martedì 24 dicembre 2013

Essere giusti con Bentham



Doppio paginone di Paolo Mieli sul Corriere della Sera di lunedì 23 dicembre: prende spunto da tre volumi che Il Mulino manda in libreria nel 25o° dalla pubblicazione del Dei delitti e delle pene di Cesare Beccaria (Michel Porret, Beccaria; Massimo La Torre e Marina Lalatta Costerbosa, Legalizzare la tortura? Ascesa e declino dello Stato di diritto; Luigi Ferrajoli e Mauro Barberis, Dei diritti e delle garanzie) per fare il punto su cosa sia cambiato in questo quarto di millennio e concludere che «violenze ed esecuzioni capitali restano pratiche diffuse». Poco da obiettare, tranne ciò scrive riguardo a Jeremy Bentham:  Bentham – scrive Mieli, citando probabilmente Porret che sul padre dell’utilitarismo si è già intrattenuto in almeno un’altra occasione, almeno a quanto mi risulta (suo il saggio in coda all’edizione del Panopticon per Marsilio, 2002) – «“sorprendentemente” accetta, nel 1843, questo genere di vessazioni [l’uso della tortura]». Chiaramente deve trattarsi di un refuso, perché Bentham muore del 1832 e l’opera in questione, Théorie des peines et des récompenses, è del 1825.
Ma questo, in fondo, è irrilevante rispetto a ciò che segue (mi scuso per la lunghezza della citazione, ma è necessario riportare integralmente il passo): «Colpisce un passaggio in cui Bentham sostiene che la tortura è una specie di pena, la quale, però, ha uno scopo ben più, e meglio, circoscritto, o determinato, e dunque si presta meno all’abuso. Quale sia lo scopo della detenzione del reo per Bentham “è poco chiaro”; il rapporto tra fatto (pena detentiva) ed effetto (comunque vago) è in tal caso ipotetico e indeterminato. Nella tortura al contrario la “catena causale” tra fatto ed effetto o risultato è assai più definita e precisa (meglio, proporzionale) di quanto non accada in ogni altra forma di pena. Infatti torturando si infliggerà solo ed esclusivamente quella misura di coazione e di sofferenza che sia necessaria ad indurre il reo a una certa azione o ammissione. Nella detenzione invece, osserva Bentham, la proporzionalità è violata, poiché lo scopo della punizione non risulta affatto chiaro. A Bentham si sarebbe potuto obiettare che “la detenzione è predeterminabile nella sua durata, e dunque non si presta sotto questo profilo all’abuso di colui che la commina, mentre la tortura è necessariamente indeterminata tanto per la durata quanto per l’intensità delle sofferenze inflitte”. Ma Bentham risponde preventivamente che tale indeterminatezza è prodotta dalla condotta del reo, il quale continua a non rispondere alle domande che gli vengono rivolte o a non cedere alle richieste che gli vengono indirizzate».
Senza pretendere di fare l’avvocato difensore di Bentham, e chiarendo che non intendo far mie le sue opinioni in proposito, occorre dire che siamo dinanzi a una lettura assai infelice di ciò che Bentham ha scritto, comune d’altra parte a quella di chiunque abbia accostato il pensatore passando per la critica rivoltagli da Foucault e, appunto, da Perrot, che ce lo ridanno come pianificatore di un allucinante sistema carcerario.
Bentham, per esempio, era contrario alla pena di morte, non già per mero umanitarismo, ma perché, «lungi dall’essere convertibile in profitto, è una perdita, uno sperpero di ciò che produce la forza e la ricchezza di una nazione». L’orizzonte morale è chiaramente fuori discussione, mentre anche qui la stella polare è quel «massimo bene per il maggior numero di individui» che lo guida lungo tutto il corso della sua riflessione sulla società e sullo stato. Ed è in tal senso che deve essere letto ciò che scrive sulla pena, e al riguardo credo sia utile citare un brano che ritengo derimente: «Ciò che giustifica la pena è la sua maggiore utilità [rispetto al non applicarla] o, per dir meglio, è la sua necessità. […] Il male prodotto dalle pene è una spesa che lo stato si accolla in vista di un profitto, che è la riduzione dei crimini. In questa operazione tutto deve essere calcolato del guadagno e della perdita, dal che risulta evidente che diminuire la spesa o aumentare il profitto significa in ugual misura ottenere un bilanciamento favorevole».
Come è lampante, ogni variabile del sistema è ridotta a funzione, sicché si può concludere che è rigettata in toto la scala valoriale che attiene a un giudizio di carattere morale. Poco oltre, infatti, scrive: «Ordinariamente si parla di mitezza o di rigore della pena, termini che implicano un pregiudizio di favore o di sfavore, che nuoce ad un esame imparziale [di ciò che la pena è chiamata a procurare]. Dire mite una pena è contraddittorio, mentre dirla economica vuol dire usare il [giusto = conveniente] metro del calcolo e della ragione».
In quest’ottica, ciò che riguarda la tortura, senza perdere l’atrocità che inevitabilmente suscita in noi, acquista un senso ben diverso. Per Bentham la condizione-tipo che la rende «economica» è quella del terrorista che si rifiuti di rivelare quanto sappia di un attentato che stia per essere consumato con rilevanti perdite di vite umane. Alla nostra sensibilità, due secoli dopo, ripugna l’idea che la tortura possa essere utile, e questo probabilmente può essere considerato un bene, anche se il costo che comporta è quello di una strage di innocenti. Per Bentham, invece, il bene sta nell’utile che ne ricava il maggior numero di individui a discapito dell’individuo che si rende responsabile di un reato a danno della collettività: che si voglia considere grande o piccola, la differenza tra noi e lui è tutta qua.  

3 commenti:

  1. Criticare un'interpretazione foucaultiana titolando con una parafrasi da Derrida è un raffinato esercizio di crudeltà intellettuale.

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    1. E' bello sapere ci sia chi coglie le citazioni in forma di insinuazione. Grazie.

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  2. Se posso suggerire
    http://www.everseradio.com/wp-content/uploads/2010/04/Jeremy_Bentham.jpg

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