martedì 30 novembre 2010

“Nessuno si suicida a 95 anni”


Avevo capito “Umberto” invece di “Giovanni” e mi ero assai stupito di una affermazione tanto imbecille: “Nessuno si suicida a 95 anni”. Un medico dovrebbe sapere – mi son detto – che non c’è età alla quale sia sopportabile un solo attimo in più di una vita davvero considerata insopportabile: che cazzo dice, Veronesi? Come può cedere, anche lui, a questo festival della costernazione dinanzi al suicidio? Perché non tace, se deve dire stronzate?
Non si trattava del venerabile oncologo – in cuor mio gli ho chiesto scusa per il solo averlo pensato possibile – ma del regista: tanto per intenderci, quello di Per amore, solo per amore (1993) e dei Manuale d’amore 1 (2005), 2 (2007) e 3 (2011). [Una di queste volte devo farmi spiegare da qualche esperto del ramo come un regista possa mettere nella sua filmografia un titolo che uscirà l’anno dopo. Esclude possa avere ripensamenti e metterci un anno in più prima di farlo uscire? Lo fa uscire comunque, anche se ha ripensamenti? E che tipo di cinema è? Che genere di regista è un regista del genere?]. Bene, tenuto conto del fatto che non l’aveva detta Umberto, ma Giovanni Veronesi, la cosa ci stava: ho ritirato lo stupore.
Poi però ho pensato a Rudolf Hess, suicida a 93 anni. Vuoi vedere – mi son detto – che devo in cuor mio scusarmi pure col signor regista, che intendeva solo dare a Monicelli il dovuto riconoscimento del record strappato a Hess? Scherzo, ovviamente: “nessuno si suicida a 95 anni” è frase così scema che non può essere troppo studiata, non fino a tanto.

A pensarci, però, meglio un commento cretino come quello di Giovanni Veronesi che quelli di chi è convinto che, a fargli una visita in ospedale, Monicelli avrebbe trovato una gran gioia di vivere. Chi si pente di averlo lasciato pranzare da solo, chi rimpiange di non avergli cambiato la busta al catetere. Siamo al solito voler bene appiccicoso di chi si crede indispensabile: dai, aspetta, adesso ti sorriso, così ti passa la voglia di buttarti di sotto. Ti sto dando tutto il mio calore umano, come non può darti ragione di vita? C’è arroganza in ogni tipo di pro life.


Machiavelli's wikileak



“Sia chiaro: i consigli che il Segretario della Repubblica di Firenze dedicava al Principe in verità non sono a lui diretti, ma alla popolazione intera” (Vieni via con me – Raitre, 29.11.2010).

Dario Fo prende per buona la tesi del Foscolo: Machiavelli scrive un trattatello sul potere per denunciare pubblicamente “di che lagrime grondi e di che sangue”. Non si tratterebbe di un manuale per la presa ed il mantenimento del potere “habb[endo] nelle cose a vedere il fine e non il mezzo”, ma di una deliberata wikileak, una studiata fuga di notizie riservate che un diplomatico in disarmo decide tra una partitella a carte in osteria e un attacco di gastrite, allo scopo di sensibilizzare l’opinione pubblica sulla reale natura del potere. Dario Fo come Assange, Machiavelli la sua talpa. Inutile dire che la tesi del Foscolo è stata largamente smentita, e che Machiavelli va messo con Hobbes e Schmitt, non con Montesquieu e Swift.
Non si poteva presentare il pezzo senza la premessa foscoliana? Che male c’era a presentare Machiavelli per quello che era? Un Grande Italiano, senza dubbio, ma gli italiani erano e sono come lui: pessimisti, molto amorali e un po’ fatalisti.
Non sarebbe stato allegro leggere Il Principe per quello che è, si correva il rischio di dare i brividi al pubblico di Raitre: ecco il Machiavelli di Dario Fo, allora, una specie di Kissinger passato al nemico che pubblica tutti i suoi carteggi con la Casa Bianca. E lì che amare risate su Nixon, su Carter, su Ford.

“Acqua naturale o gassata?”


Sull’ultimo numero di Internazionale (874/XVIII – pagg. 48-53) vi è un’intervista ad Hans Magnus Enzensberger di Moritz von Uslar per Die Zeit (trad. dal ted. di Anna Zulliani) che mi ha irritato enormemente. Penso che non sia necessario dire chi sia Enzensberger, e qui nemmeno ha tanta importanza, perché ho intenzione di soffermarmi su von Uslar e sul suo modo di intervistare. Pare faccia sempre così, come ha fatto con Enzensberger, che evidentemente sapeva che tipo di intervista lo aspettava, e ha accettato. [Lo sapeva perché le 100 Fragen di von Uslar sono su ogni numero di Die Zeit, e si tratta di 100 domande (99 quelle fatte a Enzensberger) a cazzo di cane, sul tutto e sul niente, di quelle che si trovano nei questionari diagnostici dei neurologi e di quelle che si rivolgono agli oracoli, di quelle che si fanno per attaccare bottone in treno e di quelle che ti farebbe un Gigi Marzullo. E Enzensberger, dicevamo, ha accettato. Da oggi in poi io leverei quel Magnus.]
“Acqua naturale o gassata? Dov’è New York? Quando ci saranno le prossime elezioni? Fa sempre più caldo o ce lo immaginiamo noi? Qual è la differenza tra una bella cravatta in lana e una cravatta molto bella? Come va la schiena?...”. Le domande delle cento pistole della Bignardi o il giochino della torre di Sabelli Fioretti diventano alto giornalismo, al confronto. Se non sai chi è Enzensberger, non te ne fai un’idea; se sai chi è, le risposte possono sembrare sue – perché no? – ma anche di chiunque altro. Perché un’intervista del genere?Non dà un ritratto dell’intervistato, né dà una particolare visibilità all’intervistatore: è solo un compiaciuto darsi a un formato.

