giovedì 13 giugno 2013

«Ce ne andremo»

Il caso esplose per un’affermazione fatta da @ferrarailgrasso nel corso di una trasmissione diretta da @ementana: «La mafia – aveva detto – è l’essenza della Sicilia». Il primo fu subito fatto oggetto di commenti assai risentiti, e qualcuno arrivò agli insulti, che in breve piovvero anche sul secondo, per averglielo lasciato dire, e per aver preso le sue difese. Mentre @ferrarailgrasso prendeva a gongolare, @ementana lamentava: «Il numero di tizi che si esaltano a offendere su Twitter è in continua crescita». E aggiungeva: «Calmi, tra poco ce ne andremo, così v’insulterete tra di voi». E così fu, perché nel rapido volgere di una mezz’ora decise di dare «un saluto finale a tutti», e qualche giorno dopo chiuse l’account. Una perdita che lasciò un vuoto enorme, ci sono follower che ancora non sanno darsi pace.
Non mi era chiaro chi fosse il «noi» di quel «ce ne andremo», avevo solo una mezza idea. Non era un plurale majestatis, innanzitutto. E non significava «io e @ferrarailgrasso», d’altronde sarebbe stato fuori luogo esprimersi anche a suo nome per una decisione tutto sommato impegnativa sul piano personale. No, il «noi» significava «noi vip», «noi che, pur avendo occasioni privilegiate per esprimere opinioni e potendo fare a meno di porci il problema se e quanto siano condivise, non ci sottraiamo al confronto con chi vuole interloquire, fosse pure per sollevare obiezioni». Era solo un’ipotesi, ripeto, e non avevo elementi significativi per supportarla. E tuttavia quel «ce ne andremo» non suggeriva un dolente ritrarsi come per la cocente delusione data da una dura prova di immeritata ingratitudine? Mi sembrava di sentirci dentro un «così ingenerosamente ci ripaghi, o volgo, della confidenza che ti abbiamo concesso?».

Il volgo, si sa, è carogna e oggi potrebbe chiedergli coerenza: «Dopo la camionata di merda che ieri sera Giuliano Ferrara ti ha scaricato addosso, lascerai pure la tv? O ti limiterai a non condurre più talk show? O almeno eviterai di invitare Giuliano Ferrara nelle trasmissioni che condurrai di qui in poi?». Sarà carogna, il volgo, ma ha pure poco sale in zucca. D’altronde, in tutte le occasioni che poco più di un mese fa gli furono offerte per spiegare le ragioni della decisione di abbandonare Twitter, Enrico Mentana non disse che non erano stati gli insulti in sé a ferirlo, ma il fatto che in gran parte fossero anonimi? Non era vero, perché la gran parte dei follower che lo avevano fatto oggetto di insolenze e di offese non avevano twittato celandosi dietro un nickname, e comunque già allora non sembrava affatto una spiegazione convincente, perché per risalire al nome e al cognome di chi ti insulta sul web, vere o false che siano le generalità dichiarate, ci vuole poco o niente, basta volerlo. Basta volerlo e puoi bloccarlo.
Adesso, però, nella certezza che quanto è accaduto ieri sera non lo spingerà ad alcuna decisione fatale come quella di un mese fa, è finalmente chiaro cosa intendesse, allora, per anonimato e quale linea marcasse rispetto al volgo: l’anonimo, per Enrico Mentana, non è il tizio del quale non puoi sapere nome e cognome, ma il tizio il cui nome e cognome non hanno alcuna notorietà, il tizio qualsiasi.
Concludendo, quel «tra poco ce ne andremo, così v’insulterete tra di voi», sottintendeva: «ce ne andremo dove gli insulti sono tollerabili perché scambiati tra pari». L’intollerabile è che lo stesso insulto che ti rivolge Giuliano Ferrara ti sia rivolto da uno qualsiasi. E qui, allora, occorre sollevare una questione un po’ più generale.

