venerdì 23 agosto 2013

Ci siamo capiti

Le sentenze vanno rispettate, sempre, anche quando sono considerate ingiuste, perciò, da quando la Corte di Cassazione ha stabilito che l’espressione «paese di merda» configura il reato di vilipendio alla nazione, io mi limito a pensarlo, e, anche se ritengo che non ci sia definizione più efficace per esprimere il degrado morale, culturale e politico in cui versa l’Italia, la evito, e mai – mai, ripeto – verrei qui a scrivere che «questo è un paese di merda»: mi costa enorme sacrifizio, ma la legge è legge, e dinanzi ad essa mi inchino. Tuttavia, anche se vanno rispettate, le sentenze possono essere criticate, ed io qui potrei avvalermi di tale diritto, spiegando perché, a mio modesto avviso, «paese di merda» sia definizione che all’Italia va proprio a pennello, chiamando illustri autori in favore della mia tesi, vuoi sulla forma, vuoi sulla sostanza, e però ci rinuncio, anche perché al post dovrei dare necessariamente un titolo che contenga l’espressione, e questo potrebbe dare l’impressione, almeno al lettore malizioso, che, per capzioso aggiramento, io voglia violare la legge sopravanzando il legittimo diritto. Perciò mi risolvo a titolare: Ci siamo capiti.
Premessa che sarebbe superflua, questa, se il paese, questo, non fosse quello che è. Paese che da settimane discute su come si possa venir meno al rispetto di una sentenza della Corte di Cassazione, quella che condanna un potente a un annetto di galera, mentre un indulto gliene ha già abbuonati altri tre, e pare che non ci sia altro su cui discutere. Capirete, visto che ci siamo capiti, che si tratta di un paese in cui le sentenze, anche quelle definitive, non sono mai abbastanza definitive: fino a quella della Corte di Cassazione, come è giusto, il condannato in primo e in secondo grado è sempre virtualmente innocente, ma pure dopo, quando la sua colpevolezza è certa, c’è sempre modo di evitare che la condanna sia applicata, ovviamente se il condannato è un potente, perché, se non è un potente, si fotte, e si fa il suo annetto e più di galera, anche solo in attesa del processo di primo grado. Quale migliore definizione per un paese in cui da semplice imputato ti tocca stare in galera, e star zitto, e da condannato in via definitiva è tutto da stabilire se puoi startene a casa due o tre mesi in attesa della grazia o scansare pure quello, e dintanto puoi sbraitare che neanche così ti sta bene? Evitiamola, ci siamo capiti.

mercoledì 21 agosto 2013

[...]




«Ogni frase del tipo “la decostruzione è X” o “la decostruzione non è X” è a priori priva di pertinenza: è a dir poco falsa»
Jacques Derrida, Lettre à un ami japonaise (1983)


«La decostruzione è la giustizia»
Jacques Derrida, Deconstruction and the Possibility of Justice (1989)

martedì 20 agosto 2013

Segnalibro

Fossero, non dico intelligenti (Rap)



Fossero, non dico intelligenti, ma almeno astuti, e non dico astutissimi, ma dotati almeno di due once di furbizia, si potrebbe ipotizzare che i dirigenti del Pd non assumano posizione netta e inflessibile sull’anno di reclusione che tocca a Silvio Berlusconi per il timore di ritrovarselo tra i piedi, fra un anno, con l’aureola del martire che esca da San Vittore per essere portato in spalla direttamente a Palazzo Chigi. Si potrebbe ipotizzare che al pensiero delle sue Lettere dal carcere pubblicate ogni giorno sui giornali del centrodestra, e lette quotidianamente da Remo Girone su tutte le reti Mediaset, per essere poi raccolte in un volume della Mondadori ed essere inviato a venti milioni di famiglie, abbiano fatto due più due, e deciso di non ficcargli addosso i panni del perseguitato politico.
Il fatto è che invece sono, non dico stupidi, ma irrimediabilmente cretini, e non di quella candida cretinaggine che è dei poveri di spirito, che qui in terra sono destinati a pigliarlo in culo, ma almeno poi andranno dritti dritti in paradiso, no, piuttosto della patetica fessaggine di chi si pensa furbo di sei spanne sopra ai più furbi. Basta guardarli, non ce nè uno che a levargli spocchia e stipendio sappia pisciare a un palmo dalla punta dei propri mocassini.
La legge è uguale per tutti, ci mancherebbe altro, ma pensano che il concetto debba essere spiegato al condannato con delicatezza, sennò quello s’incazza e fa cadere il governo. In galera, no, ci mancherebbe altro, può starsene in uno dei suoi villoni, sennò può optare per i servizi sociali, chessò potrebbe fare l’archivista della Fondazione Magna Carta, giusto il tempo di dar modo al Quirinale di esaminare la domanda di grazia, mentre d’intanto il governo lima del necessario la legge Severino, ma poi non è detto che unamnistia... Le carceri sono già sovraffollate, vorremmo mica ficcarci dentro pure uno tanto ingombrante?
Cretini, irrimediabilmente cretini: è da vent’anni che li fotte coi suoi bluff, e ancora non hanno capito con chi hanno a che fare, ancora pensano che lo si possa logorare, ancora non hanno capito che se li metterà in saccoccia pure dopo che sarà morto. 

