sabato 31 maggio 2014

Replica


«Adulatori per lo più de’ tiranni presenti,
sebben lodatori degli antichi repubblicani»
Giacomo Leopardi, Zibaldone



Ricapitolando. Ho scritto che «il Pd riguadagna solo parte degli oltre 3 milioni di voti persi tra il 2008 e il 2013, senza peraltro riuscire a superare i 12 milioni che diedero il 33,2% al partito allora guidato da Walter Veltroni» (I 38 milioni di italiani che non hanno votato PdMalvino, 26.5.2014): continua a sembrarmi indiscutibile. Poi ho scritto che «il 40,8% [ottenuto dal Pd] del 57,2% [che si è recato alle urne il 25 maggio] non supera il 23,3% del totale degli aventi diritto al voto» (Le dimensioni del trionfo di Matteo RenziMalvino, 26.5.2014): anche qui, mi pare sia pacifico. Infine, commentando l’analisi dei flussi elettorali elaborata dall’Istituto Cattaneo («Il successo di Renzi si è costruito sulla tenuta dell’elettorato Pd nei confronti dell’astensione, sulla conquista del bacino di Scelta civica, sul cedimento di elettori M5S e Pdl verso l’astensione. […] È possibile che non pochi elettori ora astensionisti possano rientrare nei ranghi di partenza, sia di Forza Italia che del M5S»), ho scritto che in essa «il risultato conseguito dal Pd di Matteo Renzi alle Europee trova ulteriore ridimensionamento» (La bollaMalvino, 29.5.2014): giudizio che non mi pare affatto scandaloso.
Fatta la tara di insulti e sberleffi, le obiezioni a quanto ho scritto sono le seguenti:
(1) Mi si contesta che il numero dei voti ottenuti dal partito che vinca una competizione elettorale acquistino peso in relazione a quanti ne hanno preso i partiti che l’hanno persa. Non è per fare sfoggio di superbia intellettuale, ma a questo ci arrivavo anche da solo. D’altronde non mi pare di aver scritto che i risultati di queste Europee siano ambigui: il Pd ha vinto, non c’è ombra di dubbio. In verità, direi che la vittoria più significativa sia quella di Matteo Renzi sull’opposizione interna al suo partito. D’altronde non era proprio lui a dire che i risultati di queste Europee non potevano e non dovevano aver conseguenza sulla tenuta del governo? Ora pare che l’abbiamo, e ovviamente in senso positivo, ma in fondo non si trattava di Politiche. Il risultato delle Europee può essere letto come fiducia accordata a questo pagliaccio che, al netto del muoversi tanto da fermo e del promettere il Bengodi con l’anticipo di 80 euro, finora non ha fatto un cazzo? Senza dubbio, ma se mi si viene a dire che in democrazia i numeri sono tutto e Matteo Renzi ne ha presi tanti e tanti in più di Beppe Grillo e di Silvio Berlusconi, rispondo che non si votava per confermargli l’incarico di governo. In quanto al risultato in termini assoluti, mi pare che recuperare buona parte degli elettori persi dal 2008 al 2013 sia un buon risultato, ancor più se enfatizzato dal defluire dell’elettorato grillino e di quello berlusconiano verso l’astensione, ma di fatto, anche stavolta, al Pd non va più del consenso di un italiano su quattro: legittimato alla guida del paese, ma per piacere non parliamo di plebiscito.
(2) Mi si rammenta che gli astenuti non contano. Ringrazio per il ragguaglio all’ovvio, ma non mi pare di aver scritto che contino. Non hanno alcun peso sul risultato elettorale, è naturale, ma esistono. Arrivano al comune convincimento che esprimere una rappresentanza sia inutile, ma con ciò non sono fuori dall’opinione pubblica, tanto meno sono da considerare massa socialmente inerte, e comunque restano potenziali elettori che esprimono con l’astensione un disagio, che talora è da interpretare come un vero e proprio malessere: si tratta di individui che – non ha importanza, qui, stare a discutere quanto a ragione – hanno perso o non hanno mai avuto fiducia nel metodo democratico, non trovano un’opzione convincente nell’offerta dei partiti in lizza o, più banalmente, sono refrattari ad ogni genere di scelta politica. Ci si può consolare col constatare che in ogni regime democratico questo fenomeno è comune, che in Italia non è neanche consistente quanto altrove, che il suo progressivo incremento sia perciò del tutto irrilevante o che comunque non debba essere letto come un sintomo preoccupante: può darsi, resta il fatto che nei paesi in cui l’astensionismo ha percentuali assai più alte che in Italia il dato è stabile da tempo e non trova espressione in quella sfiducia verso le istituzioni che qui da noi va da tempo assumendo i tratti della resistenza passiva che incamera un sordo risentimento. Si può fare a meno di prenderlo in considerazione? Nello scrutinare le schede elettorali e calcolare quanti seggi spettano a questo o quel partito, senza dubbio, sì. Nel discutere su cosa c’è da attendersi sul medio e sul lungo periodo, non mi pare sia superfluo, soprattutto in relazione all’alta fluidità che il corpo elettorale ha mostrato negli ultimi vent’anni. In conclusione: continuare a fissare, come ipnotizzati, quel 40,8% – continuare a ripetersi che è il più rilevante consenso ottenuto da un partito dopo quelli conseguiti dalla Dc a cavallo degli anni Quaranta e Cinquanta, quando alle urne si recava quasi il 90% degli aventi diritto – ritengo sia da stupidi. Del tutto legittimo, peraltro, che Matteo Renzi e il Pd investano su questa stupidità. C’è da ritenere, infatti, che sul breve periodo porterà frutto: il paese è allo stremo, disposto ad aggrapparsi a tutto, soprattutto se con la promessa che può salvarsi con un po’ di ottimismo, affidandosi all’ennesimo deus ex machina. Non ci fossi abituato, la nausea mi impedirebbe perfino di parlarne. Ma ho passato la cinquantina, e di ciarlatani promossi a salvatori della patria, di avventurieri in grado di imbambolare i gonzi col loro scilinguagnolo, di zoticoni senz’altra grazia di dio che una formidabile ambizione e senz’altra virtù che l’intrallazzo maneggione, ne ho visto, e so come la va: all’inizio, nel trambusto dell’ovazione, al moccioso che urla che «il re è nudo» va un ceffone, poi tutti a dire che in effetti era nudo e ce l’aveva pure piccolo.
(3) Mi si storce il muso perché do affidamento all’indagine dell’Istituto Cattaneo, quando è da anni che i sondaggi pisciano alla grande. Qui temo che il muso si storca a torto, perché una cosa sono le analisi del voto fatte prima che gli elettori entrino nel seggio, un’altra quelle fatte dopo. A maggior ragione, quando un risultato oggettivamente rilevante, e all’apparenza ancor più rilevante di quanto sia in realtà, potrebbe indurre gli intervistati a risposte assai più infedeli per il noto effetto bandwagon, che ai piani alti della politica trova analogo nell’osceno assalto al carro del vincitore cui assistiamo in questi giorni.

