giovedì 23 gennaio 2014

Una premessa


Dire che la democrazia è la «forma di governo in cui il potere è retto dal popolo» (De Mauro) è corretto, ma forse si può dire meglio: è la «forma di governo che si basa sulla sovranità popolare e garantisce a ogni cittadino la partecipazione in piena uguaglianza all’esercizio del potere pubblico» (Treccani). Entrambe, tuttavia, sono definizioni riduttive, perché non danno conto dello strumento col quale la democrazia si realizza, sicché a «dottrina e costituzione politica che assegna la sovranità di uno stato al popolo, il quale la esercita per mezzo dei suoi rappresentanti» (Palazzi), penso sia da preferire la definizione di «forma di governo in cui il potere viene esercitato dal popolo tramite rappresentanti liberamente eletti (democrazia rappresentativa) o senza intermediari (democrazia diretta)» (Devoto-Oli) oppure, con maggior cura al dettaglio, «forma di governo basata sull’uguaglianza e la libertà di tutti i cittadini e in cui la sovranità risiede nel popolo; in particolare, si parla di democrazia diretta, quando, attraverso la convocazione di un’assemblea plenaria, il popolo è consultato per qualsiasi decisione di ordine pubblico, e di democrazia rappresentativa, quando esso elegge delle persone e degli organi che li rappresentano» (Zanichelli).
Pedanteria? Può darsi, ma se vogliamo discutere di sistema elettorale, cioè dello strumento col quale si dà corpo a una democrazia rappresentativa, occorre non perdere di vista il fine, che è quello di trovare il miglior equilibrio, da un lato, tra libertà e uguaglianza, e, dall’altro, tra rappresentatività e governabilità, ed è in tal senso, che va segnalato il rischio di fraintendere un termine come popolo. Se è vero, infatti, che la democrazia deve evitare che il potere stia nelle mani di uno o di pochi, non può tuttavia consegnarlo in quelle di tutti, ma solo in quelle di una maggioranza, il che vuol dire che a tutti deve assicurare una rappresentanza in parlamento, ma non al governo. Potremmo così concludere, in via preliminare, che una democrazia rappresentativa degna di tal nome si realizza quando il popolo dà alla maggioranza la garanzia di governo e alla minoranza – meglio, alle minoranze – la garanzia di controllo e di critica, cioè di opposizione, assicurando la possibilità di una reale alternanza di ruoli. 
Se non si sollevano obiezioni a quanto fin qui detto, possiamo scendere nel concreto, dove dobbiamo prendere atto che non sempre – in Italia, mai – una maggioranza è assoluta, il che pone un problema di non poco conto. Dovendo, infatti, assicurarle la garanzia di governo, occorre in qualche modo evitare che questa le sia sottratta dalla garanzia di opposizione assicurata alle minoranze, la cui somma degli eletti sia numericamente superiore a quella degli eletti per il partito o la coalizione di maggioranza relativa, e soprattutto quando la loro frammentazione renda impossibile l’alternanza. In pratica, occorre che il principio di rappresentatività ceda, in qualche misura, in favore di quello di governabilità, il che mette ineluttabilmente in discussione, e in pari misura, quel proporzionale puro che sembrerebbe il più adatto ad assicurare una effettiva rappresentanza a tutti. Non è il solo paradosso che la democrazia è chiamata a sciogliere, ma qui il nodo è assai intricato, perché, a penalizzare troppo il principio di rappresentatività in favore di quello di governabilità, si rischia una dittatura della maggioranza relativa, mentre al contrario il rischio è quello di una paralisi del potere.
Prima di passare a discutere di sistemi elettorali, dunque, occorre avere ben presente che, in mancanza di una base elettorale che per sua natura sia incline a bipartirsi, e che anzi abbia inclinazione a frammentarsi (poco importa per quale motivo), considerare assolutamente preminente il principio di rappresentatività porta ineluttabilmente allingovernabilità, mentre ritenere assolutamente preminente il principio di governabilità porta ineluttabilmente a limitazioni del diritto di rappresentanza.   
      

lunedì 20 gennaio 2014

«... i radicali hanno convinto Sturzo e Salvemini...»



La cialtronaggine di quest’uomo non ha limiti. Qualche anno fa disse: «Sturzo fa l’esperienza in America e torna antiproporzionalista, uninominalista e presidenzialista». Difficile farlo quadrare con quanto dice oggi: se Sturzo diventa un sostenitore del maggioritario perché «convinto» dai «radicali», delle due una, o i «radicali» sono andati in America a convincerlo o erano già lì, anche se mai nessuno ne ha segnalato la presenza. Scherzo, naturalmente, perché è falso sia quanto affermò qualche anno fa, sia quanto afferma oggi. Come ho abbondantemente argomentato su queste pagine (1, 2, 3), Sturzo torna in Italia nel 1947 e non si dichiara pubblicamente a favore del maggioritario prima del 1953. [Qui basti rammentare che nel 1948 scrive: «Fortuna o sventura, noi europei continentali siamo così divisi per idealità, per interessi e per metodi da non poter ridurre la lotta politica ai due partiti classici dei paesi anglosassoni» (Opera omnia, vol. I), e nel 1954: «Non pochi si meravigliano della mia recente opposizione alla proporzionale» (Opera omina, vol. V), dove quel «recente» taglia la testa al toro]. A fargli cambiare idea non furono affatto i radicali, anche perché il primo Partito Radicale nasce nel dicembre del 1955, e fino a qualche mese prima il termine  «radicale» era sepolto nella storia, spazzato via dal fascismo, per essere ripreso solo dal 1949 in poi, sulle pagine de Il Mondo di Pannunzio, ma mai per far riferimento a un movimento politico, ancorché da costruire, tanto meno in fieri, e questo almeno fino al 1954.
Facciamo uno sforzo, ma uno sforzo bello grosso: ammettiamo che il cialtrone non sia un cialtrone e che si sia solo espresso male, concediamo che volesse dire che a convincere Sturzo ad abbandonare il proporzionale in favore del maggioritario siano stati quegli Amici del Mondo che costituiranno l’embrione del primo Partito Radicale. Regge? Neanche così regge, perché molti di loro rimarranno sostenitori del proporzionale anche dopo aver dato vita al Partito Radicale. Un esempio? Nicolò Carandini, che tra gli Amici del Mondo, prima, e nel Partito Radicale, poi, sarà figura eminente. 