domenica 18 agosto 2013

I referendum «initially sponsored by Radical party» («Strumento di democrazia diretta» / 3)

Oltre a quelli già presi in considerazione (1, 2), Arturo Labriola ha un ultimo argomento contro l’istituto referendario, che, se sul piano teorico è assai meno forte rispetto agli altri, ha unindubbia efficacia su quello pratico, traendola dall’evidenza piana, sulla quale d’altronde ci siamo già soffermati, che nella singola consultazione referendaria «ogni giudizio di insieme sfugge», e non può che sfuggire, perché l’elettore «non esamina i motivi che hanno determinato la proposta» o, per meglio dire, su essi non può esprimere un parere che connoti il valore della scelta nell’ambito in cui essa è agita, ma neanche – abbiamo visto – nell’ambito in cui essa è agente: di là dal quesito posto e dall’esito della consultazione, sostiene Labriola, un referendum trascende sempre il contesto generale entro il quale la questione che solleva si è venuta a porre, quindi non si fa carico delle questioni di opportunità che sono implicitate dal quadro politico generale, e che ne connotano i tratti.
In altri termini – e qui mi auguro di non complicare troppo le cose nel tentativo di semplificarle – la questione sollevata dal referendum ha sempre, almeno in potenza, i caratteri di un segmento disarticolato rispetto al progetto che si presume lo includa: di là dal quesito posto e dall’esito della consultazione, gli effetti generati da una consultazione referendaria, talvolta ben prima che sia dato il risultato, sfuggono ai fini posti. Non solo, si badi bene, perché Labriola ritiene «inutile o dannoso» quanto è prodotto da un qualsivoglia strumento di democrazia diretta, ma anche perché sostiene che, quando «la mozione presentata si giudica per ciò che appare»leterogenesi dei fini è la regola.