[segue]

giovedì 29 maggio 2014

La bolla


Il risultato conseguito dal Pd di Matteo Renzi alle Europee trova ulteriore ridimensionamento nell’analisi dei flussi elettorali elaborata dall’Istituto Cattaneo: «Il primo flusso di voti dominante è quello da Scelta civica al Pd. Assistiamo a uno svuotamento dell’area della coalizione che faceva capo a Mario Monti nel 2013, a quasi totale favore del Pd. […] Il secondo flusso altrettanto chiaro ed evidente è quello che conduce voti dal M5S all’astensione. […] Il terzo flusso è quello che porta voti dal Pdl all’astensione. […] Su due ulteriori punti concentriamo la nostra attenzione. Ci chiediamo cioè se non ci siano stati flussi di voto importanti da Pdl a Pd (s’è parlato a lungo dell’appeal dello stile “berlusconiano” di Renzi verso elettori “forzisti”) e dal M5s verso il Pd (anche in questo caso s’è ipotizzato un “ritorno a casa” di elettori già Pd, incantati un anno fa dalla sirena grillina, oggi da Grillo delusi). Questi flussi nei nostri dati quasi non esistono. […] Da dove ha preso i voti il vincitore di queste elezioni? […] La forza del Pd sta nell’aver saputo mantenere i propri consensi precedenti senza perderli sulla strada dell’astensione. La seconda componente per rilevanza del voto al Pd è quella […] proveniente da Scelta civica. C’è poi una terza componente, che […] si presenta come minoritaria, proveniente dal M5S. Il contributo di elettori provenienti dal Pdl è infine del tutto trascurabile. […] Verso chi hanno perso i voti i due sconfitti, e cioè il Pdl e il M5S? […] Per quel che riguarda il M5S, […] pesanti perdite verso l’astensione. […] Quanto al Pdl, le perdite verso il non voto sono state ancor più pesanti. […] Per concludere. Ancora una volta gli attraversamenti del confine sinistra-destra sono stati modesti. Il successo di Renzi si è costruito sulla tenuta dell’elettorato Pd nei confronti dell’astensione, sulla conquista del bacino di Scelta civica, sul cedimento di elettori M5S e Pdl verso l’astensione. […] In una elezione politica, nella quale l’astensione giocasse un ruolo meno importante rispetto a quello naturalmente avuto in una elezione “di secondo ordine”, è possibile che non pochi elettori ora astensionisti possano rientrare nei ranghi di partenza, sia di Forza Italia che del M5S».
È un ridimensionamento di tipo qualitativo, perché riduce a bolla, molto probabilmente effimera, quello che si sta celebrando come «terremoto politico», «evento» dopo il quale «nulla sarà più come prima». «Evento» che, d’altronde, rivela tutta la sua aleatorietà in quel ridimensionamento di tipo quantitativo che fin da subito era già tutto nei numeri, a volerli leggere: al Pd, infatti, stavolta sono andati 11.172.861 voti, meno dei 12.095.306 del 2008, meno degli 11.930.983 del 2006, e meno pure della somma dei voti andati ai Ds e alla Margherita nel 2001 (6.151.154 + 5.391.827) e di quelli che nel 1994 andarono al Pds e al Pp (7.881.646 + 4.287.172). Fatta eccezione per le Politiche del 2013 (8.646.034) e per le Europee del 2009 (7.999.476), insomma, il Pd non ha mai preso meno voti di quanti ne ha presi il 25 maggio 2014.
Un risultato mediocre che  l’astensionismo ha gonfiato a dismisura e che ora solo la rincorsa al carro del vincitore, l’inguaribile conformismo nostrano, impedisce di considerare nelle reali dimensioni.  




martedì 27 maggio 2014

[…]

Ho scritto che maramaldeggiare è lemma infedele, perché, com’è per tanta antonomastica, tradisce il portato («didascalizza la qualità che intende far viva con l’esemplarità del campione, privando questo di ogni profondità psicologica e morale, e quella delle sfumature che la rendono umana») e, nel caso di Fabrizio Maramaldo, anche il portante («pare che la storiella messa in giro da Paolo Giovio non trovi alcuna conferma sul piano storico»), ma, concedendo che «ciò che dalla storia passa alla lingua prescinde da ciò che è impossibile pesare a distanza», non ne ho suggerito uno alternativo per quell’«infierire vilmente sullo sconfitto» – così per la gran parte dei lemmari – che ci sembra turpe anche quando si scagiona col darsi come giusta «punizione di chi ha commesso una turpitudine» (Malvino, 28.11.2013). Se oggi torno sull’argomento è per cercare di individuare i connotati di ciò che nell’«infierire vilmente sullo sconfitto» cerca di darsi come ius per farcelo sembrare iustum, e per farlo mi servirò dell’editoriale che Giuliano Ferrara ha dedicato al deludente risultato elettorale del M5S (Il Foglio, 26.5.2014).
In via preliminare occorre sottolineare che a «infierire vilmente sullo sconfitto», qui, non è chi possa dirsi propriamente vincitore: parliamo, infatti, del tizio che per vent’anni ha retto lo strascico a chi da questa tornata elettorale esce con le ossa rotte almeno quanto Beppe Grillo, quel Silvio Berlusconi che per Giuliano Ferrara ha incarnato, finché ha potuto, tutte le virtù del potere come esercizio di regalità; parliamo, tuttavia, anche del tizio per il quale questo tipo di potere non si estingue nella carne che di volta in volta veste, ma passa, inalterato per forma e misura, dal potente del momento a quello del momento che segue, secondo una progressione dinastica che a ragione sembrerà atipica per la discontinuità del casato, ma che in realtà trova il suo continuum in una linea sulla quale Togliatti, Craxi, Berlusconi e Ratzinger possono ben essere colti come segmenti articolati.
Ma cosa torna a giusta punizione di un Beppe Grillo? Dove trova fondamento lo ius che fa iustum il maramaldeggiarlo? È presto detto: «Se Dio vuole la politica democratica è un mondo di corruzione, di decadenza, di mitezza sfuggente e di pratica della mediocrità che non prevede pulsioni visionarie di quella fatta. Un’alleanza dei fattori di stabilità e di vita avrà ragione, com’è civilmente naturale, dell’odiosa esibizione, e scaltra, di purezza moralizzatrice e di futuro da acchiappare con gli artigli. Così in poco tempo il passato, l’andazzo, la tradizione, il buonsenso…». Può bastarci, abbiamo inteso, e basterà correlare i termini che Giuliano Ferrara erige a pilastri della vita – almeno della vita com’egli la intende – perché sia chiara la colpa di cui Beppe Grillo s’è macchiato, pagandone il prezzo dovuto: ha osato mettere in discussione un passato di corruzione, il naturale andazzo d’una normale decadenza, quella tradizione di mitezza sfuggente e di pratica della mediocrità che in fondo è solo sano buonsenso, quel regale tollerare «il gioioso legno storto di una comune umanità» che alla bisogna può tornarci comodo come randello sul groppone di chi si azzarda a contestare la legittimità del re. Potrebbe dirsi la carezza del cardinale Ruffo alla sua cagna sanfedista.  

