiura fa perdere punti alla reputazione di garantista, ammesso che uno ne abbia uno straccio. C’è coincidenza, dunque vi è nesso e, oplà, c’è il fatto. A negarlo, legittimo il sospetto che le toghe rosse vi abbiano ficcato un microchip sottopelle.  

giovedì 18 settembre 2014

Segnalibro

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Quand’anche la Costituzione riconoscesse a un Presidente del Consiglio le prerogative di cui Matteo Renzi è convinto di godere, l’arroganza con cui le vanta sarebbe ugualmente irritante. Fatto sta che la Costituzione formale non gliele riconosce, né il modo in cui è arrivato a Palazzo Chigi lo autorizza a vantarle in virtù di una Costituzione materiale che si vorrebbe attribuisca al leader del partito o della coalizione che ha vinto le elezioni politiche i poteri del Capo dello Stato in una repubblica presidenziale.
Mai candidato al ruolo che ricopre, questo stronzo cagato a forza – non riesco a trovare migliore definizione – non ha avuto altra investitura se non quella del risultato che il suo partito ha conseguito alle elezioni europee, risultato che in più di un’occasione, prima del voto, ha ripetuto non avrebbe avuto la valenza di un test per il suo governo. Governo di cui ha avuto la guida – de plano – perché intanto era diventato segretario del suo partito. Un partito al quale le elezioni politiche avevano dato una maggioranza parlamentare zoppa, capace di strisciare sulla pancia, pur di non tornare alle urne, solo rimangiandosi le promesse fatte in campagna elettorale, prima tra tutte quella di non stringere alcun tipo di alleanza con il centrodestra. È su questo mucchio di letame che il gallo gonfia il petto e fa chicchirichì, pensando che sia lui a far sorgere il sole.
Vuoto parolaio, presuntuoso come solo i veri ignoranti sanno essere, in un paese appena appena più decente potremmo al più vederlo correre da fermo in televendite di tapis roulant su Telefiesole 24. Ma il paese è nella merda ed è in congiunture come queste che il pallone gonfiato viene a galla a offrirsi come salvagente. Ipotiposi della mancanza di alternativa, faccia di cazzo e schizzetto di saliva, è il cadavere di turno che ci tocca aspettare sulla sponda del fiume.

martedì 16 settembre 2014

Quando un’azienda dal marchio prestigioso...


Quando un’azienda dal marchio prestigioso scopre che sul mercato cominciano a girare copie contraffatte dei suoi prodotti, all’inizio solitamente nicchia. È che all’inizio il prodotto contraffatto è quasi sempre imitazione così sciatta da esaltare i pregi di quello originale, che dalla copia trarrà dunque il vantaggio di riaffermare quanto sia inimitabile, dando così ragione del suo prezzo, scoraggiando l’acquisto di un articolo senza dubbio assai meno costoso, ma di qualità sensibilmente inferiore, che in più avrà la pecca di qualificare l’acquirente come uno sprovveduto o, peggio, come la più patetica versione della fashion victim.
Chi copia, tuttavia, impara a farlo sempre meglio e presto per l’azienda dal marchio prestigioso comincia a diventare un problema serio, con gravi danni per gli utili, ma soprattutto per l’immagine. Per quanto l’occhio esperto, infatti, riuscirà sempre a distinguere il prodotto taroccato da quello originale, man mano che il primo sarà sempre più simile al secondo, comincerà ad aumentare il numero di quanti non riusciranno più a cogliere alcuna differenza di qualità tra i due, e si convincerà che quello contraffatto, tutto sommato, sia un affare. È solo allora che l’azienda dal marchio prestigioso comincerà a sentirsi lesa e a farsi forte degli strumenti che ne tutelano i legittimi interessi.
Non siamo ancora a questo punto con la contraffazione di Giuliano Ferrara che Mario Adinolfi smercia in provincia. È come con le prime Louis Vuitton false che cominciarono a girare una trentina d’anni fa: al momento, solo a un occhio estremamente ingenuo possono sfuggire le differenze tra barba e barba, obesità e obesità, vocione e vocione, sicché tra l’eleganza di un fogliante e la cafonaggine di un vogliolamamma corre ancora la stessa differenza che una volta c’era tra i manici di vacchetta naturale e quelli in nappa lisciviata, tra le borchie in ottone e quelle in alluminio indorato. È differenza che al momento si coglie al primo colpo d’occhio, ma fossi in Ferrara comincerei a preoccuparmi.
Sia chiaro, l’antiabortista d’una certa classe continuerà a scegliere un Ferrara originale, che peraltro col tempo acquista quei segni di usura che impreziosiscono l’oggetto, ma si sa come va il mondo, e per una donna di classe che non rinuncerà mai a una Louis Vuitton certificata ci sarà sempre una dozzina di sciacquette che s’illuderanno di fare bella figura spendendo solo trenta euro dal primo vucumprà.  