Se anche così le ragioni di Labriola rimangono poco chiare o comunque poco convincenti, non resta che ricorrere a un esempio. Suppongo sappiate che i radicali stanno raccogliendo le firme per dodici referendum. Si tratta di due pacchetti tematici (Cambiamo noi e Giustizia giusta) di sei quesiti ciascuno. Abrogazione del reato di clandestinità, divorzio breve, libertà di scelta nella destinazione dell’8xmille, abolizione della carcerazione per fatti di lieve entità relativi alla normativa sugli stupefacenti e abolizione del finanziamento pubblico ai partiti politici sono i sei quesiti del primo pacchetto, promosso da un comitato che ha trovato impulso dall’iniziativa politica di Radicali italiani, uno dei soggetti della cosiddetta «galassia». Il percorso che ha portato alla decisione di indire questi sei referendum è estremamente complicato, come d’altronde lo è tutto ciò che riguarda i radicali. Possiamo risparmiarci i dettagli, ma è importante rimarcare un dato: Marco Pannella non li voleva, e per molteplici ragioni.
In primo luogo, perché desiderava che le già esigue forze dell’area non fossero disperse per altri fini che la battaglia per l’amnistia: in pratica, temeva – e a ragione, come al momento dimostrano i risultati parziali della raccolta delle firme – che l’impresa corresse il rischio di andare incontro a un fallimento, con ovvie ripercussioni negative in termini di immagine del movimento, già ampiamente logorata dalle scelte ambigue e contraddittorie che ne hanno segnato il percorso negli ultimi vent’anni.
In secondo luogo, le questioni sollevate da questi sei referendum «guardano a sinistra», e Pannella sa bene che una qualsiasi intesa dell’area radicale con la sinistra, di cui la campagna referendaria Cambiamo noi possa essere occasione, non può realizzarsi senza un drastico ridimensionamento della sua leadership, per lasciar spazio – anche solo un po’ di spazio – a chi da anni, contro la sua volontà, lavora in questo senso.
Visto che i sei referendum prendevano la loro via, la sua contromossa è stata la presentazione degli altri sei quesiti referendari (separazione delle carriere in magistratura, abolizione dell’ergastolo, limiti all’istituto della custodia cautelare, responsabilità civile dei magistrati e rientro di quelli fuori ruolo nelle loro funzioni). Temi che «guardano a destra», bilanciando gli altri sei, e dunque neutralizzandone i potenziali «effetti indesiderati» sul piano della costruzione di eventuali alleanze politiche a sinistra. Di fatto, l’appoggio che poteva venire dalla sinistra al primo pacchetto referendario è andato riducendosi via via che a destra andava maturando, anche se in modo surrettizio e con evidenti fini strumentali, l’appoggio al secondo. È così che per un osservatore neutro come il Financial Times i referendum «initially sponsored by Radical party» sono diventati i punti di una «reform of the Italian justice system» voluta dal Pdl.

È che, nel loro insieme, i dodici quesiti sono coerenti solo al di fuori di ogni logica di opportunità che sinistra e destra sono tenute a osservare nella corrente serie di contingenze che caratterizzano l’attuale quadro politico: se mai si riuscisse a raccogliere per tutti e dodici le firme necessarie, se tutti e dodici superassero il vaglio della Corte Costituzionale, se per tutti e dodici si avesse un responso positivo dalle urne e se quanto abrogano delle vigenti normative non trovasse modo di rientrare dalla finestra dopo essere uscito dalla porta – ipotesi del tutto aleatorie, anche senza voler recepire gli argomenti di Labriola, che peraltro trovano rispondenza in ciò che è accaduto per tanti esiti referendari in Italia – ci troveremmo dinanzi a dodici segmenti di un programma liberale. Continuerebbero a non avere l’articolazione che è propria di un programma, ma non perderebbero coerenza. Di fatto, sono nati per opportunità incoerenti tra di loro e ne pagano le conseguenze sul piano delle opposte opportunità che incontrano nellodierno quadro politico italiano.
Conviene firmarli? Se si è ingenui, sì, tutti. Se si è cinici, solo alcuni. In entrambi i casi, si sarà data ragione a Labriola. Anche senza averne coscienza.    

sabato 10 agosto 2013

Mario Rossi? Giuseppe Verdi?