Posizione che, almeno fino allinizio del 1953, e in diversi casi anche oltre, fu analoga a quella di Pannunzio, di Cattani, di Craveri, di Ferrara e molti altri. Questi sarebbero gli argomenti che convinsero Sturzo al maggioritario? 
Si potrà obiettare che tra gli Amici del Mondo cera qualcuno a favore del maggioritario e dell’uninominale: non può essere stato lui a convincere Sturzo? Obiezione respinta: si trattava di Salvemini, ma il cialtrone dice che anche lui arrivò ad essere un fautore del maggioritario e dell’uninominale perché  «convinto» dai «radicali», e qui si fa ancora più fatica a individuarli, visto che Salvemini torna in Italia nel 1949, e da almeno tre o quattro anni è un critico del sistema proporzionale (cfr. Per la riforma elettorale, Alfredo Guida Editore 2000, una raccolta di suoi articoli che coprono tutto larco temporale della sua revisione).
Per finire, lenorme bufala che «i radicali hanno la stessa posizione di lotta e ufficiale per  l’uninominale maggioritario da cinquantanni». Basta consultare la sezione dell’archivio del Partito Radicale che comprende gli anni dal 1955 al 1998 o, in alternativa, il motore di ricerca dell’archivio di radioradicale.it, che raccoglie la gran parte degli audio che documentano l’attività politica del movimento dai primi anni ’70 ad oggi, per avere prova che maggioritario e uninominale diventano proposta politica non prima del 1986: fino a quell’anno se ne fa vago accenno solo in due articoli apparsi su Notizie Radicali, nellaprile del 1970 e nel settembre del 1976, e in entrambi i casi senza alcuna presa in carico di quello elettorale anglosassone come modello auspicabile per lItalia. I radicali, dunque, hanno questa posizione da meno di trentanni, e per amor del vero occorre dire che l’assunsero per ragioni del tutto funzionali alla crisi di consenso che cominciavano ad accusare nella società italiana, alla ricerca di uno stabile accasamento in uno dei due grandi blocchi che prospettavano nella versione italiana di quel bipartitismo di tradizione anglosassone che con maggioritario ed uninominale sarebbe stato di lì in poi l’obiettivo dichiarato, a dispetto di una posizione sostanzialmente terza, quando in Italia si ebbe la stagione del bipolarismo, sia in seno al centrodestra che al centrosinistra.

domenica 19 gennaio 2014

#ciao




(passo e chiudo)

Soprattutto grazie al serrato scambio tra lettori di opposta opinione, perché di mio in questa occasione ci ho messo davvero poco, su questo blog nei giorni scorsi s’è avuto un gran bel discutere di sperimentazione animale in campo medico (1, 2, 3). Discussione che è andata subito al cuore del problema – la fondatezza o meno degli argomenti antispecisti – perdendo così un po’ di vista la dimensione integrale dell’oggetto del contendere. Penso sia giusto richiamarla, e vorrei farlo proponendo un passaggio dell’intervento tenuto da Silvio Garattini nel corso del convegno su «Sperimentazione animale e diritto alla conoscenza e alla salute» tenutosi a Roma lo scorso 14 gennaio.


Credo non abbia bisogno di  commenti, ma vorrei attirare l’attenzione su un dato che è messo in risalto all’inizio dell’intervento e che in buona evidenza costituisce un paradosso: chi è contrario alla sperimentazione animale tiene a rimarcare le differenze tra uomo e animale sul piano «fisico» per poi considerarle irrilevanti su quello «metafisico». Paradosso che potrebbe sembrare ribaltato in campo avverso, dunque anche qui patente in egual modo, pur se con segno diverso, e tuttavia qui è paradosso che si scioglie nella mancata pretesa di fondare la dignità del vivente sulla base di mere caratteristiche biologiche, anatomiche, fisiologiche, ecc. Siamo, insomma, al nodo del concetto di  «valore», sul quale torna utile la lezione di Carl Schmitt: «Se qualcosa ha valore, e quanto ne ha, se qualcosa è un valore, e in quale misura, lo si può stabilire soltanto in base a un punto di osservazione, un punto di vista già posto. [...] Non si tratta quindi di idee, né di categorie, né di principi, né di premesse. Sono propriamente punti. Essi si collocano nel sistema di un puro prospettivismo» (Die Tyrannei der Werte, 1960). 


giovedì 16 gennaio 2014


Ho una variante dell’«io se fossi Dio» di Giorgio Gaber, si tratta di un parlamento interiore che legifera con esemplare spietatezza, ma mitigata dal rispetto della mia Costituzione, che al primo e solo articolo recita: «Unicuique suum».
Bene, tanto per tenervi informati dei lavori in corso, vi dico che, subito dopo aver varato la legge che vieta agli antispecisti di poter usufruire di terapie chirurgiche e farmacologiche divenute pratiche mediche correnti grazie alla sperimentazione animale, ora è in discussione la norma che, se passa, vieterebbe ai passatisti l’utilizzo di tutto ciò che è moderno.
Stavolta la discussione va un po’ per le lunghe, perché «passato» e «modernità» sono concetti assai fluidi, in ogni caso pare che il dibattito abbia imboccato la via giusta, sono sicuro che tra non molto arriverà risposta all’istanza che sale dai coglioni, che già da tempo roteano chiedendo al legislatore di trovare una soluzione all’insopportabile piagnisteo di chi sputa nel piatto in cui mangia: nellimpossibilità di chiuderli in una macchina del tempo e mandarli a fare in culo nella loro vagheggiata Arcadia, che per alcuni è quando non c’era internet, per altri quando non c’era la tv, per altri ancora quando non c’erano gli antibiotici, prende corpo lidea di tagliar loro la luce, il telefono, il gas e l’acqua corrente, limitando le cure di cui abbiano bisogno a salassi e cataplasmi, a consentirne gli spostamenti solo a dorso di muli, e robe del genere. 
Stamane, per esempio, ha preso la parola l’onorevole ***, che ha preso spunto da quello che un avanzo del neoidealismo crociano ha scritto su Il Foglio di giovedì 16 gennaio, almanaccando sulle bufale che non stanno più in ammollo nella melma come nei quadri dei Macchiaioli («povere bufale»), sui neurologi che hanno degradato lanima a cervello, sugli «ateisti» (sic) che vorrebbero lavessimo artificiale, il cervello, perché, a suo dire, ritengono che «un uomo con cervello artificiale non ha bisogno di Dio», e su quanto «la tecnica e le tecnologie mi sono odiose». Insomma, una uàllera gigantesca.
«’Sto stronzo – ha detto l’onorevole ***, eletto in una circoscrizione tra le più rustiche del mio sentire rompe er cazzo pecché dopo che l’homo habilis è diventato erectus, e poi sapiens, mò c’è pericolo che possa diventa’ homo electronicus. Se chiede se ce sarà un post umano dopo er post moderno. Dice che c’è er rischio che le machine possano addiventa’ parte dell’homo, col rischio che poi ce va in sintetico. Pe’ inciso, rubacchia virgolettati da quello che ’artra fetecchia de la stessa razza ha scritto quattranni fa su la Repubblica. Sia detto pe’ chi nun lo conosce, onorevoli colleghi, ’sto stronzo è sordo come ’na campana e sta da mezzo secolo attaccato a ’n apparecchio acustico dalta tecnologia, mica a un corno de bufala...».