lunedì 29 novembre 2010

Il Sottosegretario alla Salute incontra il Papa


“Il Papa l’ha ringraziata per il suo lavoro in politica, in difesa della vita e della famiglia, e l’ha incoraggiata ad andare avanti. E lei ha risposto che il coraggio le veniva da lui, dal Papa, e che era lei, quindi, che lo doveva ringraziare!!! Quando me l’ha raccontato era ancora molto commossa”



Non la trovo cosa carina


È mia abitudine dare uno sguardo ai blog che hanno linkato lo stesso articolo dal quale ho preso spunto per un mio post, lo faccio per controllare se per caso ho preso qualche abbaglio, e oggi è stato il caso di quello che Maurizio Molinari ha firmato ieri per La Stampa (“Eletto Ratzinger gli americani sono sotto choc”). Scopro che l’ha citato pure, fra gli altri, Paolo Rodari, vaticanista de Il Foglio, che così commenta: “Si capisce bene come i diplomatici Usa (e le loro fonti in Vaticano) si basassero per le proprie previsioni esclusivamente sulla lettura dei giornali senza alcuna capacità di andare oltre le aspettative di questi”. Può anche andare: considerazione banale, ma può andare.
Quello che non va è che fra i commenti trovo un certo T. Harver che accusa Rodari di aver copia-incollato da un post de Il Sismografo nove decimi di ciò che ha scritto. Vado a controllare ed è proprio così. Ciò che però è davvero notevole sta nella risposta di Rodari: “E allora? Io cito chi voglio e quando voglio”. Tanto notevole che mi sento in dovere di dire la mia: “Gentile Rodari, forse T. Harver intendeva dire che è scorretto farlo senza virgolettare e senza citare la fonte”. Bene, passano alcune ore e i tre commenti spariscono. Non la trovo cosa carina, ecco.


Aggiornamento Rodari ritiene opportuna una spiegazione (troppo onore, troppo onore), che però non convince: perché cancellare il commento di T. Harver? Tuttavia ammette: “Tutta la prima parte del post l’ho copincollata dal sito Il Sismografo. L’ho fatto perché mi sembrava una buona sintesi. Capita che a volte prendo pezzi da agenzie o da altri siti. Se sono esaurienti mi fanno guadagnare tanto tempo. Non sempre cito la fonte”. Ecco, vergogna.

A quell’Assange dovrebbero fare una statua


Niente di sconvolgente in quanto è ora rivelato grazie a Wikileaks, niente che non fosse stato almeno ipotizzato in questo o in quel retroscena. La sorpresa sta nel constatare che molto corrisponde alle ipotesi che avremmo definito poco verosimili perché troppo fantasiose. Ma era proprio come diceva quel tale: dietro ai sorrisi di Obama a Berlusconi c’era disprezzo e diffidenza, dietro ai sorrisi di Berlusconi a Putin c’era il business e la joint venture. Era proprio come azzardava chi dietro ai fronti dello scontro di civiltà vedeva lo sfarinamento di religioni e ideologie: la geopolitica più sofisticata sembra andarsene a puttane, trionfa il muoversi a naso in un generale timor panico di pigliarlo in culo. Il mondo sembra scritto da un Dagospia sovranazionale, le potenze mondiali sembrano i baldracconi ingioiellati di Cafonal, tutti sono immortalati mentre si grattano i coglioni o infilano una tartina in bocca.

Niente di sconvolgente, tranne l’amministrazione Bush a cavallo dell’ultimo conclave (ne ha parlato solo Maurizio Molinari, per La Stampa). Passi il non aver nemmeno messo in conto l’elezione di Joseph Ratzinger, quello che sconvolge è come si reagisce al fatto: “Nonostante le speculazioni dei media sul sostegno a Ratzinger da parte di molti cardinali, la sua elezione è stata una sorpresa per molti”, soprattutto per l’osservatore americano di settore, quel tal Brown che “era sotto shock” dopo l’annuncio dell’elezione. Ma non era il papa che la tank di Karl Rove aspettava? All’esportazione della democrazia come miglior prodotto della cristianità non serviva proprio un cappellano militare di quel tipo? Macché. “Chi è vicino al nuovo papa si aspetta un impegno battagliero contro il secolarismo negli Usa e in altre nazioni dell’occidente, assieme alla dovuta attenzione per il mondo in via di sviluppo”, cioè ai nemici naturali del capitalismo. Cosa temere, dunque? L’impegno battagliero contro il secolarismo.
E chi l’avrebbe immaginato. Sapevamo del presidente Bush, di Condy e degli altri a pregare in ginocchio nella Stanza ovale prima di ordinare un bombardamento in Afghanistan o in Iraq e ora scopriamo che erano preghiere di tipacci che avevano a cuore il secolarismo. Al punto che la contrarietà del cardinale Ratzinger all’ingresso della Turchia in Europa pareva già da sola una mezza tragedia e, oplà, appena il cardinale è fatto papa, cambia idea sulla Turchia in Europa. Mentre alla Turchia passa la voglia.