Primo impatto col sistema d’istruzione pubblica




lunedì 15 settembre 2014

Inventing the Individual

Non si può che esser grati a chi recensisca un saggio illustrandone la tesi in modo chiaro, riportandone in virgolettato i passi salienti, meglio ancora se la recensione sia integrata da un’intervista all’autore del volume a ulteriore puntualizzazione di quanto potrebbe sollevare qualche perplessità, e il tutto venga presentato al lettore senza alcun rilievo critico, anzi, con un tocco di affettuosa benevolenza, perché se la tesi è cretina, e cretini gli argomenti che dovrebbero sostenerla, ci si risparmia l’acquisto del mattone. Grazie a Marco Ventura, dunque, per la sua recensione di Inventing the Individual di Larry Siedentop (La laicità è nata cristianala Lettura, 14.9.2014).
Tesi cretina, quella di Siedentop, ma non originale: «Abbiamo smarrito la genealogia della laicità liberale; soprattutto, perché non ne comprendiamo più il fondamento cristiano». Così, «il principio liberale che il cristianesimo ha inventato è ormai una fede nell’uomo senza fede in Dio». Com’è potuto capitare? Semplice. È che «l’Umanesimo e l’Illuminismo hanno cercato nel mondo greco-romano quella fondazione della laicità liberale che stava invece nel Medioevo cristiano» e questo ha dato vita a «due eresie liberali: da un lato la libera scelta degenera in mercato senza giustizia, in interesse cieco (eresia utilitarista); dall’altro l’individuo si isola, non va oltre i legami familiari e amicali; evaporano lo spirito civico e l’impegno politico (eresia individualista)». E così il liberalismo non è più cristiano, ahinoi.
È evidente che con l’individualismo di John Stuart Mill e l’utilitarismo di Jeremy Bentham siamo già al tramonto del liberalismo, che invece deve aver avuto il suo momento di massimo fulgore con Bernardo di Chiaravalle e Tommaso d’Aquino. È altresì evidente che il liberalismo contro il quale Gregorio XVI scagliava i suoi fulmini non fosse vero liberalismo: «Assurda ed erronea sentenza o piuttosto delirio – diceva – che si debba ammettere e garantire a ciascuno la libertà di coscienza»; e deprecava la «mai abbastanza esecrata ed aborrita libertà della stampa»; e guai a «coloro che vorrebbero vedere separata la Chiesa dal Regno» (Mirari vos, 1832).

Un po’ di chiarezza, dunque. Il liberismo – il vero liberalismo – ripudia la centralità dell’individuo, al posto dell’utile mette il necessario, schifa la separazione tra Stato e Chiesa, è contro la libertà di pensiero e di coscienza, contro la libertà di stampa, contro l’istruzione di massa… Non bastavano gli editorialisti di Avvenire? Avevamo bisogno di Siedentop?

domenica 14 settembre 2014

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Mica dev’essere solo bella, Miss Italia 2014, Simona Ventura dice che deve avere anche personalità. Sarà per questo che a una delle candidate chiede di tirar giù il suo jolly, l’imitazione della scimmia. I giurati sembrano apprezzare, ma la presentatrice sa che la ragazza può dare di più: «E adesso la scimmia in calore». Poi, tra una dozzina d’anni, sarà una pagina di antologia televisiva.

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L’insulsaggine di certi autorevoli editorialisti si diluisce nei tweet di certi poveri sfessati, o forse è il contrario, è l’insulsaggine di certi poveri sfessati che viene distillata da certi autorevoli editorialisti, anche se non è escluso che le due cose facciano sistema in un grande alambicco a serpentina che ricircola la stessa insulsaggine, risciolta nella più tonta delle dabbenaggini dopo essere stata concentrata nei più intensi dei sussieghi, e via di seguito.
Sia come sia, una delle più insulse opinioni così correnti è che la politica italiana dovrebbe pigliar consiglio dai moniti del papa – di questo papa – come se questo papa non si limitasse a frasi fatte, insieme ridondanti della più sciatta retorica e vuote di ogni minima sostanza. Roba che può suonare bene ad ogni orecchio, come in realtà accade, ma totalmente priva del ben che minimo contenuto che possa dirsi, non dico soluzione, ma per lo meno indirizzo.
Non un programma, nemmeno il vago accenno di quella potrebbe essere la linea di un progetto: altisonanti chiacchiere, magniloquenti frasi che sembrano non aver altro scopo che cercare il consenso più ampio, perciò del tutto prive di quanto potrebbe circoscriverlo e mobilitarlo su un’opzione. La guerra è una follia, e chi non è d’accordo? La politica si deve occupare di chi muore di fame, e trovami qualcuno che dica il contrario.
Cose così, sicché se in questo straparlare di niente c’è ingerenza, e c’è, la contesa non è sul primato nella gestione della cosa pubblica, ma sul consenso che alla stessa politica non serve ad altro che ad autolegittimarsi. In questo, Chiesa e Stato sembrano mostrare la stessa impotenza dinanzi ai problemi: la sola forza di cui sembrano dotati è quella in grado di assicurare loro un congrua fidelizzazione di cieche speranze, nutrite esclusivamente di attesa.
Se socialismo e liberalismo sono ormai parole vuote che la politica evita in nome di un pragmatismo che non ha visione, né progetto, tutto speso a rappezzare buchi con toppe che non reggono due mesi, la Dottrina Sociale della Chiesa a oltre un secolo dalla sua nascita si mostra altrettanto inservibile. Doveva essere la terza via, perciò nasceva ambigua, sospesa sulla composizione delle sue contraddizioni interne, ma paradossalmente mostra i suoi limiti proprio dopo l’eclissi del sogno socialista e una delle più acute delle cicliche crisi del capitale: non aveva uno specifico, e non ne era neanche il sincretico.
Politica e religione – o forse è meglio dire: classe politica e gerarchia ecclesiastica – sono ugualmente prive di soluzioni: a entrambe manca la capacità di cavarle fuori dalla dialettica dei conflitti che danno corpo ai problemi, sono costrette ad ignorarli per una vocazione al plebiscitario che non è in grado neppure di inventarsi un neocorporativismo. Perciò invitare Renzi ad ascoltare le parole di Bergoglio è insieme la più crudele delle cattiverie e il più stupido dei consigli. 