[...]


Nell’affermazione che i padri abbiano ipotecato il futuro dei figli v’è l’eco della fatale sentenza che risuona nella tragedia greca e nella Bibbia, e tuttavia chi lo afferma sembra voler segnalare qualcosa di inaudito, come fossimo dinnanzi al sovvertimento di una legge che fino a ieri era inviolabile. In realtà, i figli pagano sempre le colpe dei padri, da sempre, né siamo di fronte ad una sconvolgente novità nel constatare che «oggi è peggio di ieri», nel prevedere che «domani sarà peggio di oggi», che questo sia dovuto a errori che da una generazione ricadono su quella che la segue: è l’ineluttabile della catena ereditaria, e pretendere che individualmente o collettivamente il lascito debba essere sempre in positivo, più che ingenuo, è stupido. Fino a quando sarà consentito entrare in possesso di un bene senza altro merito che essere figlio di chi lo ha conquistato – e c’è da ritenere sarà consentito ancora per molto altro tempo – si dovrà accettarne il rovescio, mentre il discutere se di generazione in generazione quel bene sia stato accresciuto o dilapidato non ha altro senso che far storia. Sarà per questo che marxismo e liberalismo hanno contatto in un solo punto, nella critica dell’asse ereditario, e che in quel punto tentano l’uscita dalla storia.      

martedì 14 gennaio 2014

Corrispondenze

Riproduco qui sotto una email inviatami da Nane Cantatore.