Tommaso Labate ci offre l’occasione di affrontare una questione assai delicata sul piano morale, per certi versi affine a quella che si pone quando muore un pezzo di merda: rimane il pezzo di merda che era o si deve chiudere un occhio, cioè una narice? Se in quel caso pare debba prevalere il «nisi bonum de mortuis», qui Labate sembra voglia consigliarci la solidarietà umana nei confronti del condannato, anche quando la condanna sia per reati abietti. E non si limita a dissuaderci dal maramaldeggiare, sia chiaro, ci suggerisce proprio la solidarietà umana o, in subordine, un po’ d’indulgenza alla sua solidarietà umana nei confronti del pezzo di merda.
«Dalle parti mie – scrive – c’era tanti anni fa un uomo molto potente e in odore di massoneria. Un uomo perennemente circondato da un inimmaginabile codazzo di gente, gente povera e gente ricchissima, a cui verosimilmente elargiva nel primo caso elemosine, nel secondo favori un po’ più consistenti». Qui è opportuno fermarci un attimo per cercare di dare contorni più netti a questo personaggio. Labate è nato nel 1979 a Marina di Gioiosa Jonica, un paesino di poco più di 6.000 anime, in provincia di Reggio Calabria, che da almeno 40 anni è in mano a due ’ndrine, quella dei Mazzaferro e quella degli Aquino, che si contendono da sempre, a suon di morti ammazzati, un imponente giro di malaffare (estorsione, usura e traffico di stupefacenti) con tentacoli ben radicati in Lombardia, in Liguria, in Germania e in Belgio. Che tipo di profilo assume, in un contesto del genere, un personaggio descritto come «un uomo molto potente»? È azzardato dedurre che si trattasse di Vincenzo Mazzaferro o di Salvatore Aquino? E perché Labate dice che era «in odore di massoneria» e non fa alcun cenno alla ’ndrangheta? Una mezza idea ce l’ho, ma la esporrò alla fine, d’intanto chiariamo che tra esponenti della famiglia Mazzaferro e la massoneria deviata sono documentati legami tra gli ultimi anni ’80 e gran parte degli anni ’90.
«Ero bambino – prosegue Labate – ma ricordo come se fosse oggi il disprezzo, il distacco umano e la profonda antipatia che mio padre nutriva nei confronti di questa persona. Come a dire, “neanche un caffè”. Una volta, però, questo signore finì in una clamorosa inchiesta della magistratura che ne azzerò in un colpo solo la mastodontica corte di leccapiedi e pure il potere». Si tratta dell’operazione «Leopardo» (1992) o dell’operazione «Fiori della notte di San Vito» (1994)? Non ha importanza, in fondo. Proseguiamo nel racconto di Labate: «La sera della prima vigilia di Natale da quel tracollo, ma questo l’avrei saputo dopo, mio papà – che con lui, prima, “neanche un caffè” – comprò una bottiglia di champagne e andò a trovarlo per gli auguri. Immaginava una scena, mio papà. E infatti se la ritrovò davanti proprio come l’aveva pensata. Di fronte a quel portone in cui nelle precedenti vigilie di Natale la gente s’accalcava, non c’era più nessuno. Manco un’anima. Nessuno. Solo mio papà. E la sua bottiglia di champagne. Su quella persona mio papà non ha mai cambiato il suo giudizio precedente. E penso che, dopo quella volta, non si rividero più».
Qui, alla luce di ciò che Labate ha omesso, è superfluo ogni commento. «Non c’era più nessuno», ma in causa si deve chiamare solo l’umana ingratitudine? Nessuna attenuante per l’«inimmaginabile codazzo di gente» che prima circondava l’«uomo molto potente»? Diamo per scontato che tutti sapessero da sempre chi fosse, che genere di affari trattasse, e che solo «mio papà» fosse da sempre riuscito ad avere nei suoi confronti un atteggiamento moralmente ineccepibile: ma fu solo l’umana ingratitudine a fare il deserto «di fronte a quel portone»? Sul piano morale possiamo condannare un cliens che abbia paura di essere considerato socius dalle forze dell’ordine che sorvegliano l’abitazione dell’indagato? Chi può permettersi di andare a stappare una bottiglia di champagne con lui? Solo chi non è mai stato cliens, è evidente. Rimane tuttavia da stabilire se un tal gesto di solidarietà con chi sia caduto in disgrazia possa essere giustificato di là dai motivi che hanno provocato la caduta. «In odore di massoneria», forse. Ma reo di crimini odiosi?
Labate scrive: «Io so che a tutti quelli che certe volte sbarrano gli occhi e mi chiedono “come c...o sei fatto?” e “che cos’hai nella testa?” vorrei raccontare questa storia. Quest’insegnamento che ho preso e che non dimenticherò mai. Questa cosa di mio padre che avrei fatto nello stesso identico modo. E che rifarei di fronte a un portone deserto davanti a cui prima si accalcavano le masse, che rifarei alla vigilia di Natale, che rifarei comprando una bottiglia di champagne, che rifarei pur conservando intatto il giudizio precedente sul Re corrotto e osannato, poi caduto e abbandonato. Che rifarei si chiami esso Mario Rossi, Giuseppe Verdi o Silvio Berlusconi».
Non avevate immaginato dove volesse andare a parare? Siete degli ingenui, bastava sentire come montava il climax. Via, tutti a Palazzo Grazioli, a Natale. Tutti con una bottiglia di champagne. In cambio, poi, Labate ci fa il favore di dirci nome e cognome del tizio col quale brindò suo papà. Era Mario Rossi? Era Giuseppe Verdi? 