giovedì 11 settembre 2014

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Abituati a vederli litigare sempre, è bello vedere che una volta tanto Ferrara e Travaglio siano d’accordo almeno su una cosa, e che il caso voglia lo scrivano in sincrono, lo stesso giorno, con varietà d’accento quasi impercettibile, perché di Berlusconi uno scrive che Renzi sia l’«erede», l’altro il «pupillo», ma sbagliano entrambi. È che il Berlusconi dei bei tempi andati – per opposte ragioni, è ovvio – manca molto a entrambi. Per meglio dire, manca molto ai loro lettori, ed entrambi, da seri mestieranti, dei loro lettori si sforzano d’essere al meglio l’anima e la voce. Probabilmente, poi, sapranno pure non sia affatto vero, o almeno lo intuiranno, ma per oggi i loro aficionados potranno consolarsi d’aver trovato in pagina la suggestione di una continuità come di vertebra che segue a vertebra lungo il groppone della stessa bestia. In fondo sono giornalisti, di più non si può pretendere.
Cazzate, Renzi sta a Berlusconi come la silifide sta alla blenorragia. Le trovi nello stesso posto, analoghe le cause che ne hanno favorito l’insorgenza, su entrambe hanno lo stesso effetto i derivati della penicillina, ma l’agente patogeno è diverso, e diverso è il meccanismo l’azione, diverse le possibili complicanze sul medio e sul lungo periodo, diversi gli esiti. E la sifilide è senza dubbio peggio. 

Pietrangelo Buttafuoco, Buttanissima Sicilia, Bompiani 2014


A dispetto del titolo, questa non è una recensione. Il libro di Pietrangelo Buttafuoco mi offre solo l’occasione per vergare a matita, a margine del brano riprodotto qui sopra (si tratta di ciò che scrisse Basilio Puoti nel 1838), «difficilissimo, ma possibile»


mercoledì 10 settembre 2014

E tuttavia ogni tanto un troglodita...

Perché ad affermarlo è persona autorevole, perché è opinione largamente accreditata, perché si è sempre fatto così, perché a fare diversamente c’è da temere gravi conseguenze, perché a consentirlo si aprirebbe la strada a ben peggio… Oppure – tutto in uno – perché non ho argomenti validi. Però dalla mia ho le ragioni del senso comune, che sono persuasive con la forza che rigetta ogni obiezione come diabolica o perversa, e te le sbatto in faccia come leggi di Dio o della Natura, che poi tutto sommato è lo stesso.
Più o meno è questo il profilo retorico del conservatore. Difficile trovarne uno che si attardi troppo fuori dal contorno: quando capita, è di poco, e per poco, perché subito vi rientra. Lì fuori c’è la logica argomentativa, c’è il rischio di rompersi le ossa. Parliamo di fecondazione assistita? E che differenza c’è tra un bambino concepito secondo Natura e uno contro Natura? Che differenza c’è tra il desiderio di avere un figlio, e averlo come Dio comanda, e lo stesso desiderio se frustrato da Dio e soddisfatto come a Dio non piace? Che differenza c’è tra l’essere padre biologico e padre adottivo al netto del comportarsi da padre? Che differenza c’è tra avere un padre e una madre o due genitori dello stesso sesso?
Meglio tenersi lontano da questioni tanto insidiose, si potrebbe correre il rischio di dover ammettere che un bambino è un bambino quale sia il modo in cui è stato concepito, che la riproduzione sessuata è solo un mezzo e non un fine, che non c’è lo straccio di uno studio scientifico serio che segnali differenze nello sviluppo psicologico di un bambino allevato in una famiglia omoparentale rispetto a uno che è cresciuto in una famiglia tradizionale. Sarebbe imbarazzante, meglio andare sul sicuro. La Chiesa, che è istituzione saggia e illuminata, è contraria. La gente non è ancora preparata, sarebbe come toglierle certezze da sotto il culo. Diagnosi preimpianto, ma poi non è che torna Hitler? E l’eterologa non legalizza di fatto le corna? Sillogismi da trogloditi, ma incisivi. E tuttavia ogni tanto un troglodita s’azzarda a metter naso fuori dalla sua comoda caverna di fallacie e ci prova…
«Va garantito – scrive Marco Politi (Il Fatto Quotidiano, 10.9.2014) – il diritto preminente del concepito di sapere sempre “da dove è nato”. Far dipendere questo diritto primario dal “mercato”, cioè dall’andamento della domanda e dell’offerta delle donazioni di gameti (tolto l’anonimato, si dice, diminuiscono i donatori) appare semplicemente impensabile dal punto di vista dei diritti umani». E come lo garantisci, grandissima testa di cazzo, a quel 10-15% di bambini il cui Dna paterno non appartiene a quello che la mamma ha sempre assicurato loro essere il babbo? Fai uno screening di massa e torturi tutte le mamme che abbiano concepito con un altro uomo quei poveri bambini a quali s’è negato questo diritto umano perché rilevino chi sia il vero padre biologico? 