Credo che la posizione antispecista non stia in piedi per una patente contraddizione logica, tanto grossa da renderla insostenibile: essa infatti sostiene una continuità tra l’uomo e l’animale, a partire dalla comune capacità di sentire e di soffrire. Lasciamo perdere l’evidente arbitrio per cui proprio tale capacità dovrebbe essere fondativa di diritto, anche solo nella limitatissima accezione del diritto a non provare sofferenza, e concentriamoci sulla contraddizione, talmente grossa da essere, a mo’ di purloined letter, invisibile: proprio tale condizione, tanto primaria da abolire ogni differenza tra uomo e animale, sarebbe all’origine dell’imperativo etico, il quale varrebbe però soltanto per l’uomo, appunto perché solo l’uomo è soggetto morale. A riprova di tale affermazione, valga il fatto che i comportamenti crudeli dei delfini, che stuprano e uccidono i cuccioli di focena e della loro stessa specie, o dei leoni, la cui violenza intraspecifica è molto superiore a quella umana, non vengono giudicati moralmente, salvo essere accusati, per l’appunto, di antropocentrismo. In altre parole, l’identità tra uomo e animale sancirebbe un dovere fondato sulla differenza tra uomo e animale.
Se questo approccio è insensato, non credo però che lo sia la domanda a cui cerca di rispondere, e a cui credo siamo comunque chiamati tutti a dare una risposta. La pongo nei termini con cui viene espressa in un commento al suo secondo post: Prima di tutto dovrebbe spiegare perché non è giusto provocare sofferenze agli animali?”
Perché se pensassimo che le sofferenze provocate agli animali fossero un che di moralmente indifferente, il problema non si porrebbe, e non solo per la sperimentazione ma per qualsiasi crudeltà. Invece, riteniamo che tali sofferenze siano comunque un male, che può essere accettabile per un bene maggiore (il topo sacrificato per la ricerca medica), e comunque da limitare al massimo (il topo sia sedato, gli esperimenti effettuati solo quando necessario e così via), ma non in tutti i casi (non, ad esempio, per la sperimentazione di cosmetici). Si potrebbe porre la questione in termini puramente quantitativi, come una contabilità della sofferenza accettabile per un dato bene, ma tale risposta avrebbe innanzitutto il difetto di essere arbitraria e imprecisa, tanto da faticare a immaginarla davvero dirimente: anche una volta accettata la sperimentazione limitata e controllata, cosa fare dell’uccisione di animali a scopo alimentare? E cosa fare, spostando l’asticella, dell’uccisione di animali a scopo ludico? Perché, in altre parole, la bistecca sì e la corrida no? Soprattutto, però, la questione resta: mentre è facile trovare dei motivi razionali per vietare l’omicidio, il furto o la menzogna, è difficile giustificare, una volta messa fuori causa l’empatia verso altri senzienti dalle motivazioni razionali delle prescrizioni morali, l’immoralità, o comunque la connotazione negativa, dell’infliggere sofferenza agli animali.
Per provare a rispondere, devo cercare di chiarire un carattere fondamentale di ogni proposizione morale che abbia un senso: essa ha un carattere necessariamente intersoggettivo, ossia passa per il riconoscimento di un’alterità a cui si riconosce una validità o, per dirla in termini più pregnanti, una dignità. È nei confronti di questo altro che sono moralmente obbligato: in un mondo assolutamente solipsistico non ho obblighi, mentre già nel paradossale universo idealista di Berkeley, o nei primi passaggi cartesiani in cui ci sono soltanto l’ego cogitans e Dio, esiste per lo meno una matrice di moralità.
Uscendo dalle iperboli metafisiche, la morale vincola rispetto a soggetti reali e interagenti, a partire dal loro riconoscimento. Un riconoscimento che non ha ancora, in questa fase, le caratteristiche della reciprocità: quando il vincolo è reciproco, dalla morale si passa alla norma, al diritto. Ma, e qui sta il punto cruciale, questa fase primigenia della morale senza reciprocità, in cui l’altro non è coobligato insieme a me, è una pura finzione filosofica: se devo agire verso altri secondo dei principi conformi alla mia condizione rispetto a questi altri, o tale condizione è fondata sul riconoscimento reciproco o i diritti che riconosco loro, in quanto non danno luogo ad alcun obbligo intersoggettivo, sono semplici diritti passivi, ossia concessioni, revocabili in qualsiasi momento, e un obbligo revocabile e dipendente dalle circostanze o dalla volontà non è un obbligo morale. Mi chiarisco: è chiaro che ogni ingiunzione morale può essere disattesa, ma il suo valore resta a dispetto dei fatti; se, invece, tale ingiunzione non ha un fondamento vincolante, ma riposa integralmente nella volontà, o nell’arbitrio, di chi se la impone, allora essa perde il suo carattere imperativo. Insomma, la morale è subito diritto, e credo che Hegel abbia ragione (anche) su questo.
Vorrei essere chiaro: nel definire imperativi gli obblighi morali non intendo fare riferimento a dettami provenienti dall’alto di una rivelazione o comunque legati a una qualche immutabilità ontologica o esistenziale (come mi pare facciano gli antispecisti con la loro scaturigine dell’etica dal dato ontologico della sensibilità), ma a un carattere formale della norma. Essa è tale soltanto se ha un carattere generale o se riconduce comunque a esso, anche quando tale carattere fosse nel criterio generalissimo della maggiore utilità possibile per il maggior numero di individui, e tale carattere resta a dispetto di ogni convenienza o contingenza che, semmai, concorre a determinare e a specificare la norma.
Provo, finalmente, ad arrivare al punto: da quanto detto finora, risulta che gli animali non possono essere soggetto di diritti, ma soltanto oggetto di concessioni. Detto questo, vorrei però esaminare il carattere del rapporto dell’uomo con gli animali, cercando di muovermi su un terreno di continuità, proprio per recuperare un piano di reciprocità. Credo che questo terreno sia quello dell’etologia e dell’ecologia, vale a dire della struttura dei comportamenti all’interno di modelli non morali ma comunque generatori di risposte complesse, vale a dire di significato, e delle interazioni tra specie all’interno di uno stesso ambiente.
Ora, l’addomesticamento di numerose specie animali è avvenuto su un piano di reciproca convenienza, ossia di simbiosi: le diverse specie addomesticate hanno visto un netto incremento del loro successo riproduttivo, della disponibilità di cibo e riparo, dell’estensione stessa del loro habitat. L’uomo, a sua volta, ne ha ricavato a sua volta fonti di cibo più variate, affidabili e abbondanti, oltre a tutta una serie di altri benefici per attività che lo caratterizzano in modo peculiare rispetto agli altri animali, dal vestirsi al guerreggiare. In altre parole, se l’uomo non si nutrisse (anche) di bistecche, ci sarebbero molte meno mucche sul pianeta. Del resto, da quando non si usa più la trazione animale, ci sono molti meno cavalli e asini: l’introduzione dei veicoli a motore è stata, in questi termini, una catastrofe ecologica per tali specie.
A queste condizioni, la sofferenza del singolo animale è, dal punto di vista di questa economia simbiotica, accettabile nella misura in cui essa fa parte delle condizioni del successo evolutivo di tale specie: il maiale può essere macellato per farne salsicce, dal momento che le salsicce sono la ragione per cui la specie del suino domestico è enormemente più numerosa di quella del suino selvatico. È altrettanto chiaro che questa sofferenza va tenuta al minimo necessario, dal momento che ogni specie, e ogni individuo di ciascuna specie, ha il chiaro interesse a non soffrire. In questo senso, il mutare delle condizioni reali può spostare il livello di sofferenza accettabile: il cavallo di un carrettiere faceva una vita indubbiamente peggiore di un cavallo da maneggio, ma in entrambi i casi la specie equina godeva di un vantaggio simbiotico.
Fin qui, il tentativo di inquadrare la questione in senso ecologico. Passando al versante etologico, ritroviamo l’intero universo di relazioni e di empatia che osserviamo tra ogni animale, uomo ovviamente compreso. Insomma, è palese il fatto di un reciproco investimento emotivo tra uomo e animale, che avviene secondo forme di fatto codificate: si riconosce quando un cane è amichevole, esistono segnali e comportamenti che possono indurre alla tranquillità o all’aggressività mammiferi di specie diverse, e così via. Si riscontra una notevole continuità nel comportamento umano e in quello animale, e non sembra peregrina l’ipotesi che alcuni comportamenti degli aggregati umani siano più simili a quelli dei canidi che degli altri primati, fino a poter ritenere, come fanno diversi paleoantropologi, che alcuni caratteri delle prime società umane siano stati fortemente informati dalla presenza dei cani.
Ciò giustifica ampiamente la repulsione che proviamo verso le sofferenze di altri esseri senzienti,  e persino la legittimità di legiferare per il loro massimo contenimento: infliggere sofferenze senza uno scopo è crudele, e la crudeltà è repellente e socialmente distruttiva; di conseguenza, reprimiamo la crudeltà. Detto per inciso (giuro, è l’ultimo inciso), questa proposizione vale anche in una prospettiva morale di utilitarismo debole, ma ciò è dovuto al fatto che l’utilitarismo debole (vale a dire, una prospettiva che non ponga la massima utilitarista come imperativo morale, ma come semplice criterio organizzativo) non è una dottrina morale, neanche intesa come morale “dal basso”. Lo è invece  l’utilitarismo forte (alla Bentham), che, proprio perché si dota di una massima semplice e dotata di una certa evidenza, è una dottrina morale abbastanza elegante ed efficace.
Allo stesso modo, limitare le sofferenze degli animali da laboratorio o garantire buone condizioni di vita agli animali da allevamento non è ipocrisia, come sarebbe se esistesse un imperativo morale a cui si tributasse l’ossequio della forma per poi tradirlo nella sostanza, ma una scelta dettata dalla nostra empatia animale e, a fortiori, umana; scelta che è perfettamente funzionale all’economia simbiotica di cui sopra.
Da qui al diritto, però, c’è un abisso.