lunedì 26 maggio 2014

Le dimensioni del trionfo di Matteo Renzi (e altro)


Riprendo da dove terminava il post qui sotto con un grafico che dà misura di quanto sia realmente consistente il 40,8% del 57,2%: al netto dell’ubriacatura di chi vi troneggia in cima, non supera il 23,3% del totale degli aventi diritto al voto. Da lassù si ha pieno diritto di guardare in basso con soddisfazione, è ovvio, perché chi diserta le urne rinuncia a darsi rappresentanza, ma con ciò la massa degli astenuti non scompare, né perde rappresentazione, che giocoforza è inintelligibile nei tratti, ragionevolmente da ritenere contraddittori: perde forma, ma non mole. In questo caso, ha toccato il 42,8%, che fanno circa 20 punti percentuale in più di quanto è andato al Pd, con una mole pari a circa 21 milioni di aventi diritto al voto, poco meno della somma degli elettori che hanno votato Pd (11.203.231), M5S (5.807.362) e Fi (4.614.364).
Per chi considera l’astensionismo un segno di malessere sociale, può esserci consolazione nel constatare che l’Italia resta, come è sempre stata, tra i paesi europei che conta una delle più alte affluenze al voto, ma è un confortarsi che deve fare i conti col fatto che nel raffronto con le precedenti Europee del 2009, quando gli aventi diritto al voto erano 49 milioni, come lo erano stavolta, la percentuale di astenuti aumenta di oltre 7 punti (3,5 milioni di votanti in meno). E tuttavia il dato merita l’attenzione anche da parte di chi non voglia considerarlo come indicatore di un disagio, ma come il segno di un progressivo adeguamento dell’elettorato italiano alle consuetudini elettorali di paesi in cui da sempre l’astensionismo è ben oltre il 50%: pur concedendolo, la progressione mostra una flessione mal compatibile con un processo fisiologico bilanciato da altri fattori.
È il non tenere conto di questi elementi che gonfia a dismisura il risultato indubbiamente positivo del Pd, oscurando la solare evidenza che in assoluto e in percentuale l’avanzata più rilevante è quella degli astenuti, che non fanno un partito, com’è nel pigro lessico giornalistico di quando il dato non è oscurato, ma mole sì, e mole di umori, se non di ragioni, che s’aprono a ventaglio dal più strafottente dei qualunquismi alla più argomentata sfiducia nel metodo democratico. 
Se è possibile un minimo di accordo su quanto fin qui detto, non dovrebbe essere difficile trovare insieme la via d’uscita dall’asfittico scenario in cui si muovono le analisi a caldo sui risultati di queste Europee. Analisi che tengono conto solo dei cambiamenti, pur notevoli, che in seguito ai risultati conseguiti dai partiti si vanno già chiaramente profilando per dare nuovo assetto al quadro politico e istituzionale. Anche condivisibili, dunque, ma che sembrano non tenere in alcun conto che nella società nessuna massa è interamente inerte, neppure quando sembra abbia deciso d’esserlo irrevocabilmente: se non prende voce attraverso i rappresentanti che una pur ampia e variegata offerta le mette a disposizione, non per questo tace. Anche quando silenziosamente dispera o silenziosamente cova rabbia, lasciando il campo a chi nella speranza e nella pacatezza cerca, e perfino trova, l’ultima spiaggia del comune naufragio – anche quando le dettagliate indagini sui flussi elettorali ce la ridanno come ciò che è andato perso nell’incrocio di traslochi che spostano consenso da una casa all’altra – una massa di oltre 20 milioni di individui, prima o poi, trova modo di farsi sentire. E più tardi lo trova, meno è bello.
Sullo scena nella quale si muovono gli attori scelti dal 57,2% degli italiani che sono andati a votare grava un fantasma che ancora non ha trovato corpo, faccia e nome. Le millanterie meno colpevoli che hanno cercato di esorcizzarlo nel corso della campagna elettorale sono destinate ad avere ancora corso corrente di là dal valore che hanno acquistato o perso a scrutinio completato: intendo dire che mostreranno forza diversa rispetto a prima, ma non potranno che conservare il segno. Matteo Renzi non potrà far altro che sbattere le alucce sotto il bicchiere, dando a vedere un formidabile attivismo che sarà lo stesso correre da fermo che fin qui l’ha fatto sudare. Non è escluso faccia qualche passetto, il necessario per illudere se stesso e la platea che è ennesima reincarnazione di quel decisionismo che gli italiani implorano e deplorano, nello stesso tempo. Beppe Grillo cercava di farci intendere che raffrenava l’irrefrenabile smania di assalto al Palazzo incanalandola in un progetto di società dai sogni dorati e dalle aspettative sobrie: dinamo e accumulatore, nei proclami, ma il messaggio subliminale lo dipingeva come un parafulmine. Non è stato creduto o forse lo è stato fin troppo, ma o torna a casa, come aveva promesso, o non potrà far altro che cambiare scatola al prodotto, sempre lo stesso. In quanto a Silvio Berlusconi, gli ossimori del moderatismo eversivo e del fancazzismo demiurgico gli si sono rotti in mano, non hanno più nulla della contraddizione che muove le cose dal di dentro e fanno solo diagnosi di stato confusionale. E tuttavia conserva forze da mettere sul tavolo.
Non riuscire a vedere come queste tre vie obbligate non siano altro che i tre lati dell’incavo in cui defluirà la frana, più che stupirci, dovrebbe deprimerci. Metti caso che dall’abbatterci dovesse sortire finalmente la presa d’atto che Renzi, Grillo e Berlusconi altro non sono che tratti della stessa caricatura – e in essa potessimo riconoscere la tanto vantata peculiarità italiana – e finalmente liberarcene – vabbe’, come non detto, ci resta sempre lo stramaledire i tedeschi.  