Che mondo straordinario, che meraviglioso guazzabuglio di ipocrisie e goffaggini. Dovrebbero fare una statua a quell’Assange per avercene mostrato un pezzetto.

Elizabeth Dibble



In privato rubacchiava dai miei post, in pubblico da quelli di Jimmomo.

domenica 28 novembre 2010

Il paradigma dell’ateo devoto


Posto che quanto sembra conveniente fino al necessario lo sia in sé, ma che Dio torni conveniente fino al necessario per dargli fondazione trascendente, avere fede non fa troppa differenza col non averla. È il paradigma dell’ateo devoto e possiamo semplificarlo anche in questo modo: Dio non esiste, ma è bene far finta. La finzione può arrivare a rendere del tutto indistinguibile chi crede in Dio da chi non vi crede e, come se il Papa fosse davvero il Vicario del Figlio di Dio, si può arrivare anche a baciargli la mano (e meno male che non s’usa più baciarne la pantofola, sennò l’ateo devoto farebbe pure quello): Dio non esiste, la religione è solo un instrumentum regni, il gesto è puro ossequio conveniente fino al necessario. E però ogni finzione ha un punto debole e lì salta il paradigma: è quando Dio pretende priorità rispetto al fine del quale è stato chiamato a farsi instrumentum.

Il paradigma dell’ateo devoto che s’era preso una sbandata per Joseph Ratzinger salta proprio sul richiamo che Benedetto XVI fa alla priorità di Dio, perché “il discorso razionale resta sullo sfondo ma assume una veste ancillare di difficile comprensione per i laici extra ecclesiam” (Il Foglio, 27.11.2010). Se tra chi crede e chi non crede c’è accordo su quasi tutto ciò che per entrambi è conveniente fino al necessario, perché sostenere che senza Dio tutto cade? Fingere che esista non basta?
Giuliano Ferrara è triste perché il suo Ratzi pretende troppo: “Benedetto conferma nel suo ultimo libro, con la consueta forza argomentativa, il dissenso cristiano da alcuni tratti insopportabili dell’esistenza moderna, ma la ricetta nella sostanza cambia: il teologo e filosofo proponeva che il secolo si comportasse «come se Dio ci fosse» […], mentre il pastore […] oggi si rivolge al suo gregge con un più prudente appello alla fede nel Dio vivente”, e così “le linee del suo insegnamento pastorale perdono in parte quell’attrazione trasgressiva, quel vigore provocatorio e quell’aura di sfida al secolo, sul suo infido terreno, che ci hanno fino a ieri fatto ragionare, magari anche un po’ delirare e, in un certo senso, credere di poter credere”. Un po’ di delirio, ok, ma la conversione, cazzo, è troppo.


[...]




sabato 27 novembre 2010

L’intuizione di Frattini


Il complotto ai danni dell’Italia e la barzelletta sul pollo che attraversa la strada si tengono benissimo, e vi spiego subito il perché.
L’ometto va a un summit del G20. Gli altri 19 sono statisti che la congiuntura mondiale ha reso seriosi e nevrotici, ma il nostro è la quintessenza dell’allegria, è argento vivo, è genio dell’intrattenimento. Cosa meglio di una bella barzelletta per sciogliere l’umor cupo che fa cappa sul vertice? Una botta di buonumore fa bene a tutto, anche all’instabilità dei macrosistemi. Il nostro non è mai stato scoraggiato in tal senso, anzi, spesso abbiamo avuto la sensazione che i suoi interlocutori internazionali lo trovassero simpatico. Ecco, il punto è questo: sarà che abbiamo avuto un’impressione errata. Può darsi che lo trovassero ridicolo e che quella simpatia fosse in realtà compassione.
Non volendo dire: “È imbarazzante”, hanno sempre detto: “È divertente”, o hanno lasciato intenderlo a chi voleva. Questo ha ingenerato un equivoco che ha incoraggiato l’ometto a far sempre di peggio, anche perché incoraggiato da chi gli faceva credere che le relazioni internazionali avessero tanto bisogno di una spolveratina delle sue. Alla barzelletta sul pollo che ha imbarazzato perfino gli addetti alla traduzione, si arriva in niente. Se non era per una barzelletta intraducibile, sarebbe stato per una amichevole strizzatina di palle a Cameron o per un popi-popi alle tette della Merkel, ma prima o poi doveva accadere.
Qui viene a realizzarsi il cortocircuito che slatentizza il complotto ai danni del nostro amato premier e dunque, in pratica, ai danni dell’Italia. L’imbarazzo dinanzi al ridicolo non riesce più celarsi dietro i sorrisi di cortesia e, quando il tanto arriva al troppo, cala il gelo, l’ipocrisia non è sentita più come dovere: di colpo, le pacche sulle spalle, i cucù, le battute da vecchio erotomane diventano insopportabili.
Accade che il disprezzo di cui è fatto oggetto il premier ricada sul paese che rappresenta. Non dicono che rappresenta l’italiano medio? Non sostengono che in lui si fondano virtù e difetti del carattere nazionale fino a non poter più discernere quali siano le une e quali gli altri? E da capo di stato estero non è naturale che, venendoti a star sul cazzo Berlusconi, ti vengano a star sul cazzo tutti gli italiani e l’Italia? Non ti viene una gran voglia di cercare alleanze segrete per dare una severa lezioncina a questo popolo di insopportabili cafoni? Vai con le strategie destabilizzanti l’Italia, vai col complotto. Ed eccoci all’intuizione di Frattini.
So bene che vi risulterà bislacco, ma è l’unico modo per spiegare l’intuizione di Frattini.