Segnalibro

Lascito in sfacelo




L’americano è fesso, il giapponese anche di più, per non parlare dello svizzero, che oltre ad esser fesso non sa neppure cosa sia, la bellezza. Vengono, guardano, cercano di annodare un nome a un’immagine col naso spiaccicato su una guida, ma non hanno neppure la più pallida idea di quanto sangue… Pensano sia un museo, non riescono neppure a capacitarsi che la bellezza, qui, è quel che resta di una violenza senza pari. Non c’è un palazzo, né una chiesa – né affresco sacro, né profano – né fontana, né lucernaio, che non abbia avuto per committente un delinquente. E più era delinquente, e meno aveva scrupoli, e più era feroce, più aveva d’appresso artisti e storici a imbellettargli il grugno: «Prego, duca, si metta di profilo, così evitiamo di ritrarre la cicatrice»; «Santità, copra l’orecchio col camauro sennò si vede la papula luetica». Sembra un museo, ma a saper leggere le didascalie, tra le righe, è un catalogo di nefandezze, nequizie, vizi. Roba superlativa, in ogni caso, sicché con l’avvizzirsi della rigogliosa crudeltà del Medioevo, del Rinascimento e del Barocco, coll’avvento dei parassiti che hanno preso il posto dei delinquenti, la bellezza non ha prodotto altro che rifacimenti, copie in quarto o in ottavo, e lo stucco ha sostituito il marmo, il nemico non veniva più sventrato, ma strozzato, e la pennellata ha preso maniera. Per dirla al modo dei villani, la bellezza è diventata estetica, ha perso l’allusione all’atroce che doveva diluire fino a estinguerlo nel mirabile, e s’è data in «wonderful». Per le vie lungo le quali s’accatastavano cadaveri passeggia oggi, in pantaloni bianchi e giacca gialla, il custode di questo lascito in sfacelo, e dietro si trascina una lunga coda di turisti.  

lunedì 13 gennaio 2014

[...]