I 38 milioni di italiani che non hanno votato Pd


Alle Politiche del 2013, gli aventi diritto al voto erano circa 47 milioni. L’affluenza alle urne fu del 75,2% (gli astenuti furono poco più di 11 milioni) e il Pd raccolse 8.646.034 voti (25,4%). Prendo in considerazione i dati relativi alla Camera, che sono quelli più congruamente rapportabili all’elettorato che nel 2014 è stato chiamato alle Europee, dove gli aventi diritto al voto erano poco più di 49 milioni e si è registrata un’astensione intorno al 42%. Superfluo sottolineare che ogni correlazione tra le due competizioni risulti pesantemente inficiata, nelle conclusioni che sembrerebbe offrirci, dalle marcate differenze date dalla diversa posta in gioco (lì i seggi di un parlamento nazionale, qui la quota di rappresentanti italiani in un parlamento sovranazionale), dal modo in cui i partiti si sono presentati all’elettorato (lì erano possibili coalizioni, qui ogni partito era in lizza contro tutti gli altri) e dal sistema elettorale vigente (lì il premio di maggioranza del Porcellum, qui un proporzionale con soglia di sbarramento al 4%), ma a quanto pare è proprio l’aleatorietà dei raffronti in termini percentuali che segnerà la vita politica italiana nei prossimi mesi. Se questo è inevitabile, e per molti versi anche giusto tenuto conto dei pessimi risultati ottenuti dal M5S, da FI e dal NCD, quello che corre il rischio di distorcere la realtà dei fatti, sovradimensionando in modo spropositato il peso del Pd, è il sottacere un dato che le percentuali sembrano fatte apposta per oscurare: nel 2014 il Pd riguadagna solo parte degli oltre 3 milioni di voti persi tra il 2008 e il 2013, senza peraltro riuscire a superare i 12 milioni che diedero il 33,2% al partito allora guidato da Walter Veltroni. Solo un occhio miope può lasciarsi ingannare da quel 40% e più che oggi va al Pd di Matteo Renzi, per definirlo il più ampio consenso mai ottenuto dal partito: nei fatti, lo zoccolo duro dei cattocomunisti si è rifatto la zeppa, ma di cartone, e il prezzo è stato pure alto, perché il doversi affidare a un vero e proprio mutante della sua storia e della sua tradizione culturale, perfino della sua – come si dice – antropologia, nel tentativo di riuscire finalmente a vincere, ne ha già minato irrimediabilmente il corpo. È più che ovvio che tutto questo sia destinato ad essere rimosso nei bagordi del trionfo, e oltre. Ma peserà, e il peso diventerà insostenibile quando i 38 milioni di italiani che non hanno votato il Pd di Matteo Renzi si daranno un riassetto.   

domenica 25 maggio 2014

«Giudaica perfidia»


Non ho ancora letto «Giudaica perfidia» di Daniele Menozzi (Il Mulino 2014), provvederò al più presto, e tuttavia, dando per certo che la recensione di Sergio Luzzatto (La radice dell’antisemitismo Domenica de Il Sole-24 Ore, 25.5.2014) dia fedele esposizione di quanto vi è contenuto, non riesco a trattenermi dal sollevare obiezione a quella che pare essere una delle tesi che il lavoro tenta di accreditare.
Prima di passare a esporla, però, vorrei aprire un inciso sull’espressione che ho usato poc’anzi – «fedele esposizione» – e chiedere al mio lettore di cercare ogni possibile locuzione alternativa ad essa. Fatto? Bene, per «fedele» avete trovato altro che «onesto», «leale», «sincero», ecc.? Sono certo che non siete riusciti ad andare oltre tali sinonimi, e che comunque tutti avete cercato tra quelli relativi a «fedeltà», intesa come «correttezza», «attendibilità», «esattezza», ecc., piuttosto che tra quelli relativi a «fede», nelle accezioni che la connotano come virtù teologale del cristiano. È questo, infatti, uno di quei casi in cui si rende manifesta l’erosione di senso che fin dai primi secoli dell’era volgare il cristianesimo ha prodotto a danno di quei termini, per lo più greci o latini, che gli è tornato utile parassitare: con «fedele» il parassitamento non è riuscito a impossessarsi interamente del termine, ed ecco, allora, che l’aggettivo non smette del tutto di rievocare la dea Fides, che fece la sua comparsa nel Pantheon romano più di trecento anni prima che nascesse Cristo, per andare a personificare la sacralità della parola data come fondamento dell’ordine sociale (cfr. Mario Pani e Elisabetta Todisco, Società e istituzioni di Roma antica, Carocci 2005). Bisogna aspettare il IV secolo dell’era volgare perché «fides» cominci a significare «credo» e perché per «fidelis» si cominci a intendere «credente», ma anche allora «fidus» non smetterà di significare «onesto», «leale», «sincero», ecc., come fin lì d’altronde era sempre stato.
Il perché di questo inciso è presto spiegato: Daniele Minozzi sembra far sue le conclusioni degli studi condotti intorno alla metà degli anni Trenta dello scorso secolo da Erik Peterson, «un oscuro professore di teologia» che «muovendo da un’ampia raccolta di testi antichi e medievali» arrivò a sostenere che «l’aggettivo latino perfidus fosse stato erroneamente interpretato, per secoli e secoli, nell’accezione di perfido, mentre avrebbe dovuto essere tradotto nell’accezione di infedele». Tesi che senza dubbio fu fatta propria da Jacques Maritain, il quale senza dubbio riuscì a convincere Pio XII, prima, e Paolo VI, poi, lungo il faticoso itinere che portò a una traduzione del Messale del Venerdì Santo di Pio V nella quale gli ebrei non fossero più dichiarati «perfidi», ma «increduli» (cfr. Andrea Nicolotti, Erik Peterson, Libreria Editrice Vaticana 2012), e che tuttavia è tesi palesemente infondata, come fu ampiamente argomentato da chi scrisse che di «lodevole» in essa vi fosse «solo la buona intenzione» (cfr. Bernhard Blumenkranz, Perfidia, Archivium Latinitatis Medii Aevi 22/2-1952): com’era possibile dare a «perfidi» un significato diverso da quello che papa Gelasio (cfr. Gelasio, Deprecatio, 10), di poco posteriore alla primigenia tradizione scritta dell’«oremus et pro perfidis judaeis», allegava alla «judaica falsitas» nel solco di una tradizione che risaliva alle Omelie contro i giudei di San Giovanni Crisostomo? La perfidia judaeorum è da subito, e sarà sempre, per oltre quindici secoli, non già l’incredulità riguardo al fatto che Cristo sia il figlio di Dio e il Messia, ma il vizio morale che li condanna ad essere inaffidabili e sleali, dunque socialmente pericolosi. 
Ciò detto, dunque, il libro di Daniele Menozzi trova incidente fin dal sottotitolo, che è Uno stereotipo antisemita tra liturgia e storia, e prim’ancora di leggerlo mi costringe a storcere il muso: non è affatto uno stereotipo che la radice dell’antigiudaismo sia cristiana e, se l’intenzione di Erik Peterson può benevolmente essere considerata benevola, resta di fatto che il suo lavoro sia un falso storiografico. Accreditarlo come attendibile è un ulteriore oltraggio alla dea Fides, in favore della «fede» che piega l’evidenza a un interesse di parte. 