martedì 9 settembre 2014

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Sarà la magistratura a chiarire cosa sia realmente accaduto a Rione Traiano, ma fin d’ora un fatto è certo: quello sul petto del cadavere è un foro d’entrata. Questo smentisce chi ha dichiarato fosse sul posto quando il proiettile è partito dall’arma, affermando che la vittima volgesse le spalle a chi ha sparato. Si tratta del giovane che s’è spontaneamente presentato alle telecamere del Tg2 per dire fosse lui il terzo uomo in sella al motociclo cui i carabinieri avevano intimato l’alt, non il latitante di cui questi erano sulle tracce. È evidente che quanto ha detto non trova riscontro, e questo solleva più d’un dubbio sulla sua versione dei fatti.
Era davvero in sella a quel motociclo, insieme alla vittima e al pregiudicato che di lì a poco sarebbe stato arrestato? Può darsi, ma ha detto anche di essere subito scappato via quando la gazzella dei carabinieri è finalmente riuscita a interrompere la loro fuga, sicché è molto probabile non fosse nelle immediate vicinanze della scena sulla quale andava consumandosi il tragico evento: e allora perché inventarsi di sana pianta un dettaglio tutto sommato irrilevante al fine di addossare l’intenzionalità del gesto al carabiniere che ha sparato, e comunque smentibile in fase peritale?
Domanda che si pone anche nel caso fosse in prossimità del luogo in cui sono accaduti i fatti, anche se non su quel motociclo, sul quale dunque è assai probabile ci fosse davvero il latitante poi resosi irreperibile. Sostituirsi a lui alleggerirebbe di poco la sua posizione nei confronti della giustizia, ma appesantirebbe quella del carabiniere dalla cui arma è partito il colpo: alla intenzionalità di uccidere, che a Rione Traiano già pare essere prova provata, si aggiungerebbe l’errore di persona, che renderebbe due volte colpevole chi ha sparato.
La più inquietante delle possibilità, tuttavia, è la terza, cioè che fosse altrove, e qui sulle ragioni che l’avrebbero spinto a dichiarare il falso s’aprirebbe un ricco ventaglio di ipotesi, ma tutte avrebbero in comune con le altre due l’intento di caricare di infamia una volontarietà dell’omicidio, che peraltro è tutta da dimostrare. Intento che in tutti e tre i casi, però, rivela l’ostilità già più volte dimostrata nei confronti delle forze dell’ordine a Rione Traiano.
Come rappresentanti di quello Stato al quale è fin troppo comodo addebitare più colpe di quante ne abbia, per liberarsi delle proprie? Come il solo e in ogni caso inefficace presidio contro la delinquenza organizzata che su quel territorio esercita un potere pressoché incontrastato? C’è da presumere si tratti di entrambe le cose, di fatto contro la delinquenza che spadroneggia in quel quartiere non s’è mai vista neanche l’ombra dell’indignazione sollevatasi in questi giorni.     

lunedì 8 settembre 2014

«L’istituzione del Dalai Lama ha fatto il suo tempo»