Temo di essere stato troppo sbrigativo nella risposta a chi mi ha chiesto di esprimere la mia opinione sulla sperimentazione animale in campo medico, ma nel dichiarami a favore, nell’aggiungere di esserlo senza riserve e nell’affermare che ritengo assurde le ragioni di chi è contrario, pensavo fosse implicito il rimando agli argomenti che la dimostrano necessaria, e che anche stavolta, col riaccendersi del dibattito sulla questione, autorevoli voci del mondo scientifico sono state costrette a riproporre, e con una pazienza che ritengo eroica, a fronte di esaltate frange di fanatici, convinti assertori di un’assoluta parità di diritti tra uomo e topo. Temo di essere stato troppo sbrigativo, perché scrivendo su queste pagine che, «fosse in mio potere, costringerei costoro alla coerenza, negando loro la somministrazione di ogni molecola che abbia richiesto il sacrificio anche di un solo animale per i test necessari al suo impiego clinico», ho offerto il fianco all’obiezione – cito testualmente – che «l’incoerenza non inficia per nulla la verità di quello che viene detto ma solamente mina l’autorità di colui che lo dice» [Carlo]. In pratica, mi sono beccato l’accusa di ricorso ad una fallacia argomentativa, e devo confessare che questa mi ha irritato assai più delle ingiurie e delle minacce piovutemi addosso, e che d’altronde mi sono limitato a cestinare, perché negli anni sono giunto a conclusione che dare ad esse una qualsiasi forma di visibilità è un modo, ancorché subdolo, di esercitare la più perversa forma di vanità del blogger, che è quella di posare a vittima.
Non ho risposto all’accusa, al mio posto l’hanno fatto altri lettori, chi in modo assai spiritoso, e tuttavia – ritengo – non risolutorio («Quando vedrò un animalista farsi operare da un chirurgo alle prime armi che non ha aperto manco un ratto, ma s’è esercitato con Surgeon Simulator 2013 su xbox, allora potrò affrontare l’argomento con lui» [Stefano]), chi col fare presente che in questioni di natura etica (e l’animalismo e l’antispecismo rivendicano di muoversi in questo ambito) i principi sostenuti vanno «verificati sul campo e non trattati in astratto» («Nel momento in cui ci si cura con le stesse cure di tutti gli altri - ci si dimostra cioè disponibili a mettere la vita animale su un piano diverso da quella umana - si tende giocoforza a divellere il preteso fondamento etico e morale che si è appena sostenuto […] quindi l’incoerenza inficia certamente la verità di quello che viene detto, perché essa è a tutti gli effetti un piccolo pezzo di dimostrazione della falsità del principio etico sostenuto» [Paolo]). Ottimo collegio difensivo, devo dire, ma in campo etico davvero la coerenza è un argomento? Come vedete, ho ribaltato la questione posta implicitamente dal mio post e – ahimè – devo dare una risposta negativa: no, perché si può affermare moralmente disdicevole masturbarsi (Catechismo della Chiesa Cattolica, 2352), farlo, pentirsi di averlo fatto, rifarlo, ripentirsi, e tuttavia continuare ad affermare che è offesa al sesto comandamento, dunque peccato mortale. Intendo dire, se l’ellissi aveva curva troppo larga, che in campo etico un assunto si fa principio senza avere alcun bisogno di «verifica sul campo»: si dà «in astratto» e chiede, quasi sempre con forza, di farsi concreto, ma, se non ci riesce, non rinuncia certo a venir meno.
Si obietterà che questo vale per l’etica che si dà come superiore e antecedente all’uomo, eterna e immutabile, e dunque come espressione di un disegno trascendente, ma che esiste, o almeno è possibile, un’etica che sale dal basso, come tentativo di risposta al bisogno di una logica che informi la norma, un’etica, cioè, che ha come fine un utile sovraindividuale senza aver bisogno di figurarselo a immagine e somiglianza di un dio. Sono d’accordo, anzi, ritengo che questa sia l’unica etica tollerabile, perché fa i conti col divenire umano, avendo come solo fine la convivenza di individui liberi e responsabili, perciò rispondendo al più genuino significato di ciò che è ethos, luogo in cui si vive, spazio destinato alla vita.
Ora, a me pare evidente che chi è contrario alla sperimentazione animale in campo medico lo sia perché ritiene che a topi, conigli, maiali, ecc. debba essere garantita una tutela giuridica pari a quella di cui godono gli esseri umani, in risposta ad un’istanza etica che sarebbe comune a tutti i viventi, anzi, per meglio dire a quelli che appartengono al mondo animale, visto che la loro conseguente scelta vegetariana (qui evitiamo di prendere in considerazione chi è contrario alla sperimentazione sugli animali, ma se ne nutre), non risparmia altri organismi viventi come rape, carote, zucchine, ecc. In altri termini, ad informare la norma dovrebbe essere una logica (etica) che sia valida per uno spazio destinato alla vita (ethos) in cui dovrebbero considerarsi inscritti, e con parità di certi diritti, uomini, topi, conigli, maiali, ecc. (e dico «certi diritti» perché nessun animalista o antispecista si spinge a chiedere per essi, ad esempio, il diritto di voto). [Non credo di essere andato troppo oltre nell’interpretazione della filosofia che sta in premessa alle loro richieste, perché ho attinto dalle loro bibbie (Peter Singer, Animal Liberation, 1975; Tom Regan, The Case of Animal Right, 1983).]
Bene, a questo punto vorrei mi si consentisse una domanda: questa logica – questa etica – è del tipo che sale dal basso o del tipo che scende dall’alto? Per meglio dire: è un’etica che è da considerare superiore e antecedente al mondo animale, eventualmente ad esso intrinseca, da sempre disattesa fino alla scoperta che la vita del topo è in qualche modo sacra quanto quella umana, oppure è un’etica che si fa carico di mutate condizioni nell’ambito degli equilibri che reggono il regno animale? Potrei porre la domanda anche in un altro modo, forse un po’ più brutale: i diritti degli animali per cui si spendono animalisti e antispecisti sono nati con gli animali o sono acquisiti? Nel primo caso, mi pare evidente che a rispettarli fin da subito, da quando l’uomo è comparso su questo pianeta, non saremmo qui a discuterne: è ampiamente dimostrato, infatti, che senza lo sfruttamento di alcune specie animali, in primo luogo per esigenze alimentari, ma non solo, e in ogni caso con patente lesione dei diritti che oggi dovremmo riconoscere ad esse, non avremmo fatto fronte ad una innumerevole serie di problemi. Nel secondo caso, invece, c’è da chiedersi se tali problemi siano risolti per sempre, al punto da poter rinunciare allo sfruttamento di tutte le specie animali, facendo coincidere la norma antispecista alle mutate condizioni di quella che fino a ieri, in modo arbitrario, abbiamo chiamato specie umana. [Un esempio: è possibile un corretto sviluppo nel bambino senza apporto di proteine animali?] Mi pare del tutto pacifico, infatti, che un’etica che scende dall’alto non abbia alcun bisogno di fare i conti con le esigenze che si muovono dal basso, semmai è il contrario, mentre un’etica che sale dal basso può ritenersi fondata solo se l’utile sovraindividuale può ragionevolmente includere tutti gli individui per i quali dichiara parità di certi diritti.
Mi si dirà: stai per caso tentando di dare per scontato che l’etica debba necessariamente avere un fondamento di tipo utilitaristico? È la domanda che via email mi ha posto un antispecista dai modi non tanto aggressivi da essere subito mandato a cagare, e a lui ho risposto che, sì, ce l’ha anche quando lo nega o lo afferma in vista del guadagno della vita eterna. [Peraltro cè da rilevare che unetica diversa, di quelle che scendono dallalto, comè quella che dichiara moralmente disdicevole masturbarsi, consente lo sfruttamento e luccisione di animali, ma vieta che vengano maltrattati perché il maltrattamento configurerebbe unoffesa non già alla dignità del maltrattato, ma a quella del maltrattante.] A questo mio assentire, mi sono visto muovere come obiezione che un animalista ante litteram è stato proprio il padre dell’utilitarismo, e cioè Jeremy Bentham, il quale invitava a «non porsi la domanda se [gli animali] sanno ragionare, né se sanno parlare, bensì se possono soffrire». Lì non ho potuto far altro che invitarlo a non limitarsi a leggere le sette o otto righe che i fanatici come lui sono soliti citare da Principles of Morals and Legislation, ma di andare a fare la scoperta che, due capoversi prima, Jeremy Bentham dichiara pienamente legittimi lo sfruttamento e l’uccisione di animali, ma evitando loro sofferenze. E l’ho mandato a cagare.
E dunque direi che qui potrei tirare i fili. Anche a voler recepire le istanze di un utilitarismo non insensibile alla dignità del vivente non umano, con ciò rientrando nell’ambito di quell’etica che non ha alcuna difficoltà a dichiararsi norma che viene dal basso, per rispondere ad esigenze poste dalla ricerca di un utile che varia al variare delle condizioni, l’impiego di animali da parte dell’uomo è pienamente legittimo, fatta salva la clausola del rispetto che impone il risparmiare ad essi sofferenze, peraltro inutili.
La questione, a questo punto, mi pare notevolmente semplificata, e può essere esposta riducendola alla sua mera sostanza: è utile il sacrificio di alcuni animali? Sì. Senza alcun dubbio? Senza alcun dubbio. E su quest’ultimo punto, per non dilungarmi oltre, rimando a ciò che Elena Cattaneo e Gilberto Corbellini scrivevano sul domenicale de Il Sole-24 Ore di ieri. Qui riporto solo quattro dei dieci punti che i due ricercatori hanno tenuto a precisare, ma sono quelli che ritengo abbiano maggiore rilevanza.