Ci prova


“Negli ultimi anni il numero dei nuovi sacerdoti è aumentato in tutto il mondo” (Benedetto XVI, Luce del mondo, L.E.V. 2010). Formalmente non è una falsità, sostanzialmente sì.
Nel 2000, la popolazione mondiale ammontava a poco più di 6 miliardi di individui, i cattolici erano poco più di un miliardo e i sacerdoti erano 405.178; nel 2008, i sacerdoti erano 409.166 (solo 3.988 in più) per 1,17 miliardi di cattolici (oltre 110 milioni di fedeli in più) sui 6,7 miliardi della popolazione mondiale complessiva. Mentre nel 2000 avevamo un sacerdote per 2.579 cattolici, nel 2008 ne avevamo uno ogni 3.000 circa: in assoluto, dunque, il numero sacerdoti (s) è aumentato, anche se di pochissimo, ma è diminuito, e di parecchio, in relazione alla massa di fedeli (f), con una significativa caduta del rapporto s/f, che è espressione della presenza pastorale.
Sostanzialmente i preti sono diminuiti, formalmente Benedetto XVI può negarlo. Ma non è tutto.
Si parla del numero dei “nuovi sacerdoti” e si dice che è “aumentato in tutto il mondo”: formalmente è vero, ma sostanzialmente è falso, perché aumenta complessivamente “in tutto il mondo”, ma non “dappertutto nel mondo”: più preti solo in Asia e in Africa, sempre gli stessi nelle Americhe e in Oceania, molti di meno in Europa. E così è per le nuove ordinazioni sacerdotali: sempre di meno in Europa, stabili dappertutto, in aumento in Africa.
C’è poco da essere allegri, ma Benedetto XVI ci prova. A costo di ingannare gli sprovveduti.

venerdì 26 novembre 2010

Avanzi di propaganda guelfa




L’enciclica è una circolare e, prima che il Papato perdesse il potere temporale, aveva sostanza e forma di decreto. Da Leone XIII in poi l’enciclica cambia forma e, perso il potere temporale, il Papa scrive encicliche sempre più lunghe: perso il valore formale di decreto, la circolare si trova costretta ad argomentare. Riducendo ai minimi termini, gli argomenti sono tutti autoreferenziali e tautologici: reggono solo sull’assunto che hanno valore cogente. Con la perdita del potere temporale, però, la parola “obbedienza” diventa sempre più rara nelle encicliche papali, anche quando il richiamo è sulla dottrina morale, praticamente andando a scomparire nelle encicliche degli ultimi 50 anni. Oggi sono torrenziali lenzuolate nelle quali l’ordine è impartito come esortazione, la minaccia subito è smorzata in monito paterno, la sanzione è un accenno a fil di labbra.
Non così quando il Papa era ancora Re. Prendiamo, per esempio, la Mirari vos di Gregorio XVI, del 1832, quella che condanna “l’assurda ed erronea sentenza, o piuttosto delirio, che si debba ammettere e garantire a ciascuno la libertà di coscienza, errore velenosissimo a cui apre il sentiero quella piena e smodata libertà di opinione che va sempre aumentando a danno della Chiesa e dello Stato”. Il gregge d’anime è anche popolo suddito: la pecora nera fa peccato, ma anche eversione. E allora, se pensare con la propria testa porta prima al carcere e poi all’inferno, figuriamoci spargerne il frutti: “Pessima, né mai abbastanza esecrata ed aborrita [è quella] «libertà della stampa» che taluni osano invocare e promuovere con tanto clamore”. Scritto in un’enciclica del tempo il cui il Papato aveva ancora potere temporale, come dev’essere tradotto? Basta uno sguardo al pontificato del successore di Gregorio XVI, alla repressione di ogni forma di libertà di coscienza, di opinione e di espressione, compresa quella a mezzo stampa.

Ciò detto, tornate alla letterina di Angela Pellicciari che apre il post e considerate l’uso della parola “enciclica”. Non è necessario chiarire troppo: la famigerata revisionista del Risorgimento, cara a Berlusconi e a Ferrara, alla decrepita nobiltà nera romana e ai nostalgici del Papa-Re in generale, dice “enciclica” e dice “placet del governo” come se – faccio per dire – Zapatero avesse fatto ritirare dalla circolazione tutte le copie della Deus est caritas, sanzionando severamente i responsabili dello smercio.
La signora è solita invitare i suoi lettori a contestualizzare le condanne a morte che Pio IX volle comminare ai suoi oppositori – a quei tempi era considerato gesto caritatevole, diciamo – ma, di fronte all’art. 270 del codice penale che il regno di Savoia si diede nel 1859, legge “enciclica” come se si trattasse di un’enciclica dei nostri tempi e legge “placet del governo” come se si trattasse di una odiosa forma di violazione della libertà religiosa. Il Papa-Re ci fa quasi la figura di un libero pensatore al quale lo Stato mette il bavaglio.
Fino a poco tempo fa, quando si diceva di un tale “quello è uno storico”, non si dava certo per scontato che la sua tesi non potesse essere fragile, ma veniva naturale un minimo di rispetto. Da dove escono questi avanzi di propaganda guelfa?