It’s itchy



Quella volta che la Magnani posò per il Merisi


Le relazioni tra cinema e pittura sono state oggetto di innumerevoli studi e penso non ci sia troppo da aggiungere. Non a torto, al riguardo, si è scritto che in ogni film di qualità, e non solo, sono immancabili, più o meno riconoscibili, più o meno deliberate, afferenze da capolavori d’arte antica o moderna, talvolta in forma di veri e propri tributi, vere e proprie citazioni, com’è nel caso in cui un dipinto arrivi a trovare nel fotogramma la trasposizione dei suoi peculiari elementi formali, talaltra in forma di mera ricreazione di atmosfera, com’è nel caso in cui le soluzioni dell’uso di luce e colore trovino più o meno riuscita coincidenza con l’aria in cui è sospesa la scena rappresentata sulla tela (cfr. Pascal Bonitzer, Décadrages. Cinéma et peinture, Editions de l’Etoile 1985; Jacques Aumont, L’œil interminable. Cinéma et peinture, Librairie Séguier 1989; Antonio Costa, Il cinema e le arti visive, Einaudi 2002).
Come stato rilevato da numerosi autori, il cinema di Pier Paolo Pasolini non fa eccezione coi frequenti ed espliciti rimandi a Giotto, a Piero della Francesca, a Masaccio, a Bonnard e a Pontormo (cfr. Pietro Montani, in: AA.VV., Cinema/Pittura. Dinamiche di scambio, a cura di Leonardo De Franceschi, Lindau 2003). Lascia interdetti, invece, l’articolo a firma di Marco Bona Castellotti apparso su Il Foglio di venerdì 23 maggio (Quanto si è nutrito di realismo caravaggesco il cinema di Pasolini), nel quale si avanza una tesi balzana: in Mamma Roma (1962) vi sarebbero richiami alla Morte della Vergine (1605).
In realtà, in quel film vi è una citazione del Cristo morto (1485) di Andrea Mantegna,


ma Marco Bona Castellotti non la coglie, per trovare assai caravaggesche «le sbarre del carcere dove Ettore, il figlio dell’umanissima puttana, giace morto». Ignorato un Mantegna che più Mantegna non si può, va a trovare un Caravaggio, pochi fotogrammi più in là, in un dettaglio che dovrebbe aver trovato ispirazione in un analogo caravaggesco, probabilmente in quello che si osserva nella Decollazione di San Giovanni Battista (1608), comunque non citato nell’articolo.


Ora, se la logica non ci vien meno, un morto steso su un tavolo si può ritrarre in cento modi diversi, ma almeno uno potrà evocare il Cristo morto del Mantegna, e quello scelto da Pasolini indubbiamente lo evoca. Ma in quanti modi si può rappresentare una finestra munita di sbarre? E in cosa è caravaggesca quella che Pasolini mette in Mamma Roma?
Basterebbe a farci abbandonare la lettura dell’articolo, se non fosse che Marco Bona Castellotti  aggiunge subito, prima che si abbia il tempo di appallottolare il giornale per gettarlo con gesto plastico nel cestino, che trova somiglianza tra la Madonna ne La morte della Vergine e «lo stupefacente primo piano di Mamma Roma e delle donne che accorrono dopo la notizia della morte del ragazzo».


Davvero arduo capire in cosa sia possibile trovare una similitudine di posa o di espressione, ma è che deve farci difetto limmaginifica sensibilità di  Marco Bona Castellotti, virtù che forse non torna utile a scrivere un articolo serio, ma a deliziare i gonzi senza dubbio.  

martedì 20 maggio 2014

Selfie



Non andrò votare, ma da stasera cercherò di tenermi lontano il più possibile da tv e giornali per resistere alla tentazione di votare Grillo che mi prende ogni volta che Renzi e Berlusconi aprono bocca, tanto più prepotente quando ad aprirla sono i cazzabubboli e le sciacquette che reggono loro la coda. Di Grillo sapete cosa penso, ne ho scritto in più occasioni, e senza risparmiarmi toni duri, e non ho cambiato idea, ma per quanto continui a ritenerlo un pericolo, e non da poco, dargli modo di spazzare via quelle due merde è un pensieraccio che mi ha titillato e mi titilla. Tipo grattarsi a sangue quando nessun antistaminico riesce a vincere il prurito: non si fa, ma resistere è difficile. 
Fermo lì, lettore. Prima di lasciare un commento stronzo, rileggi: ho detto che non andrò a votare. Non c’è bisogno tu mi dica che a votare Grillo mi pentirei un istante dopo, lo so di mio. Sarebbe lo stesso errore che fece quella gran testa di cazzo di Benedetto Croce, quando scrisse che il fascismo era una sgradevole seccatura, ma costituiva un passaggio necessario per la restaurazione dello Stato liberale, ti va bene il paragone? Non andrò a votare: ti ringrazio per l’apprensione, lettore, la prendo come segno d’affetto, ma non è necessaria.
Anzi, visto che a Ottoemezzo c’è la Serracchiani, dammi un istante per recuperare il telecomando e cambiare canale, sennò ’sto selfie viene mosso

#vinconoloro


Solo negli ultimi minuti s’è incartato un poco, per il resto l’incursione di Grillo a Porta a porta è stata estremamente positiva, raggiungendo il fine che si era posto. Ovviamente il tutto va giudicato considerando i parametri del pubblico che Grillo intendeva raggiungere, perché, se valutiamo un rap pensato per la suburra con l’orecchio di un dirigente della Decca, ci sembra orribile. Credo che la performance di ieri sera sia analoga a quella che Berlusconi tenne ad Annozero, che non smosse un solo voto tra chi già era orientato a votarlo comunque o a non votarlo neanche morto, ma gliene procurò parecchi tra quanti fin lì avevano deciso per l’astensione. Grillo è stato capace di raggiungere e convincere un buon uno o due per cento di quei qualunquisti scoglionati che ritengono – neanche a torto, in fondo – che votare conti poco o nulla. Fosse possibile sapere qualcosa dai sondaggi, ora che non possono essere resi pubblici, correrei a leggere se e di quanto, dopo ieri sera, è calata la percentuale degli astenuti e degli indecisi. Avete voglia a dire che è una bestia, la bestia sa il fatto suo.