Almeno per quanto attiene agli aspetti presi a oggetto in questo post, posso fare a meno di richiamare gli altri sei punti («non è vero che la sperimentazione animale si fa normalmente anche su gatti, cani e primati», «non è vero che gli scienziati sono indifferenti alle sofferenze degli animali», «non è scientificamente fondato sostenere che gli animali hanno un livello di coscienza equivalente a quello umano», «è offensivo sostenere verso le persone umane malate che gli animali hanno i loro stessi diritti», ecc.), penso addirittura siano di mero corredo psicologico. E con questo penso di avere abbondantemente espiato la leggerezza di una presa di posizione senza esplicita argomentazione.

venerdì 10 gennaio 2014

giovedì 9 gennaio 2014

«Imparare dalla storia che da essa non c’è niente da imparare» (Elias Canetti)


Le analogie tra Renzi e Berlusconi sono tutte aleatorie. Se somiglia a qualcuno, il nuovo segretario del Pd, è al Craxi del 1976: arriva alla segreteria, occupa i gangli vitali del partito coi suoi uomini, mostra modi spicci, indulge nella battuta liquidatoria e strafottente, e una gran fame di governo lo spinge a muoversi con un’irruenza da cinghialone che a lungo non trova resistenze. Ma forse le analogie, in politica, sono tutte aleatorie, e dunque lo sono anche queste.

mercoledì 8 gennaio 2014

[...]


Cerco di seguire il dibattito sulla libertà di espressione sul web con tutta l’attenzione che riesco a impormi, ma confesso che mi infligge una noia indicibile. Senza dubbio dev’esser colpa mia, evidentemente non sono ancora riuscito a capire quale sia il problema nello specifico, perché almeno una cosa mi è chiara, e cioè che in tanti danno per assodato che sul web la libertà di espressione ponga questioni del tutto peculiari, che invece a me pare siano in tutto analoghe a quelle poste dalla comunicazione veicolata da altri mezzi.
Voglio dire che a mio modesto avviso dovrebbero valere anche per l’agorà virtuale le regole vigenti per quella reale: abbiamo un codice civile e uno penale per sanzionare quanto abbia gli estremi dell’illecito, tutto il resto potrà eventualmente buscarsi la condanna morale di chi non ne condivida il portato etico-estetico, ma è bene che resti intoccabile.
Nel caso che ha riacceso il dibattito in questi ultimi giorni – i commenti all’ictus occorso a Pierluigi Bersani – io davvero non riesco a capire dove sia il problema, e leggo il lamento di Michele Serra, la sennata risposta di Massimo Mantellini, ma l’impressione è che si metta insieme il tutto e il niente. Augurarsi la morte di qualcuno è un reato? Non mi risulta. È cosa disdicevole sul piano morale? Può darsi. In ogni caso, se non vogliamo uno Stato etico, dobbiamo rinunciare a tradurre in sanzione giudiziaria una condanna morale o a pretendere sia censurato quanto non incontri il nostro gradimento.
Si obietta: sul web si può essere attivi in forma anonima, dunque l’eventuale illecito non è attribuibile in modo diretto e immediato, sicché il controllo deve essere effettuato in via preliminare sul mezzo. Non sono d’accordo, anche perché alla responsabilità personale di un abuso della libertà di espressione si può arrivare con gli strumenti di cui è ampiamente fornito chi è deputato a far rispettare la legge.
Rimane possibile, ovviamente, che in rete si urli: «Devi morire!», come accaduto nei confronti di Pierluigi Bersani, proprio come si urla allo stadio nei confronti – faccio per dire – di Mario Balotelli. Può disturbare la sensibilità di qualcuno, ma ritengo improponibile la soluzione di far disputare le partite a porte chiuse o quella di negare l’accesso agli spalti a chi urli a questo modo. Altra cosa è l’ingiuria, specie se motivata da pregiudizio razziale, ma in questo caso siamo dinanzi a un reato. Ben venga, allora, la sanzione a chi a Mario Balotelli urli: «Negro di merda!». Allo stadio torneranno utili le telecamere per individuare i colpevoli da punire, sul web non sarà più macchinoso individuarli dall’IP.
Virtuali o reali, le piazze sono piene di ogni cosa: qui si può pretendere che le leggi garantiscano la repressione dei reati, non che assicurino un’atmosfera di nostro gradimento. Questa pretesa può trovare soddisfazione nell’iscrizione a un club privato, in cui di solito vigono regole liberamente accettate da chi ne chiede l’ammissione e che rispondono a standard di comportamento opportunamente normati, ma l’idea che il web debba dotarsi di analoghi requisiti, prim’ancora che irrealizzabile, è inauspicabile. D’altronde, chi trovi fastidiosa la piazza può restare a casa. Chi in rete s’imbatta in qualcosa che lo irriti, può cambiare pagina.              

«Il “Bacon-De Sica”»