giovedì 25 novembre 2010


Se voglio essere tenuto in vita quanto più a lungo possibile, fino a quella morte cosiddetta naturale che solitamente è ritardata con strumenti rigorosamente artificiali, chi può impedirmelo? Nessuno mi staccherà la spina, non contro la mia volontà, posso esserne certo. Anzi, posso essere certo che non mi sarà staccata nemmeno se volessi, nemmeno se implorassi: la legge lo vieta. E dunque, anche se volessi decidere diversamente, non posso. In pratica, posso decidere solo di essere tenuto in vita, in quella specie di vita che, in ultima analisi, taluni considerano tollerabile, ma altri no, preferendo morire. Questi ultimi potranno ritenerlo ingiusto, potranno protestare, potranno volere una legge che consenta a ciascuno di poter decidere per sé, ma che hanno da chiedere, i primi? Un bel niente.
O forse no, parrebbe che abbiano qualcosa da chiedere. Almeno a leggere Avvenire, vorrebbero che la loro scelta rimanesse, come già è, obbligatoria per tutti. Pretendono, pare, sia data loro voce in contraddittorio a quanti chiedono la possibilità di scegliere liberamente, ciascuno per sé. In pratica, vorrebbero poter esprimere le loro ragioni contro la libertà di scelta. E vogliono andare a Vieni via con me perché ci sono andati Englaro e Welby, anche questo lo pretendono, anche questo come se si trattasse di una questione di vita o di morte (la loro vita, la loro morte), non della vita e della morte (di ciascuno).
Fazio e Saviano dicono di no e fanno bene, speriamo solo che siano capaci di tenere il punto fino a rinunciare ad andare in onda, se fosse imposto loro di ospitare una replica. Che sarebbe non già in favore della vita e contro la morte, ma in favore dell’imposizione e contro la libertà di scelta.


Più obliqui che trasversali


Il tragico si riproduce in farsesco. Prendete Lotta Continua, per esempio. Potrete anche essere dei rozzi conformisti malati di moderatismo, ma non potrete negare la narrazione di alto livello che sta nell’umanità negli ex giovanotti lottacontinuisti. Voglio dire: potrete anche trovare irritante quel retrogusto borioso che sta in ogni mitezza di Adriano Sofri; potrete anche venire a dirmi che il loro livido velleitarismo poteva invecchiare solo in un Carlo Rossella o in un Giampiero Mughini; potrete farmi notare che era una setta ed è decaduta a lobby: d’accordo, posso darvi anche ragione, ma non vi siete accorti che nel farmelo notare vi è certamente scappata – lo sappiate o no – una citazione di Dickens o di Dostoevskij?
Sentite: “Il movimento ha come controparte la classe borghese storicamente dominante e questo dominio di classe si manifesta attraverso una serie di mediazioni che tuttavia sono espressione, anche se in maniera talvolta contraddittoria, di un piano organico del capitale”. Un “tuttavia” messo a cazzo di cane, ma roba finissima, vibrante e lirica, anche un po’ epica: c’è dentro l’uomo, e la storia, e sono innervati di destino.

Che abbiamo alla generazione successiva? Sofri jr & signora, con le rispettive consorterie. Da un movimento che andava a scegliersi come controparte la classe borghese dominante, qui siamo al tentativo di bissare le fortune della coppia Costanzo-De Filippi. La coraggiosa schiatta degli arcangeli del proletariato, poi dispersasi per salotti e redazioni restando famiglia e facendosi romanzo corale, qui non è nemmeno in parodia, e tutt’al più riesce a dirsi in una strip. L’incendiario fervore che si muoveva tra Pisa e Torino è degradato a link incrociati tra Il Post e Le Invasioni Barbariche, tra Wired e Vanity Fair, tra questo programma alla radio e quella trasmissione in tv, più obliqui che trasversali.  


"Lesioni gravissime"



Superfluo dire che anche uno sputo fa reato ed è da condannare, ma all’uscita dal ristorante nel quale martedì sera è stato fatto oggetto di aggressione, stando al video, Emilio Fede non mostrava alcun segno evidente delle “lesioni gravissime” che avrebbe riportato: nessun edema, nessun ematoma, nessuna escorazione. In un ristorante non manca certo del ghiaccio, ma pare che non ce ne sia stato alcun bisogno.

mercoledì 24 novembre 2010

“Noi, cui le bestemmie dei violenti fanno meno paura che il silenzio degli onesti”

Lettera di don Aldo Antonelli al cardinal Angelo Bagnasco.

[grazie a Francesco Madonna per la segnalazione]

Le vajasse ci hanno distratto


In coda al tg de La7, ieri sera, Enrico Mentana si scusava coi telespettatori: “Non abbiamo avuto il tempo di parlare dello scontro armato tra le due Coree”.