Ma un vip che twitta (che ha un blog aperto a commenti, che apre una pagina su Facebook, ecc.) – esattamente – cosa vuole? Che cerca? In altri termini: cosa muove uno scrittore, un attore, un politico, un giornalista, un cantante ad offrirsi, almeno nelle intenzioni, all’interlocuzione sul web?
Andiamo per esclusione. Un vip non dovrebbe essere affetto dalla smania che consuma il volgo alla disperata ricerca di un’occasione per affiorare con la punta del naso dall’anonimato – chissà perché, poi, così spesso dietro un nickname – e per dar sfogo in questo modo a frustrazioni di ogni sorta. Tanto meno mancano occasioni di socializzare, al vip, anzi, quasi sempre ne ha di eccezionali, quantitativamente e qualitativamente. Insomma, non twitta per vincere la solitudine. Né lo fa perché gli mancano opportunità di comunicare: a differenza di chi ha solo il web per aprir bocca, a uno scrittore, a un attore, a un politico, a un giornalista, a un cantante sono offerte di continuo mille occasioni per esprimere opinioni e giudizi.
E allora? Cos’è che spinge un vip a darsi pubblicamente, oltre che in cambio di un compenso, anche a gratis? Dalla prontezza a retwittare ogni complimento a loro indirizzato – ogni dichiarazione di stima o di simpatia, ogni dimostrazione di ammirazione o di affetto – si potrebbe supporre sia per vanità, ipotesi che non vacilla neppure al constatare che spesso i vip retwittano anche gli insulti ricevuti, perché si sa che i meccanismi della vanità spesso sono perversi.
Ma la conferma che il vip frequenta i social network per mera ingordigia di attenzioni, travestita però da quel bisogno di contatto col pubblico che fa tanto democratico e alla mano, e che perciò è un efficace strumento di autopromozione professionale, oltre che di fidelizzazione dei fan, la troviamo proprio in Enrico Mentana (Corriere della Sera, 12.5.2013). «Leggersi e scriversi tra amici e colleghi» non gli bastava. Comunicare a «sconosciuti senza volto» gli dava un senso di «solitudine». In Twitter trovava «uno strumento efficace di confronto, di ascolto, di informazione», che gli ha dato modo di incontrare «tanta gente che ha voglia e argomenti, che vuol sapere, capire, comunicare». Poi, all’improvviso, ha scoperto che ci sono pure quelli che «lo usano per attaccar briga o insultare o sfogarsi col primo che capita a tiro», vili che si nascondono dietro «lo pseudonimo col quale firmano le loro ribalderie», «minoranza rumorosa, impegnata nella diffusione di una regressiva volgarità e nelle scorribande alla ricerca del bersaglio di turno da demolire», che quasi sempre è un vip, perché, «come ha scritto ieri Roberto Saviano su la Repubblica, “in realtà l’insultatore vuole vivere della luce riflessa dell’insultato”».

Tutto vero, probabilmente. Anzi, diciamo che è tutto vero e basta, senza il probabilmente. Diciamo pure che è tutto vero e non è affatto bello. Aggiungiamo pure che chiunque si senta offeso può denunciare  l’offesa. Ma il vittimismo, come di chi lamenti un torto che non ferisce la dignità di una persona ma l’autorevolezza di un personaggio, anzi, più la seconda che la prima, ritengo sia altrettanto intollerabile. Chi ha una torre davorio vi stia rintanato e si limiti a sguinzagliare i mastini se qualche scostumato lancia i sassi contro le finestre. Se decide di uscire per fare due passi, sappia che a tutela delle offese alla sua persona non ha, né può pretendere, nientaltro che la legge uguale per tutti. 

1 commento:

  1. Quando bazzicavo la politica, c'era il consulente di un assessorato che si rivolgeva all'interlocutore dicendo: "noi". "Noi" chi?, mi chiedevo tspino, mentre cercavo di comprender se fosse un pronome plurale riferito - che so - a "noi, che lavoriamo per il Comune", oppure a "noi, i consulenti prezzolati", oppure a " noi, gli amici dei potenti", o a chissà chi altro. Un bel giorno il consulente, a causa di enormi errori con dannose conseguenze erariali, perse l'incarico, e la prese male male male. Minacciò, querelò, arringò: iniziando sempre le frasi con quel "noi". Fu allora chiaro che il pronome non alludeva a collettivi: era lui ad essere,semplicemente, fuori di testa. Non so perchè, ma il Suo interessante scritto me l'ha riportato in mente. Stia bene, sempre utile passar di qui.
    Ghino la Ganga

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