Il principio teocratico ha un tratto comune nei monoteismi: chi detiene il potere è venerabile quanto non altri, ma della sovranità di Dio è soltanto lo strumento. Non così nel buddhismo, che d’altronde è «religione senza Dio», e per il quale, dunque, anche parlare di teocrazia è formalmente improprio: non è l’incarnazione di un Dio, certo, ma il Dalai Lama non è neppure semplicemente massima autorità spirituale e massima autorità politica insieme, perché il suo corpo è il medium attraverso il quale è lo stesso Buddha a rivelarsi. Con tutte le riserve d’obbligo in un raffronto che già in premessa è fortemente asimmetrico, potremmo concludere che la teocrazia ebraica, quella cristiana e quella islamica siano forme di governo che affidano al sovrano il ruolo di ponte tra immanenza e trascendenza, che in quella del buddhismo tibetano, invece, trovano coincidenza nello stesso Essere che migra di corpo in corpo, e di epoca in epoca. Potrà sembrare differenza di poco conto, ma non lo è. Nei monoteismi, infatti, il teocrate è mera variabile del modo in cui Dio dichiara la sua sovranità. Al contrario, quando il buddhismo si dà in forma teocratica – è questo il caso del buddhismo tibetano – il teocrate è insieme Kundun e Kyabgon, presenza e salvezza. La sostanza di questa differenza sta nella portata dell’asse dinastico, che attraverso il Dalai Lama non si limita a trasmettere un rapporto privilegiato con Dio come avviene lungo il succedersi di patriarchi, papi e califfi, ma esprime una continuità dello stesso Bodhisattva, l’Essere che illumina, guida e salva. Differenza che si esalta nel momento in cui la forma teocratica vien meno: mentre nei monoteismi la sovranità di Dio sul mondo è solo costretta a esprimersi in modo più indiretto (privata del potere temporale, l’autorità spirituale continua ad ispirare la norma mondana), nel buddhismo tibetano il mondo viene ad essere privato della stessa fonte di sovranità del trascendente sull’immanente.
È lettura scorretta di cosa implichi l’annunciata rinuncia del 14° Dalai Lama a reincarnarsi nel 15°? Può darsi, infatti anche metterla in questo modo – dire che annuncia l’interruzione della linea dinastica – può darsi sia scorretto. Ma poi può davvero deciderlo? Voglio dire: la dimensione immanente che muove a tale decisione – perché, vedremo, la sua è una decisione che prende le mosse da elementi di natura tutta contingente – può condizionare quella trascendente, che la informa, al punto da modificarne la natura? Anche qui può darsi che a sollevare la questione sia il non essere all’interno di quell’universo religioso e culturale, ma – proprio perciò, dico – Tenzin Gyatso non avrebbe il dovere di spiegare meglio a chi ne è fuori, e contestualmente al suo annuncio, come sia possibile sul piano dottrinario che lo sguardo compassionevole del Buddha si ritragga dal mondo?
Niente di tutto questo. L’intervista rilasciata a Die Welt non dà ragguagli a proposito. «L’istituzione del Dalai Lama ha fatto il suo tempo», dice, con ciò lasciando intendere che, quando Altan Khan la istituì, nel 1578, Sonam Gyatso non aveva alcun potere di dichiararsi 3° Dalai Lama, investendo della carica i suoi due predecessori. «Così finiscono anche quasi cinque secoli di tradizione Dalai Lama», dice, e in questo modo dà da intendere che Gendun Drup (1391-1474) e Gendun Gyatso (1475-1543) non fossero davvero il 1° e 2° Dalai Lama: in pratica, l’istituzione non veniva a riconoscere una realtà di fatto, ma di fatto la creava, alla faccia del primato del trascendente sull’immanente. Tutto normale per chi pensa che anche il buddhismo, al pari di ogni religione, sia una sovrastruttura, ma qui a dirlo è chi, fin quando è stato sovrano in Tibet e poi sovrano dei tibetani in esilio, vestiva la prerogativa come 14° reincarnazione del Cenresig Wangchug. E dire, oggi, che «il buddismo tibetano non dipende da un solo individuo» e che tutto sommato di un Dalai Lama i tibetani possono fare a meno, perché «abbiamo una buona organizzazione della quale fanno parte monaci e studiosi altamente qualificati», non è un delegittimare l’istituzione, sottraendogli la sua dichiarata natura trascendente? E da cosa mai gli viene il potere di non reincarnarsi in un successore se la progressione di cui non è che un segmento in lui può trovare solo, giocoforza, l’occasione immanente? Sbagliarono a considerarlo reincarnazione di Thubten Gyatso, 13° Dalai Lama, o il Buddha della Compassione è reale quanto Cappuccetto Rosso?


Postilla
Come sempre, quando la fede è forte, torna spassoso saggiare quanto le ritorna. Qui, a campione, un buddhista coi controglioni (da His Holiness the Dalai Lama di Deborah Hart Strober e Gerard S. Strober, in ital. presso Armenia, 2006 - pag. 203).



domenica 7 settembre 2014

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«Avant de mourir, je vais protester contre cette invention
de la faiblesse et de la vulgarité, et prier mes lecteurs
de s’attacher à déstruire mes observations
et mes raisonnemens plutôt que d’accuser mes maladies»