L’editorialino del sommario dell’ultimo numero di Internazionale (873/XVIII, pag. 5) merita di essere ritagliato e conservato come esempio di scrittura assai brillante, perché riesce a dimostrare in poche righe che Gianfranco Fini è per davvero unaltra persona da quella di 9 anni fa, anzi 6, anzi 4, anzi 3, anzi forse meno di 2. Non chiarisce, però, perché le sue attuali posizioni debbano essere trovate poi così male e allora merita di essere ritagliato e conservato come esempio di pessima argomentazione, quella che contraddice l’assunto che si intende dimostrare.

A parte, ma in tema
Consiglio questo interessantissimo intervento di Francesco Siciliano.


Molto bene, direi


Quando s’è saputo che Benedetto XVI concedeva vi fossero “casi giustificati” di uso del preservativo, vi ho invitato a non guardare la luna ma il dito: quella concessione non era esplicitamente espressa nella dottrina, ma si trattava della personale opinione di un teologo che discettava di morale. A parlare era stato Joseph Ratzinger, non il Papa, e ho scritto: “Non si tratta di un’affermazione tratta da un’enciclica pontificia, né da un documento ufficiale della Congregazione per la Dottrina della Fede sottoscritto dal Papa, né da un testo che abbia forza di emendare il magistero”. Mi è subito venuto a dare sostegno padre Federico Lombardi, che qualche ora dopo precisava che quanto riportato nel libro-intervista era espresso “in una forma colloquiale e non magisteriale”.
Intanto c’era chi faceva notare la possibilità di un errore nella versione in italiano dell’affermazione del dottor Ratzinger: l’uso del preservativo doveva ritenersi “giustificato” non già nel caso di una prostituta che lo pretendesse dal cliente per evitare il rischio di contagio da malattia a trasmissione sessuale, ma nel caso di “ein Prostituierter”. Era proprio così. Implicazioni? Sembravano essere notevoli. “Il prostituto sta comunque commettendo un male (perché è omosessuale e perché si prostituisce), ma si tratta di un male che avrebbe commesso ugualmente anche senza profilattico”; nel caso della prostituta, invece, con l’uso profilattico si ammetterebbe la liceità morale di scegliere “un male minore (la prostituta non può più rimanere incinta dei suoi clienti)” rispetto a “un male maggiore (la prostituta alla lunga rimarrà contagiata)”, sicché “ciò che si applica alle prostitute dovrebbe a maggior ragione applicarsi anche alle coppie sposate, e che dunque l’uso del profilattico sarebbe adesso considerato tollerabile per prevenire l’Aids: una vera e propria rivoluzione, per la Chiesa”.
Insistevo nel dire che cambiava poco o niente: non si era validato l’uso del preservativo come “male minore” rispetto a un “male maggiore”, ma lo si era solo definito – qui è il caso di citare testualmente – un “primo passo verso una moralizzazione, un primo atto di responsabilità per sviluppare di nuovo la consapevolezza del fatto che non tutto è permesso e che non si può far tutto ciò che si vuole”. L’ho definito “un memento del peccato che si sta compiendo”. E quindi prostituta o prostituta non faceva differenza.
Padre Lombardi tornava a darmi sostegno: “Ho chiesto al Papa se c’era problema serio di scelta nel maschile piuttosto che nel femminile. Lui mi ha detto di no. Il punto è il primo passo di responsabilità nel tenere conto del rischio della vita dell’altro con cui io sono in rapporto. Se si tratta di un uomo o di una donna o di un transessuale è lo stesso”. È lo stesso Papa – non dimentichiamolo – che poco più di un anno fa ha dichiarato che il problema dell’Aids non si risolve con la distribuzione di preservativi, che anzi “aumentano il problema”: è evidente che l’uso del preservativo è “giustificato” non già come soluzione, ma come “primo passo verso una moralizzazione”, come possibile occasione di “consapevolezza” del peccato.
Riassumendo: quella del dottor Ratzinger non era un’affermazione ex cathedra, né indicava il preservativo come “male minore” o soluzione, né ammetteva come tollerabile sul piano morale il suo effetto contraccettivo. E dunque? E dunque niente, come vi avevo detto: nessuna storica apertura. Anche qui padre Lombardi si affrettava a darmi sostegno: “Il Papa non riforma o cambia l’insegnamento della Chiesa, ma lo riafferma […] Il ragionamento del Papa non può essere certo definito una svolta rivoluzionaria”.
Ennesimo infortunio mediatico e comunicativo, concludevo. E il filo del distinguo nelle due note del direttore della Sala Stampa Vaticana era di così ardua comprensione da poter essere sicuri che anche stavolta si creerà smarrimento e confusione nel gregge. Molto bene, direi.

martedì 23 novembre 2010

Ghe basti mi



“Invito tutti al senso di responsabilità, alla sobrietà, al rispetto dei nostri militanti e dei nostri elettori che non approvano certo personalismi ed esibizionismi”


I “mitologici under 40”