Beccassi mai un tondino



lunedì 19 maggio 2014

Un frego


Quando l’omeostasi di un sistema è a rischio di rottura, con ciò prefigurando l’implosione della struttura che fin lì gli ha dato forma e modo, dunque senso (e questo vale sia quando la struttura è un organismo, sia quando è un’istituzione), sostanzialmente sono due i meccanismi che vengono approntati per scongiurare il disastro, sostanzialmente simili sia quando l’equilibrio del sistema è minacciato da un fattore interno ad esso, sia quando la minaccia è posta da un fattore esterno: il sistema si contrae, nel tentativo di espellere l’elemento di disturbo, o si dilata, nel tentativo di neutralizzarlo con l’includerne altri che abbiano il potere di bilanciarlo. Se prendiamo a esempio la partitocrazia italiana assediata dal malcontento popolare o le alte gerarchie cattoliche dinanzi all’inarrestabile avanzare della secolarizzazione, i meccanismi mostrano al meglio il loro specifico: in entrambi i casi, la contrazione porta a una difesa che trova efficacia solo sul breve periodo, per poi rivelarsi drammaticamente inefficace, mentre la dilatazione ne promette una più efficace sul lungo periodo, ma ha un prezzo assai più alto e comporta il rischio di minare il sistema, anche se con cariche esplosive a miccia molto lunga e a lentissima combustione. Non c’è soluzione che possa dirsi più valida dell’altra a priori, e in ogni caso entrambe hanno mero effetto dilatorio: ogni sistema prima o poi implode, ogni organismo è destinato a estinguersi, nessuna istituzione è eterna.

In attesa che venisse divulgato il testo integrale della prolusione tenuta da Bergoglio all’assemblea della Cei e che andasse in onda la puntata di Porta a porta che ospita Grillo, mi lasciavo andare a riflessioni tutto sommato oziose, sulle quali è opportuno un frego. Per avermi dato modo di risparmiarmi altre inutili ciance, in cuor mio ringrazio Sandro Magister (Settimo sigillo) e Bianca Berlinguer (Piazza pulita), che del rispettivo dilatarsi e contrarsi del loro rispettivo sistemino mi hanno mostrato il lato buffo, che paralizza ogni tentativo di analisi per un irresistibile conato di rispetto. Il fumo di Satana in Vaticano? Vapore di sauna per alti prelati. Il M5S oltre il 30%? Impossibile.   

Il Pasquino di Caravaggio



Sul farsi prendere la mano dinanzi a un’opera d’arte mi sono già intrattenuto in cinque o sei occasioni su queste pagine, oggi vi ritorno sollecitato da un articolo a firma di Maddalena Spagnolo apparso ieri su Domenica de Il Sole-24 Ore, che fin dal titolo (Il Pasquino di Caravaggio) offre un altro esempio di quel piegare le evidenze a un’interpretazione che poi ci viene offerta come folgorante scoop. Peccato, perché l’articolo, che una nota in coda al testo ci informa essere il sunto di una relazione che l’autrice ha tenuto ad un convegno su Society and Culture in the Baroque Period (Roma, 17-19 marzo 2014), sembrava accogliere sennatamente il «limite» oltre il quale l’analisi si fa «sfida» così spesso destinata a un esito tragicomico. Ma veniamo al dettaglio.
Dopo aver accuratamente ripercorso le vicende relative al frammento scultoreo «dissotterrato a Roma nel tardo Quattrocento e presto denominato Pasquino», per secoli ritenuto «opera d’arte antica di eccelso valore» in virtù della «resa accurata della muscolatura delle due figure», Maddalena Spagnolo ci dice che l’esserci giunto mutilo ha «stuzzicato» intere generazioni di artisti e di critici alle più bislacche ipotesi riguardo a cosa raffigurasse originariamente: sulla base di solidi argomenti oggi è concordemente riconosciuto come ciò che resta di «una scena di pietas militare» (quasi certamente un Menelao che sorregge un Patroclo morente), ma in passato si offrì alle più fantasiose interpretazioni, di quelle affini al «guardare le macchie informi sui muri o le nuvole del cielo immaginandovi immagini nascoste», con ciò segnando la superiorità del «nostro approccio» alle opere d’arte del passato per «il pregio di essere filologicamente più corretto rispetto a quello degli artisti di un tempo…»; e qui scapperebbe un «brava», ma non si fa in tempo, perché la frase chiude a questo modo: «… ma ha il limite di allontanarci dal loro modo fantasioso di guardare alla statua».
E che, sarebbe un «limite», questo? Per Maddalena Spagnolo, in buona evidenza, sì, e non indugia a darcene conferma con la fantasiosa ipotesi che il Caravaggio si sarebbe ispirato al Pasquino per la sua seconda versione del San Matteo e l’angelo che oggi si ammira nella Cappella Contarelli in San Luigi dei Francesi, «qui presentata in versione speculare», ribaltata sull’asse verticale, per meglio venire incontro alla tesi. 


«La postura del santo, con il ginocchio poggiato sullo sgabello, ricorda da vicino quella di Pasquino la cui gamba spezzata all’altezza del ginocchio tocca il piedistallo», e «il capo dell’apostolo che si volge di scatto e si inarca leggermente per dialogare con l’angelo crea un analogo contrapposto con l’arco disegnato dal braccio» dando all’insieme un «analogo tipo di torsione serpentinata», mentre di poi «perfino la mano sul libro […] rievoca la mano che sorregge il corpo di Patroclo nel gruppo scultoreo» e «le scanalature delle costole del petto che emergono dalla scollatura della tunica di San Matteo si apprezzavano un tempo anche dal chitone di Pasquino, come si vede in un disegno di Francisco de Hollanda», prima che fossero cancellate; d’altronde, «Pasquino troneggiava all’angolo di Palazzo Orsini, a poche centinaia di metri dalla chiesa di San Luigi dei Francesi» ed «è possibile che anche Caravaggio, nel momento in cui si trovò a ideare una pala d’altare destinata a rimpiazzare il lavoro di uno scultore, Jacon Cobaert, si sia soffermato a guardare quel “nobilissimo” gruppo», per ispirarvisi: senza riuscire a fare lo stesso scoop di Maddalena Spagnolo, non era lo stesso Roberto Longhi a ravvisare in quel San Matteo «una rinnovata “maniera grande” [e] l’adozione di un “costume aulico” e “quasi una classicità”»?
Siamo dinanzi a molte sconvenienti forzature. Il fatto che un autorevole studioso del Caravaggio abbia intravvisto stilemi classicheggianti in quel San Matteo porta di fatto prove certe alla fantasticheria? E se l’autorevolezza di Roberto Longhi è surrettiziamente richiamata per dare solidità alla tesi esposta, si può poi sminuirla con l’implicito rilievo che non fu in grado di cogliere così evidenti analogie con Pasquino?
Certo, è possibilissimo che Caravaggio abbia avuto modo di soffermarsi a studiare Pasquino e a trovarvi più o meno conscia ispirazione per il suo San Matteo, ma gli elementi formali che lo caratterizzano sono così intelligibilmente riferibili al residuo gruppo scultoreo? Dov’è l’analogia tra la mano del santo poggiata sul libro e quella di Menelao che sorregge il torso di Patroclo? Dov’è l’analogia tra «le scanalature delle costole del petto che emergono dalla scollatura della tunica di San Matteo» e quelle che nessuna incisione raffigurante Pasquino, nemmeno quella di Francisco de Hollanda, può riportare, e per la semplice ragione che Menelao ha un vigoroso pettorale destro e quello sinistro è coperto da un pannato? E quanti dipinti della stessa epoca, caravaggeschi e no, ritraggono figure con «analogo tipo di torsione serpentinata»? Tutte ispirate a Pasquino?
Ai profani il «guardare le macchie informi sui muri o le nuvole del cielo immaginandovi immagini nascoste», agli studiosi d’arte in cerca di visibilità scoperte del genere.