Lettera a Luigi de Sinner, 24 maggio 1832



Un giorno – siamo ai primi dell’Ottocento – ad Antonio Fortunato Stella, «stampatore in Milano», viene l’idea di dare alle stampe un’edizione dell’opera omnia di Cicerone che abbia apparato critico da renderla imperitura e affida a Niccolò Tommaseo il compito di stendere le note per le Orazioni. Quando gli viene consegnato il lavoro, ha qualche dubbio sulla tesi che serpeggia in esso – Cicerone sarebbe retore scarsuccio e pessimo avvocato – sicché manda il manoscritto a Giacomo Leopardi perché gli esprima un parere, ma senza dirgli chi ne sia l’autore, per discrezione. Leopardi lo legge e scrive a Stella che è robaccia, zeppa di madornali errori che rivelano gravi lacune nella conoscenza del latino. Qui la discrezione di Stella accusa un inspiegabile cedimento: fa leggere la lettera ad alcuni letterati, che si dicono d’accordo con le osservazioni di Leopardi, e allo stesso Tommaseo, che comprensibilmente non la prende affatto bene. Potrà vendicarsi solo molti anni dopo, quando ormai ha acquistato fama e prestigio: i circoli culturali di tutta la penisola fanno propria la sua tesi che il pensiero di Leopardi trovi ragione solo nel fatto che è basso, gobbo e malaticcio. Tesi che a 177 anni dalla morte di Leopardi riaffiora ancora, anche se raffinata in morbide insinuazioni, dalle pagine che ci danno notizia dell’edizione inglese dello Zibaldone o dell’uscita del film di Mario Martone. Il che spiega perché Tommaseo abbia potuto acquistare fama e prestigio: conosceva gli italiani, sapeva che avrebbero afferrato al volo la maldicenza per risparmiarsi la fatica di fare i conti con la vertiginosa profondità di Leopardi.
Non ha importanza chi riprenda, oggi, la maldicenza di Tommaseo: carte che ci arrivano come se non avessero un nome in calce, come il manoscritto che Stella inviò a Leopardi.

Stavolta hanno visto tutti


Si cercano telecamere che possano aver ripreso la scena della morte del diciassettenne del Rione Traiano, a Napoli. C’è da scommettere che non se ne troveranno. Tutte fuori uso, perché chi spaccia tiene alla privacy. Non si capisce, d’altra parte, perché si abbia bisogno di accertare i fatti con una prova video. Pare, infatti, che sul posto ci fossero testimoni oculari a dozzine. Alle tre di notte tutto il quartiere era lì, e tutti dicono di aver visto tutto, e lo dicono con straordinaria concordanza di sostantivi, aggettivi e verbi: non c’è dubbio, tutto è chiaro, la colpa è dei carabinieri.
Il caso è chiuso, via, e per stavolta tacciano quanti insinuano che i napoletani siano conniventi e complici della camorra perché non c’è mai uno che abbia visto niente, quando il morto è ammazzato in una via affollata e a mezzogiorno: stavolta hanno visto tutti, le indagini sono superflue, il processo è una formalità. Mettiamo il carabiniere che ha sparato a «marcire in carcere», come chiede la mamma del povero ragazzo, piangiamone l’ingrata sorte e leviamo alto lo sdegno per l’istinto assassino dell’Arma, che come vede tre tizi, di cui uno pregiudicato, in sella allo stesso motorino, privo di patentino ed assicurazione, e intima l’alt, e quelli non si fermano, spara, mirando con micidiale precisione agli organi vitali.
Uniamoci solidali ai parenti e agli amici della vittima, «bambino innocente», e almeno col pensiero, se distanti, bruciamo una gazzella dei carabinieri.

sabato 6 settembre 2014

venerdì 5 settembre 2014

Introduzione alla paleocoprologia

Una branca della paleontologia alla quale dobbiamo molto di ciò che oggi sappiamo su animali ormai estinti da decine di milioni di anni è quella che studia i loro coproliti, e cioè i fossili delle loro feci, straordinariamente ricchi di nozioni relative ai loro stili di vita: in primo luogo, come è ovvio, alle loro abitudini alimentari, e quindi, come è facilmente intuibile, all’ambiente in cui vivevano. Qui proveremo ad applicare il principio che dà dignità di disciplina a questa specializzazione, e cioè che l’attento studio di uno stronzone consenta di trarre preziose informazioni sulla bestia che l’ha cagato, studiando attentamente ciò che Francesco Agnoli scrive su Il Foglio di giovedì 4 settembre, nel tentativo di comprendere qualcosa in più di quel cattolicesimo che ormai da tempo sembra avviato all’estinzione.
Cominceremo col dire che il pezzo in questione, come tutti i fossili, ha una discreta consistenza. Non ha forma regolare, né struttura omogenea (il tema mostra vistose increspature, focali cedimenti, numerose disarticolazioni), e tuttavia è riconoscibile un movimento di torsione interna che in buona evidenza gli è impresso dal titolo (Il jihad dentro di noi) e prende sagoma dal sommario (Il disgusto della vita e la guerra purificatrice, due secolari vizi europei, prima che islamici).
Di cosa si sia cibato l’animale è evidente: «la modernità, respinto Dio, crea di continuo idoli e religioni surrogate», ed è perciò, che, «perso il contatto con ciò che è concreto, ciò che ci sta sotto i piedi, e accanto: la patria, la famiglia, la fede», «tanti giovani sono capaci di abbandonare ogni sogno (un lavoro, una casa, una famiglia)», e che fanno? Si convertono all’islam, corrono dal Califfo e si danno agli sgozzamenti: «gli occidentali, in particolare britannici, che partono per la guerra santa, e sgozzano infedeli in nome dell’islam, non sono anzitutto uomini infervorati dal Corano (che forse neppure conoscono bene), ma persone mosse dallo sdegno morale, la disaffezione, la noia, la ricerca di una nuova identità, il bisogno di un senso, di uno scopo, di una appartenenza».
In pratica, non li mandano al catechismo da bambini, non li spaventano dicendo loro che a farsi le pippe si diventa ciechi, non li cresimano, ed ecco che ti diventano atei, cioè pronti a farsi musulmani, «come dimostra, per esempio, la storia di Sally Jones, la donna inglese che prima di indossare il tradizionale vestito islamico e il velo, e prima di scrivere su Facebook che vorrebbe decapitare cristiani col suo coltello, vestiva minigonne di pelle, cantava rock, si occupava di magia nera e stregoneria, e gestiva, da sola, due figli, accogliendo uomini ad ogni ora».
Pronti a sgozzare, sennò a farsi saltare in aria da «martiri» (qui tra virgolette, com’è ovvio: i veri martiri sono solo cristiani), perché «nell’epoca in cui le emozioni e i desideri sostituiscono ogni valore, anche una morte particolare, originale, può avere il suo fascino».