Caro lettore, di tutto ciò che in qualche modo ci dovrebbe o potrebbe unire perché in comune a me e a te, l’età è la più aleatoria e più aleatorio di tutto è il legame per fascia d’età. Se siamo entrambi del 1957, già possiamo essere irreparabilmente distanti perché totalmente diversi, ma è pura follia pretendere che ci sia qualcosa in comune tra noi due per il solo fatto di essere nati entrambi negli anni ’50. Più che da folle è da idiota, poi, pensare che qualcosa accomuni me, te e tutti quelli che hanno più di 50 anni – e fino a un condiviso sentire (o sentir d’essere) – perché nati tutti prima del gennaio 1960. Però è ancor più che da idiota – direi sia da cretino senza speranza di un riscatto – pensare che si possa avere in comune abbastanza per il solo aver meno di un tot d’anni. Ma forse sono troppo lapidario, e allora diciamo che fino a una certa età, diciamo fino ai 15-16 anni, sentire un vincolo anagrafico è da minus habens in senso lato; dopo quella età è da minus habens in senso stretto.
Ciò detto, ci sarebbe da commentare l’uscita in edicola del primo numero di un “settimanale immaginato, diretto, scritto, impaginato e comprato dagli italiani nati dopo il gennaio 1970”, i “mitologici under 40”. Qui la cretinaggine mostra tutta la sua disperazione nel fatto che a pensare e realizzare una roba del genere è quel Mario Adinolfi che di lustro in lustro alza la soglia sopra la quale tutto è mito: under 30, under 35, adesso under 40, probabilmente nel 2050 sarà preso da qualche brillante iniziativa da proporre ai “mitologici under 80” (probabilmente si tratterà di rottamare gli ultracentenari dirigenti del Pd).
Non nuovo a questo genere di fanfaronate – un quotidiano chiuso dopo pochi mesi di vita – l’esuberante Adinolfi annuncia: “Ci abbiamo lavorato tanto che ora, eccoci qui: giovedì 25 novembre usciamo in edicola in anteprima nazionale a Roma, come fossimo un film”. Vietato ai maggiori di 40 anni, perché troppo impressionabili.

A margine


Gran parte della musica leggera prodotta nei paesi di lingua inglese negli ultimi 60-70 anni ha in comune la lontanissima e comune radice nei canti degli schiavi d’America. È la prima metafora che mi salta in mente in fondo al II capitolo de Il cristianesimo primitivo di Charles Freeman, che sto rileggendo e che riconsiglio. (Sarà che si tratta in entrambi i casi di un prodotto della/nella cattività.) Il cristianesimo primitivo sta al cattolicesimo dell’ultimo secolo – mi viene da pensare – come uno spiritual cantato in una piantagione di cotone sta a una canzone di Elvis Presley, di Bob Dylan, di Bruce Springsteen e dell’ultimo post-grunge. Ma i canti degli schiavi afro-americani in cosa avevano radice a loro volta? Per Gerhard Kubik (Theory on African Music, 1994), l’avevano nella musica islamica. E il cristianesimo primitivo, in cosa ha radice? Per Freeman, sicuramente nell’ebraismo. (La tesi dell’influenza essena è rigettata: gli esseni credevano nell’immortalità dell’anima, ma non nella resurrezione dei corpi, alla quale credevano i farisei. Gesù era un fariseo, poi dissidente.) Probabilmente tra i paramenti sacri indossati nel primo Tempio di Gerusalemme e gli orribili pastrocchi addosso a Benedetto XVI c’è la stessa differenza tra un maqam e una canzone di Kid Creole & The Cononuts.


When I see the price that you pay




Pareva


La settimana scorsa pareva che Silvio Berlusconi avesse i giorni contati e che rimanesse solo da decidere se appenderlo a testa in giù a Piazzale Loreto o consentirgli magnanimamente di fuggire ad Antigua. Questa settimana non pare. Pare che ancora una volta l’ometto eccella nel riprendersi, recuperare, rimontare e un’inquietudine serpeggia fra chi lo dava per spacciato, non detta, come per essere esorcizzata: ancora una volta riuscirà a vincere dove tutto lo dava per perdente? Come è potuto accadere?
Diciamo innanzitutto che la sua rovina dipendeva da quanti fossero stati disposti ad abbandonarlo e che in pochi giorni il numero di costoro è andato via via a diminuire, anzi, si è arrivati a registrare qualche resipiscenza e qualche ritorno, che ha intimorito e fin quasi intimidito chi gli si era rivoltato contro.

Diciamo che il ravvedimento ha effetto edificante (mostra il vantaggio che ne consegue) e che il pentimento ha effetto trascinante (prima ci si pente, maggiore è il vantaggio, che progressivamente scema): nessun prezzo era troppo alto per comprare il primo ravvedimento, ed è stato pagato. In questo genere di commercio Berlusconi potrà risultare osceno ai puri, ma è insuperabile: riesce a comprare tutto ciò che è comprabile e qualcosa di più. Non restava che dare la giusta pubblicità agli acquisti – pardon, alle resipiscenze – e il vantaggio nell’essergli fedele ha cominciato a superare quello peraltro assai incerto nel tradirlo. Ma fedeltà e tradimento – se è necessario chiarirlo – sono qui usati per semplificare atteggiamenti di maggior complessione morale, anzi, comportamenti extra-morali.