«Votate chi vi pare, ma non i buffoni»


«Votate chi vi pare – ci ha esortato Matteo Renzi – ma non i buffoni». Poteva fare nomi e cognomi, risparmiandoci così la seccatura di dover tirar giù dagli scaffali i dizionari per cercare di capire a chi possa attagliarsi meglio il termine. Pazienza, procediamo.
Direi debba escludersi l’accezione letterale, quella che indica il «buffone» nell’«uomo, per lo più fisicamente deforme, che nell’antichità, ma specialmente nel Medioevo e nel Rinascimento, aveva il compito di rallegrare coi suoi lazzi il principe, di cui era spesso anche il consigliere» (Treccani), definizione che mi richiama alla mente solo Giuliano Ferrara, che però stavolta non si candida.
È evidente che il termine debba intendersi nelle sue accezioni estensive e allora sarà il caso di affidarci al Casalegno-Goffi (Utet, 2005), che è il più vasto lemmario di epiteti ingiuriosi, nomignoli offensivi, insulti, parolacce, ecc. Anche stavolta non ci delude: «buffone» sta per «persona che manca alla parola data». In verità, sta pure per «persona poco seria», «individuo inaffidabile», ecc., ma in fondo la serietà e l’affidabilità non sono qualità che si saggiano sulla capacità di rispettare un impegno preso?
E allora già è più chiara l’esortazione di Matteo Renzi: «Votate chi vi pare, ma non chi manca alla parola data», che però così diventa una micidiale zappata sui piedi: fin qui che cosa ha mantenuto di tutto ciò che ha promesso? Piuttosto che infilare nell’urna una scheda che gli dia fiducia, verrebbe voglia di ficcargli tutte quelle sue slide in culo.  

domenica 18 maggio 2014

Tragico epilogo di una fede ottusa


Quando Gianfranco Ravasi apre a coda di pavone il ventaglio di citazioni dotte che solitamente infarciscono i suoi articoli, viene il sospetto che sia mosso esclusivamente dalla premura di dimostrarci che non tutti i preti sono zotici, il che ci intenerisce pure, ma spesso non basta a farci giungere in fondo al pezzo. Così la scorsa settimana, su Domenica de Il Sole-24 Ore, dove, per recensire una tragedia in tre atti di Ermanno Bencivenga (Abramo – Aragno, 2014) liberamente ispirata all’episodio biblico del sacrificio di Isacco (Gen 22, 1-19), Sua Eminenza ha trovato modo di infilarci Davide Maria Turoldo, Rembrandt van Rijn, Marcel Proust, Benozzo Gozzoli, Linard de Guertechin, Leszek Kolakoski, René Girard, Immanuel Kant, Soren Kierkegaard… Non fosse stato per quel titolo così intrigante (Tragico epilogo di una fede ottusa), giunti a metà del pezzo, avremmo girato pagina. Grazie a quel titolo, invece, siamo andati avanti nella lettura e facendoci largo tra le citazioni, che probabilmente volevano dare autorevole argomentazione all’assunto che «ottuso è bello», abbiamo potuto farci una mezza idea del libro recensito.
Ermanno Bencivenga immagina che le cose vadano diversamente da come ce le racconta la Bibbia, che Abramo esegua l’ordine divino e sgozzi Isacco, per poi avere l’agghiacciante rivelazione, e proprio da chi gli ha comunicato quell’ordine, che non fosse da prendere alla lettera: «La prova era avere abbastanza fede in Dio da saper rifiutare quelle parole perché la tua fede ti insegnava che non potevano venire da Lui, non potevano essere quel che Lui voleva da te».
Costruzione letteraria affascinante, ma che non regge sul piano dell’antropologia veterotestamentaria: Jahvè ha la rozza logica del pastore che dispone a piacimento delle sue pecore, non lascia loro margine a interpretare le proprie volontà diversamente da come sono espresse letteralmente, tanto meno a interpretarle in modo opposto. Jahvè manda un angelo in extremis a fermare la mano di Abramo, ma prima vuole avere la prova che i suoi ordini siano stati recepiti come categorici, per quanto insensati o atroci possa essere apparsi a chi li ha ricevuti: trae forza esclusivamente dalla paura e dalla soggezione, e forse è proprio in ciò che si rivela come più fedele proiezione del portato psicotico che lo ha prodotto.
Per dirla come la dice Paolo nella Lettera ai Romani, Jahvè pretende che in Lui si abbia fede «sperando contro ogni speranza» (Rm 4, 18), annullando nella fede ogni ragione, annullando nell’amore per Lui ogni altro sentimento: Jahvè pretende tutto e, quando chiede «spes contra spem», esige l’estremo sacrificio, l’unica cosa a potergli dar modo di esistere.