venerdì 9 agosto 2013

Antonio Esposito, napoletano

La bassezza morale e intellettuale dei servi di Berlusconi ci offre orrori sempre nuovi. Li abbiamo visti darsi a crisi isteriche ogni volta che veniva resa pubblica una telefonata del loro padrone a questa o a quella mignotta, a questo o a quel magnaccia: si trattava di intercettazioni ordinate dalla magistratura e rese pubbliche dopo essere state messe agli atti, ma il vulnus alla privacy li faceva andare in convulsioni. Fanculo alla privacy, ora. Ora, hanno la registrazione della telefonata intercorsa tra un cronista de Il Mattino e il presidente della sezione della Corte di Cassazione che ha condannato in via definitiva il loro padrone, ed è gara a chi sa spremerne di più.
Registrazione effettuata dal primo ad insaputa del secondo, e della quale è stata resa pubblica solo una parte, quella che avrebbe dovuto dimostrare la fedeltà al testo pubblicato dal giornale di Caltagirone, e che invece ha dimostrato quasi da subito che si era in presenza di una palese manipolazione. Un trappolone nel quale il giudice è caduto assai ingenuamente, niente di più, niente di meno. Ed essendoci davvero poco, praticamente niente, per inficiare la sentenza del 1° agosto, eccoli affannarsi, i servi, sul dialetto di Antonio Esposito, come sul colore dei calzini di Raimondo Mesiano: il giudice e il giornalista si conoscono da oltre trent’anni, sono entrambi di Napoli, ma il fatto che la telefonata sia in napoletano è occasione di un vero e proprio processo pubblico.
«Non badiamo ai contenuti, teniamoci alla forma», scrive Annalisa Chirico in una lettera a Il Foglio, con ciò palesando che la telefonata può al massimo tornare utile per una character assassination. «La forma è francamente imbarazzante», scrive la Chirico. Scrive che «quella cadenza va ben olre l’elegante e sanguigna inflessione del fior fiore dell’intellighenzia campana» e che «in quel goffo e involuto eloquio non vi è traccia dell’accento di un non meno partenopeo Gaetano Filangieri o Giambattista Vico». Chissà come può esserne così sicura, visto il Filangieri e il Vico non ci hanno lasciato neanche un file audio. Ma è che stigmatizzare l’uso del dialetto senza salvare il dialetto in sé le avrebbe fatto correre il rischio di sembrare un tantinello razzista, e non sia mai, meglio arrampicarsi sul ridicolo: la signorina ha prova che il Filangieri e il Vico avevano tuttaltro accento, informatene lAccademia di Glottologia.
Il dialetto di Antonio Esposito, al parere della improvvisata linguista (sia detto senza doppio senso), somiglia piuttosto a quello di Felice Caccamo, la celebre maschera napoletana interpretata da Teo Teocoli. È chiaro che a condannare in via definitiva il datore di lavoro della Chirico, che per inciso lavora per Panorama ed è stata la starlette dell’happening fogliante «Siamo tutti puttane», non è stato un giudice, ma una macchietta.
Sedicente liberale, la Chirico, ma Gaetano Salvemini ci ha avvisati: «A chiamarvi liberale correte il rischio di vedervi confuso con certa gente con cui non vorreste avere nulla da fare neanche se il loro aiuto dovesse scamparvi dalla morte» (Italia scombinata, Einaudi 1959). 

martedì 6 agosto 2013

[...]