Nella puntata di Che tempo che fa di domenica 5 gennaio, Christian De Sica ha raccontato di un quadro di Francis Bacon che per qualche tempo fu di proprietà della sua famiglia: dalla descrizione che ne ha dato non ci sono dubbi sul trattarsi della tela che reca per titolo Woman emptying a bowl of water, and paralytic child on all fours (1965), appartenente al ciclo ispirato alle foto di Eadweard James Muybridge (1830-1904). Penso valga la pena di soffermarci su quanto ha detto a proposito dellopera e del suo autore, perché offre spunto a più d’una riflessione sul degrado culturale del nostro paese, e preciso subito che scelgo la soluzione di riportarne il testo, piuttosto che allegare in video il passaggio, per risparmiarvi l’inutile sovrappiù di volgarità in mossette e ammicchi.
Probabilmente è superfluo premettere che a me Christian De Sica non piaccia affatto. È che in certi attori non v’è studio, né tecnica, né esperienza, né  d’altronde se ne coglie la mancanza, perché si limitano ad essere se stessi, non importa quale sia il personaggio che sono chiamati ad interpretare, tanto più che quasi sempre si tratta di un personaggio costruito a misura, al punto che non è possibile trovare alcuna differenza tra come sono nella scena e fuori. Christian De Sica è appunto uno di questi attori, e i personaggi che ha finora interpretato sono in realtà uno solo, sempre lo stesso, anzi, più che di un personaggio, si tratta di un carattere, lo stesso che ha esibito da ospite di Fabio Fazio. Un carattere deteriore, ma è da millenni che la rappresentazione di ciò che è deplorevole ha funzione che risponde a un fine eminentemente sociale, e che continua a mantenere il suo valore anche se da alcuni decenni ha cambiato di segno: se prima era il cattivo esempio da evitare, oggi è il modello in cui ci si può riconoscere per cercare in esso ragioni, e trovarle, per accettarsi per come si è, e perfino con autocompiacimento.
L’universo intellettivo ed emozionale di Christian De Sica è il cinepanettone. L’inevitabile difficoltà di confrontarsi con l’enorme figura del padre, dunque, non può risolversi che mantenendo un costante equilibrio tra l’aneddoto e lo sketch, avendo cura di non sottrarre al primo il candore del ragazzino che racconta del suo grande papà, né al secondo l’efficacia del meccanismo che produce la risata: è lavoro assai più complicato della sacerdotale cura del tempio paterno, che in fondo necessita della sola capacità di confetturare la memoria in apologo e metterci a sentinella seriosità e sussiego, ma implica lo svilimento di una pagina di storia e di cultura del paese. In sedicesimo, direi, è ciò che accade quando un’epoca si riduce ai divertenti pettegolezzi che lhanno intessuta e che di generazione in generazione sono arrivati fino a noi. Il ruolo di testimone privilegiato ci autorizza a prendere confidenza coi grandi che ne sono stati protagonisti, invitandoci a lasciare in secondo piano la teoria della relatività per concentrare la nostra attenzione sul fatto che Einstein portasse spesso calzini spaiati.
Ma forse riesco a spiegarmi meglio venendo al «Bacon-De Sica».


   

«Mio padre era un collezionista perché era molto amico di Cesare Zavattini, il suo sceneggiatore, che era un grande conoscitore d’arte e quindi lo consigliava su quali quadri comprare, e gli consigliò di comprare questo quadro di Francis Bacon. Era un quadro enorme... Poco prima di morire Francis Bacon ha detto: “È il quadro mio più bello”. Io sono andato con mio padre a Londra a casa di Bacon. Era un matto, la casa era tutta sporca, piena di roba, di colori... Sai, quei matti… Però era un genio assoluto, uno dei più grandi pittori contemporanei…
Insomma, mio padre compra ’sto quadro e paga una grossa cifra, che era otto milioni di lire… Era una cosa terribile: c’era un utero che sembrava un ponte. Sopra quest’utero c’era una donna che lanciava un secchio con dell’acqua e un bambino poliomielitico che camminava su ’sto utero. ’Na cosa che quando papà l’ha portato a casa, mamma l’ha messo in uno sgabuzzino dicendo: “Che è, ’sta porcheria?”. E non sapeva che era un capolavoro, però era una roba inguardabile, in più cera il viola...
Papà fa un film che si chiamava I girasoli, che non va tanto bene, e dice: “Questo è il quadro: dobbiamo venderlo, perché porta una sfiga terribile”, e lo vende per diciotto milioni di lire. Però, prima di venderlo, l’avevano messo nella stanzetta dove io andavo a fare i compiti…
E allora ci avevo ’sto quadro vicino, e facevo i compiti, e mi rompevo le scatole, e con la penna biro facevo così col cappuccetto, ed è partito, e pum!, gli ha fatto un buco così… Allora ho detto: “Madonna mia, adesso mio padre me mena”, e allora che ho fatto? Di dietro ci ho messo lo scotch e poi sopra ci ho fatto un fiorellino… ’Na schifezza, perché, poi, l’utero, il poliomielitico, io che ci faccio il fiorellino, che non c’entrava un cacchio… Mio padre si vende il quadro a diciotto milioni di lire, viene comprato da una signora miliardaria che lo rivende a centosessanta milioni, poi va a un’asta… Insomma, praticamente, non questo quadro, ma un altro di Bacon è stato venduto un mese fa per centosettanta milioni di euro…  Gli ho detto [a mia moglie]: «Silvie, ma te rendi conto?»...
[Qualche tempo fa] vado in una libreria e vedo un libro: l’opera omnia di Francis Bacon. Allora lo compro, vado a casa, apro, e non vedo il quadro mio? Aò, ci aveva ancora il fiorellino col buco. ’Na cosa meravigliosa… L’avevo fatto pure io!».
Al che, sinceramente divertito, Fabio Fazio chiosa: «Il Bacon-De Sica».

Come accade nel cinepanettone, occorre piegare i fatti in barzelletta. Per quanto scagliato con violenza, il cappuccetto di una biro riesce a forare da parte a parte una tela, per giunta indurita dal pigmento che la ricopre? Era noto in Vittorio De Sica il vizio del gioco: è verosimile che il quadro sia stato venduto perché portava sfiga? Non sapremo mai. Di fatto, Bacon non ha mai detto che il suo quadro più bello fosse quello che è stato in casa De Sica. Di fatto, anche per Christian De Sica, Bacon rimane un genio, anche se dipingeva «schifezze» ed era un «matto»: in cosa, dunque, la genialità? Per finire, l’inscriversi da garrulo cazzaro nella storia del cinema italiano e in quella della pittura contemporanea. Una pagina televisiva orrenda, perché ben vengano gli iconoclasti, ma non si limitino ad amputare un mignolo alla statua per poi farsi ritrarre in foto accanto ad essa con un sorriso da deficiente. 


[No, temo di non essermi spiegato bene neppure con lesempio offerto da Christian De Sica. Troppo incazzato per riuscire a ordinare gli argomenti, chiedo scusa.]


***
Questo giocare coi personaggi famosi incrociati in gioventù per costruire storielle brillanti è inevitabilmente a rischio di infortunio. Denis mi segnala il caso della millantata conoscenza di Alfred Douglas («Sai chi è? Dorian Gray, quello che ha mandato in carcere Oscar Wilde» - 3:14-4:14), morto sei anni prima che il millantatore nascesse.