venerdì 16 maggio 2014

La metterei così


La metterei così. Direi che quanto la Procura di Messina sembra aver raccolto per contestare a Francantonio Genovese i gravissimi reati che muovono alla richiesta del suo arresto m’infiacchisce un pochino il principio garantista, che s’infiacchisce ancor di più nel leggere la sua biografia politica, ma ritrova subito vigore nel constatare che l’imputato non ha più modo di inquinare le prove, non è più in grado di reiterare quei reati e, se avesse voluto scappare, fin qui avrebbe avuto modo di farlo, e non l’ha fatto. Poi c’è la dura presa d’atto di una realtà che dei principi non sa cosa farsene: ardono i torbidi sociali e c’è bisogno di mettere qualche fetente nel tritacarne, il primo che capiti a tiro, meglio se sa di viscido. E dunque prevarrebbe l’istinto bestiale, ancora più bestiale di quello che pretende il capro espiatorio, che è quello di lasciare che la plebe l’abbia, così si calma, e lasciare passi il tempo, così che alla carne tritata sia concessa la pietà dovuta con l’ammettere che qualcosa, alla fin fine, al paese l’ha pur dato. Poi basta un Manlio Di Stefano e si ritorna in se stessi, ci si pente di così brutti pensieri, e dando una sistematina al nodo della cravatta si va al lavoro indignati di come cazzo tentano di farti diventare, ’sti italiani di merda, a te che dentro sei tutto anglosassone


giovedì 15 maggio 2014

L’analfabetismo religioso in Italia



Sembrerebbe che L’analfabetismo religioso in Italia (Il Mulino, 2014) non dica nulla più di quanto già sapessimo: statisticamente rilevanti, qui da noi, «l’ignoranza totale della Bibbia» e «la produzione di idee fantasiose sulla struttura dottrinale o culturale della fede», e pare vada sempre peggio. A naso direi si tratti di un lavoro appena un po’ serio – e certamente molto più serioso, visto che è a cura di Alberto Melloni – del Babbo Natale, Gesù adulto. In cosa crede chi crede? (Bompiani, 2006) di Maurizio Ferraris, e dico a naso perché ne ho letto solo il brano che Il Sole-24 Ore ci ha offerto sull’ultimo numero di Domenica. Anche qui, tuttavia, parrebbe che gli effetti non trovino le cause: se infatti a Ferraris sembrava quasi non interessassero, perché nel suo lavoro era evidente il fine di offrirci i più mostruosi esempi di tanta somaraggine, per metterli alla berlina, Melloni (almeno nello stralcio offertoci da Il Sole-24Ore, dove comunque sulle cause si intrattiene), a mio modesto avviso, le elude. L’ignoranza relativa ai testi sacri, ai più semplici rudimenti teologici, ai pilastri della dottrina e, non ultima, alla storia della Chiesa – scrive – sarebbe dovuta a un più generale analfabetismo: vero, ma sembra trascurare il fatto che l’analfabetismo religioso è trasversale a tutti i settori sociali, anche a quelli di cultura media, e perfino a quelli di cultura medio-alta. Le altre ipotesi che avanza sono altrettanto deboli: il progressivo esaurirsi della formazione religiosa in ambito scolastico e una più generale «perdita di strumenti che risale nella sua stratificazione all’epoca post-tridentina e [che] più plasticamente è rappresentata dalla soppressione dei primi decenni dello Stato unitario». Tutte cause esogene, come se le difficoltà incontrate dal cattolicesimo nel mantenere un grado di penetrazione, che si vuol dare per scontato in passato fosse ampio e profondo, debbano essere cercate nei fattori che l’hanno sradicato dal vissuto degli italiani. Questo può esser vero, e in buona misura lo è, per quanto attiene alla professione di fede, alla pratica di devozione, all’obbedienza al magistero e alle più esteriori manifestazioni di appartenenza alla comunità ecclesiale: ma Melloni vuol farci credere che ci fu un tempo in cui essere cattolici significava, in termini statisticamente rilevanti, avere un’adeguata confidenza con il Vecchio e il Nuovo Testamento, la storia della Chiesa, la teologia, la dottrina, ecc.? E quando? Neppure nel XIII secolo, via, anzi. Quel poco in più che era nel bagaglio dei fedeli dei secoli passati rispetto a quelli doggi vi arrivava per l’esclusiva mediazione del clero, e in modo tutt’altro che organico. Certo, c’era qualcuno in più a saper dire quante e quali fossero le virtù teologali, le opere di misericordia spirituale e materiale, e senza dubbio c’era qualcuno in più ad aprire di tanto in tanto una Bibbia, ma quanti avrebbero saputo dare una decente definizione del concetto di transustanziazione, dire in che secolo si tenne il Concilio di Nicea, e quanti furono quelli di Costantinopoli, spiegare il significato di termini come concistoro, riassumere quanto sta scritto nel primo e nel secondo Libro dei Maccabei, dire se venne prima Pio III o Sisto V? Via, è tutta roba che non è mai entrata nel patrimonio di conoscenze di oltre l’1% dei fedeli, mentre oggi lo è in quello dello 0,3-0,5%: una «perdita» c’è stata, senza dubbio, ma è percepita come enorme solo perché nessuno più la vive come carenza, neppure chi si dice cattolico. D’altronde, il cattolicesimo non ha mai guardato troppo al pelo nelluovo.

Germogli di una dialettica interna



«Dove andremo a parare»




«Se non cacciamo di sella gl’inetti e gl’intriganti,
non so dove andremo a parare»
Francesco De Sanctis, Lettera a Carlo Lozzi, 13 agosto 1866


Dei ventuno tomi dell’opera omnia di Francesco De Sanctis che la benemerita Einaudi sfornò alla fine degli anni ’60, e che qualche tempo fa ebbi la fortuna di trovare in un negozietto di libri vecchi a un prezzo irrisorio, confesso con orgoglio di non aver neanche sfogliato i primi quattordici, quelli che raccolgono i suoi scritti di critica letteraria. Non mi azzardo a sottovalutarne i meriti in quel campo, sennò mi becco la rampogna di qualche suo pronipote, dico solo che al ginnasio ho avuto la sventura di incocciare in una professoressa di italiano che me lo fece venire a nausea, sicché mi è salutare, oggi, trascurarlo come uomo di lettere, limitandomi a considerarne l’impegno civile e politico. Ed è riguardo a questo aspetto che i rimanenti tomi (scritti e discorsi da parlamentare e da ministro, pagine autobiografiche, epistolario) mi tornano di sovente tra le mani, procurandomi diletto.
Brav’uomo, il De Sanctis, dunque del tutto inidoneo alla politica come mestiere, e tuttavia capace di automedicare le disillusioni e le ferite che avrebbe dovuto riportare dagli anni in cui le si offrì, come dimostra una pagina di Un viaggio elettorale, nella quale al patente fallimento della prima legislatura postunitaria oppone una formidabile speranzuola: i posteri trascureranno i «particolari» e saranno meno severi di quanto i contemporanei non possono e non devono fare a meno di essere. 
Splendida pagina, che fatalmente torna buona per l’odierno marasma. E dunque, grandeggiando d’animo, saggiamoci nella parafrasi: siamo nella merda, ed è giusto esser severi nel giudizio, ma consoliamoci pensando che i nostri nipoti diranno...
No, non funziona. Nonostante masticasse merda anche il De Sanctis, ai suoi tempi c’era ancora margine per chiedersi «dove andremo a parare». Oggi è domanda retorica.