Sarò riuscito almeno in parte a trasmettervi l’emozione che un paleocoprologo prova quando da un tocco di vile materia riesce a estrarre l’immagine d’un mondo estinto, quasi facendolo rivivere? Se di bocca, spontaneo, v’è uscito un «che cagata!», allora sì.  

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Vero è che tra i significati di jihad vi sia anche quello di guerra santa, ma solo l’ignoranza o la malafede possono sussumerlo in una fattispecie concettuale che includa pure quello che gli storiografi occidentali hanno definito guerra di religione. Vero è d’altronde che i 20.000 o 30.000 uomini dell’Isis si dicono jihadisti, ma solo l’ignoranza o la malafede possono spacciarceli per movimento religioso, seppur armato, come d’altronde è naturale sia per chi dell’islam ha la stessa idea che hanno gli islamisti. In sostanza direi che solo l’ignoranza o la malafede possono concedere a questa banda di terroristi l’onore d’essere l’embrione di un’umma islamica, con ciò andando incontro alle loro aspettative. In altri termini direi che c’è solidità d’interesse tra Abu Bakr al-Baghdadi e Giuliano Ferrara: a entrambi torna comodo far credere che in Medio Oriente si stia giocando una fatale partita tra due mondi, ed entrambi contano di potercene convincere riempendo di robaccia tutta nuova le desuete ma romantiche categorie di orientalismo e di occidentalismo. Non credo che si saranno telefonati per concordare una strategia, ma poi neanche ce n’era bisogno, perché tra avventurieri, seppur di taglio e calibro dissimili, c’è un simpatetico che unisce anche quando i campi sono avversi. Anzi, direi di più: ogni avventura che veste di grandiosità storica i disperati e miserabili interessi di un disadattato alla modernità riverbera specularmente in suo analogo, che necessariamente è opposto. Così, mentre tra Iraq e Siria, al comando di un pugno d’uomini, un poveraccio si sente califfo di oltre un miliardo di musulmani, in Lungotevere Raffaello Sanzio, a capo di una dozzina di redattori, un altro poveraccio si sente comandante in campo dell’occidente cristiano. 

giovedì 4 settembre 2014

Tra gufo e allocco

Probabilmente Matteo Renzi sarà fatto a pezzi con la solita crudeltà che i disillusi riservano a chi li ha illusi, non già per vendicarsi dell’impostura di cui diranno d’esser stati fatti oggetto – quello sarà l’alibi per mettere a tacere la coscienza – ma per saldare i conti con la propria ingenuità o, peggio, con la malata coazione a cercare disperatamente un impostore, implorandolo di illuderli. Povero cazzaro, non è riuscito a reggere il bluff neanche per un anno, e fra quanti l’hanno salutato come Uomo della Provvidenza già comincia a serpeggiare il sospetto che sia buono solo a vender chiacchiere, come non fosse chiaro da subito. A chi non è mai piaciuto – e qui non se n’è mai fatto mistero – non resta che attendere, e pare non si debba neanche attender troppo per cogliere la differenza tra gufo e allocco.  