La Corte di Cassazione si pronuncia sulla legittimità e non sul merito di una sentenza. Silvio Berlusconi «sapeva» o «non poteva non sapere»? È questione che attiene al merito e le motivazioni della sentenza di primo grado, del tutto recepite da quelle della condanna in appello, dicono: «Sapeva». Pag. 91, 2° capoverso: «Vi è la piena prova, orale e documentale, che Berlusconi abbia direttamente gestito, ecc.». Stessa pagina, dal 6° all’8° capoverso: «Berlusconi rimane al vertice della gestione dei diritti, posto che, come ha dichiarato il teste Tatò, Bernasconi rispondeva a Berlusconi senza nemmeno passare per il C.d.A. e nessuno ha riferito che tra Bernasconi e Berlusconi vi fosse un altro soggetto con poteri decisionali nel settore dei diritti, neppure dopo la quotazione in borsa e la c.d. “discesa in campo” di Berlusconi. Lo stesso ha dichiarato il teste Tronconi. Inoltre Berlusconi aveva rapporti diretti con Lorenzano, che operava a fianco di Agrama e Cuomo, come risulta dalla deposizione di vari testi che hanno riferito di incontri tra i due che non potevano che riguardare questioni attinenti ai diritti». Tizio, Caio, Sempronio… Ben più che prova logica, dunque. Ma tutto questo, dicevamo, attiene al merito.
È del tutto pacifico, dunque, che, quando il presidente della sezione della Corte di Cassazione che ha rigettato il ricorso presentato dai difensori di Berlusconi si intrattiene al telefono col giornalista de Il Mattino sul merito, non sta parlando della sentenza che ha pronunciato il 1° agosto, ma delle due che l’hanno preceduta in primo e in secondo grado: in pratica, non c’è neppure la possibilità che in qualche modo la infici palesando un qualche vizio di pregiudiziale parzialità. Probabilmente avrebbe fatto meglio a non concedere l’intervista per non prestarsi alle polemiche, che non era difficile prevedere sarebbero esplose comunque, qualunque cosa avesse detto, ma il tono colloquiale e assai poco formale col quale si intrattiene con chi lo intervista è prova che sul punto sia stato guidato con malizia.  


La supercazzola del katechon

Krisis, Dallo Steinhof, Feuerbach contro Agostino d’Ippona, Icone della legge, L’Angelo necessario, Dell’Inizio, L’Arcipelago, Della cosa ultima… Ho letto una dozzina di volumi di Massimo Cacciari, senza però mai trovarci niente di speciale, null’altro che glosse di glosse, ma questo probabilmente è dovuto solo ai miei limiti, e mi sono fermato a Tre icone, che è del 2007, abbandonato ogni volta che provavo a riaprirlo, ogni volta dopo poche pagine: non riuscivo a concentrarmi sul filosofo, mi era impossibile prescindere dalle sue comparsate televisive, di regola degeneranti in risse. Leggevo, ma mi tornava in mente «quella volta che a Ottoemezzo…», «quella volta che a Servizio pubblico…», e mi veniva da ridere, e non riuscivo a proseguire: mi sembrava più serio il Massimo Cacciari di Maurizio Blondet che quello originale. È così che qualche mese fa, in un momento di uggia, ho deciso di comprare il suo ultimo volume, Il potere che frena (Adelphi 2013), giusto per tirarmi un po’ su. Sarà che l’uggia era leggera, ma ho cominciato a ridere da subito, appena ho letto il titolo del primo capitolo: Il problema della teologia politica.
Ora, se il mio lettore è del tutto a digiuno sulla questione, converrà dire che di teologia politica si parla da un bel po’ di tempo, ma senza che si sia mai trovato accordo su cosa sia esattamente. Politica della teologia? Teologia della politica? Né l’una, né l’altra cosa, né entrambe. Cioè, per meglio dire, entrambe, forse sì, ma in misura anche sensibilmente diversa da autore ad autore: una storia semasiologica, quella della teologia politica, che sembra fatta apposta per tenderci tranelli ad ogni passo. Parliamo della possibilità di trattare razionalmente il fondamento trascendente della relazione che in senso lato chiameremmo politica, e senza il quale la relazione stessa è persa? O piuttosto parliamo della cogenza che fa del numinoso un evento necessariamente immanente, sennò insignificante per pletora di significati? Non si sa. Koselleck non si sbilancia, Ritter dice e non dice, Metz non nega e non afferma. Certo, per teologia politica non è da intendersi la theologia politike di cui parla Agostino nel De Civitate Dei, e tuttavia è proprio da lì che prende inizio la discussione intorno al katechon, che sembra stare al centro della questione, almeno per come è stata riformulata ai nostri giorni, meno di cent’anni fa, da Carl Schmitt (Nomos der Erde).
Nell’illustrarla torna utile Roberto Esposito: sei o sette paginette (Due, Einaudi 2013 – pagg. 83-89) che valgono assai più delle 217 di Massimo Cacciari, 70 delle quali, però, sono preziose, perché raccolgono i commenti, da Ireneo a Calvino, sull’enigmatico riferimento di Paolo (2 Ts 2, 1-12) al «potere che frena». Rovello di titani, non è per dire, ma in tutti viene meno la più banale delle considerazioni: le lettere di Paolo erano indirizzate a illetterati, erano bollettini propagandistici nei quali un termine oscuro o ambiguo poteva tornare buono proprio perché oscuro o ambiguo. La comunità cristiana di Tessalonica smaniava perché sentiva prossima la fine dei tempi, che ovviamente era destinata a farsi attendere, e voilà, da genio, Paolo se ne esce con la supercazzola della dilazione che verrà meno «a suo tempo», e che accadrà ognun lo dice, ma cosa sia nessun lo sa. Si dirà che è l’impero romano, che poi cade, ma l’Anticristo non arriva. E allora unaltra supercazzola: il katechon è la Chiesa. Ma poi la secolarizzazione fa alla Chiesa più di quanto Odoacre riesca a fare all’impero romano, e allora c’è bisogno di un’altra supercazzola: il katechon è l’amministrazione corrente, lo Stato laico. Sempre katechon rimane, ma con scappellamento a destra.    