martedì 2 settembre 2014

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Un falso storiografico che è diventato formula proverbiale, per lo più usata a mo’ di biasimo, è che la caduta di Bisanzio debba essere imputata in qualche misura a quanti, invece di difenderla dall’assedio dell’Ottomano, indugiassero in oziose discussioni sul sesso degli angeli. In realtà, quando la sua capitale fu espugnata dall’esercito di Maometto II, l’Impero Romano d’Oriente era già in pezzi da tempo, non aspettava che uno sputo per crollare, e poi sul sesso degli angeli non si è mai discusso per davvero, né a Bisanzio, né altrove, perché sul fatto che siano esseri incorporei c’è sempre stato accordo pressoché unanime nel mondo cristiano, e fin dal IV secolo. 
Tanto valga per chi fosse tentato dall’usare proprio un’ipotiposi così farlocca per rimproverarmi del fatto che qui perdo tempo a disquisire se internet sia sostantivo maschile o femminile, invece di produrmi in una vibrante difesa del povero Magdi Cristiano Allam o in una fiammeggiante invettiva contro quegli zoticoni dell’Isis. Avrei voluto farlo già da un pezzo, ma temevo che l’argomento fosse troppo frivolo coi tempi che corrono. Stavolta, invece, vado tranquillo, cogliendo l’occasione offertami da un post del Mantellini, anche se lì è in questione se internet voglia la maiuscola o no (pareri contrastanti, mentre «sul fatto che [internet] sia femminile [si dà per pacifico] ci siano pochi dubbi»). Nomi eccellenti tra i commenti: il Mozzi, il Quintarelli, il Tolardo, il Minotti… Insomma, mi son detto, chi potrà mai venirmi a rinfacciare che tratto un tema sul quale dibattono tutti sti Paleologi?
Bene, venendo al dunque, so di aver contro l’autorevole parere dell’Accademia della Crusca, che, «per la determinazione del genere degli anglismi che sono entrati in italiano senza adattamento, si può enunciare la seguente regola: sempre il maschile, a meno che non agisca un sostantivo femminile italiano soggiacente», sicché quest’eccezione varrebbe anche per internet, visto che -net sta per rete. Il problema, a mio modesto avviso, è che quell’inter- rende maschile il sostantivo, perché internet non è semplicemente net, ma il prodotto delle connessioni che vengono a crearsi in essa, per il suo tramite. Pare che a vederla in questo modo sia solo il Devoto-Oli, per il quale internet è sostantivo maschile, mentre per il Treccani, il De Mauro e il Garzanti è femminile…
Ma basta così, ché bussano alla porta e voglio andare a controllare se per caso non sia l’Ottomano. 

Segnalibro

lunedì 1 settembre 2014

«La foto ha qualcosa che non va»

Sono a favore del matrimonio tra persone dello stesso sesso e della possibilità che esse possano adottare dei bambini, dunque trovo irritante il manifesto di Fratelli d’Italia che recita: «Un bambino non è un capriccio. No alle adozioni per i gay. Difendiamo il diritto dei bambini ad avere un papà e una mamma». Irritante per il testo becero, ma soprattutto per la foto che l’accompagna. Si tratta di uno scatto di Oliviero Toscani, che ne lamenta il furto, minacciando di rivalersi per la violazione dei diritti di proprietà, il che è legittimo, ci penseranno i giudici a stabilire se merita d’essere risarcito, e in quale misura. Del tutto insensato, invece, mi pare quanto afferma annunciando la querela: «Quella foto è stata usata nel modo opposto per cui era stata fatta: erano foto redazionali per spiegare le varie possibilità di famiglia per un giornale francese» (lastampa.it, 31.8.2014). Giusto, si tratta di uno degli scatti pubblicati da Elle due anni fa a corredo di un servizio su La famille homoparentale, ma in sostanza cosa intendeva rappresentare, il manifesto di Fratelli d’Italia, se non quelle «possibilità di famiglia» – due gay e due lesbiche, nel caso della foto in questione – che a loro avviso non avrebbero diritto di adottare bambini? Diciamo piuttosto che quella foto si prestava proprio ad essere «usata nel modo opposto per cui era stata fatta», e diciamolo con le parole che un sito di «cultura pop in salsa lesbica» usò due anni fa, senza che Oliviero Toscani trovasse nulla da ridire: «La foto ha qualcosa che non va. Le luci sono molto scure. Hanno qualcosa di tetro, come se non bastasse lo sfondo grigio. Poi gli sguardi dei protagonisti. Mi sembrano tristi. Il ragazzo di sinistra ha l’aria di sfida e accenna un sorriso, mentre gli altri due sembrano rassegnati, fino ad arrivare alla ragazza di destra: sembra una di quelle foto contro la violenza sulle donne, nel senso che lei è una delle vittime. E il bambino, lì nel mezzo, pare crocifisso, conteso da una parte e dall’altra, con l’aria mesta, fa quasi pietà. Il problema è che non capisco se il signor Oliviero Toscani intendesse lanciare un messaggio a favore dei matrimoni gay, oppure no. Perché vista così, questa foto funzionerebbe molto più come spot contro. Voi dareste mai in adozione un bambino a persone che hanno quell’aria così cupa e triste? Beh, io ci penserei su» (lezpop.it, 30.11.2012). Descrizione della foto così puntuale dal sentirmi piacevolmente sollevato dal doverla riprodurre in pagina, sia nella versione pubblicata da Elle, sia in quella approntata da Fratelli d’Italia, tanto non farete fatica a trovarla o l’avrete già vista. Una foto francamente infelice, diciamo. Sarà l’averlo capito con due anni di ritardo che spiega perché a Oliviero Toscani non bastasse rivendicarne la proprietà, ma sentisse il bisogno di ritoccarla. Brutta com’è, impossibile.