«Guerra civile»



«Ne cherchez jamais à faire autre chose que l’opéra buffa, ce serait forcer votre destinée que de voulir réussir dans un autre genre… L’opéra seria, cela n’est pas la nature des Italiens». Non è certo che Beethoven abbia detto proprio così a Rossini (pare che le memorie di Edmond Michotte siano un po’ romanzate), ma ogni volta che sento parlare di «guerra civile» in Italia – e ultimamente se ne riparla, anche con qualche compiaciuta insistenza – penso che le cose stiano proprio a questo modo: il dramma non è categoria che si attaglia a les Italiens, siamo plebe che dà il meglio di sé quasi esclusivamente nella farsa.
Sarà che hanno tutte carattere esogeno, le «guerre civili» che si sono combattute in Italia, almeno così dice Virgilio Ilari (Guerra civile, Ideazione editrice 2001), e argomenta in modo convincente. D’altra parte non è fine darne una ragione appellandosi al «carattere nazionale», o comunque non è scientifico (se vogliamo difendere la dignità di scienza che in tanti negano alla storia), peggio ancora tirare in ballo la «destinée» (il revival spengleriano si è esaurito già da anni).
Niente, siamo costretti a sentirci dire che c’è in atto una «guerra civile» – la recrudescenza di una antica «guerra civile», per meglio dire – e in scena sfilano solo maschere grottesche, caricature belliche, grugni feroci che vorrei vederli a tentare quello che minacciano: un ceffone, e Brunetta comincia a strepitare «mamma, mammina, m’han fatto la bua!»; alla prima raffica di mitra al polpastrello della Santanché viene la vescichetta, se non si spezza l’unghia o l’intonaco del soffito non la seppellisce; Verdini e Capezzone si arrendono al primo attacco; Schifani sviene prima; Cicchitto somatizza e corre al cesso; finisce che il vero eroe sarà il barboncino, che abbaierà fino alla fine (sull’elicottero non c’era posto, e pure la Pascale l’ha trovato a stento, ché come fidanzata del satiro che è riuscito a mettere la testa a posto già non serviva più da mesi).
Non che nel campo avverso spicchi un Cuordileone. Ma ve lo immaginate Civati sulle barricate? E Scalfarotto? Roba di carta, la «guerra civile».

[...]    

«Non è un addio», ho scritto al cosiddetto «passo indietro» che Berlusconi fece il 25 ottobre dell’anno scorso. «Non è un addio e non è neppure una rinuncia alla leadership, ma solo l’annuncio che la eserciterà in modo obliquo, perciò ancor più spregiudicatamente, se possibile»; e concludevo: «Rimango dell’idea che ho ripetutamente espresso su queste pagine: era necessaria la sua eliminazione fisica, ora è troppo tardi». Nel caso ci fosse stato un rischio reale di «guerra civile», ovviamente, ma non c’è mai stato, dunque non è mai stato necessario toglierlo di mezzo. Un treppiede, una statuina del Duomo di Milano, ma in fondo erano gesti di affetto. Era in programma la farsa, l’opera buffa che va in scena in questi giorni, non potevamo perdere un protagonista, il protagonista. Ma dobbiamo crederci: dobbiamo credere che questa sia davvero una cruenta faida fratricida, sennò ci scapperebbe da ridere.