Quando il preservativo non è contraccettivo


L’Osservatore Romano pubblica la nota ufficiale della Sala Stampa Vaticana che dà il peso esatto alle affermazioni di Benedetto XVI riguardo ai “singoli casi [che egli ritiene moralmente] giustificati” dell’uso del preservativo: era l’opinione di un Papa, certo, ma espressa “in una forma colloquiale e non magisteriale”. Si tiene a far presente che in quel contesto la “giustificazione” non è data dalla scelta di un “male minore” (tra due mali, uno maggiore e l’altro minore, la Chiesa chiede di sospendere ogni scelta rifiutando entrambi), ma dal segno di responsabilità evidente in essa. Nulla, invece, su quella che s’è poi rivelata come errata traduzione in italiano di un termine che nella versione originale era al maschile (“ein Prostituierter”) e che anche L’Osservatore Romano ha riportato al femminile (“una prostituta”), sicché parrebbe che la Santa Sede sia intenzionata a non tenere in alcun conto ciò che sarebbe implicito nell’uso del preservativo da parte di un gay che si prostituisce e cioè il fatto che in quel tipo di atto sessuale il condom non abbia un fine contraccettivo: se non ce l’ha, perché dovrebbe essere moralmente illecito?
È come se la Santa Sede cercasse di eludere questa domanda, almeno così è parso ad alcuni, fra i quali l’ottimo Giuseppe Regalzi: “Nel caso del prostituto omosessuale […] usare il preservativo non fa deviare l’atto sessuale da quello che per la Chiesa è il suo fine: quell’atto, per la Chiesa, è già deviato […] Il prostituto sta comunque commettendo un male (perché è omosessuale e perché si prostituisce), ma si tratta di un male che avrebbe commesso ugualmente anche senza profilattico. [...] Se il papa avesse davvero detto che una prostituta può chiedere ai propri clienti di usare il preservativo per proteggersi dall’infezione dell’Hiv, avrebbe con ciò ammesso che un male minore – la prostituta non può più rimanere incinta dei suoi clienti – è preferibile a un male maggiore – la prostituta alla lunga rimarrà contagiata e, soprattutto se non ha accesso ai farmaci moderni, morirà. Avrebbe quindi negato uno dei principi più importanti della bioetica cattolica; e anche se un’intervista non può paragonarsi a un atto solenne del magistero, e non ha quindi valore dottrinale (il papa non parla qui ex cathedra, e non può quindi essere ritenuto infallibile), si sarebbe trattato comunque di un’affermazione clamorosa”. Stando alla versione originale, dunque, “il pensiero papale non va manifestamente contro la dottrina”, e allora perché precipitarsi dalla Sala Stampa Vaticana a precisare che Benedetto XVI non avesse parlato ex cathedra? Probabilmente perché “prostituta” poneva il problema bene esposto da Regalzi. Ma che bisogno c’era di fare il distinguo tra opinione personale e dettato magisteriale, una volta stabilito che il Papa aveva parlato di un “prostituto”? Forse che l’uso del preservativo è condannato dalla dottrina della Chiesa anche al di là del suo fine contraccettivo? Non dimentichiamo che “ein Prostituierter” può anche avere clienti di sesso femminile e in età fertile: anche in questo caso, il preservativo avrebbe tra i suoi fini, primario o secondario, quello contraccettivo. Ma dove sarebbe il peccato nell’uso del preservativo da parte di “ein Prostituierter” rigorosamente gay?
Perplessità legittime secondo una logica piana, ma quella cattolica non lo è. Infatti, sebbene la dottrina della Chiesa condanni esplicitamente l’uso del preservativo solo perché separa il momento unitivo da quello procreativo, non manca una condanna implicita del suo uso al fine di evitare il contagio di malattie a trasmissione sessuale: se consente di commettere un peccato mortale al riparo da ogni rischio, in qualche modo lo favorisce. In altri termini, il preservativo consente a un gay la scelta tra male minore e male maggiore, rendendogli più difficile il rifiutare entrambi con la castità, che poi sarebbe quanto il Catechismo chiede alle persone omosessuali (2359). E senza mai dimenticare che per la dottrina cattolica la vita non è un bene assoluto come lo è la salvezza dell’anima. 
Mi auguro con ciò di aver risolto i dubbi di Regalzi.  

lunedì 22 novembre 2010

Fedeli, però col brivido


Paura, eh? Tranquilli, i radicali non voteranno la fiducia al governo. Non hanno firmato la mozione di sfiducia del Pd, né quella dell’Idv, ma questo non vuol dire. Sia dato, dunque, il giusto rilievo alla notizia: i radicali non sono oggetto di campagna acquisti, non sono merce che Berlusconi può comprare. Alla Camera sono 6 e sono indispensabili: appena è girata voce che potessero “tradire”, la loro indispensabilità è parsa evidente a tutti. Già, ma come s’è potuta diffondere, la voce? C’è stato un equivoco, ecco. Un incredibile equivoco. Da non crederci.
È andata così, pare. Il 17 novembre Marco Pannella aveva preso carta e penna e aveva scritto al Presidente del Consiglio: “Quando si riconosce carattere e dignità di interlocutore politico al più antico partito nato in Italia, che sia Bersani, Berlusconi, Bossi o Di Pietro, noi riteniamo non solamente utile ma anche necessario un dialogo costruttivo sull’immediato e sulle prospettive”.
Una voglia di “dialogo”, questo è tutto. “Costruttivo sull’immediato e sulle prospettive”? Ma sì, era per dare un tono alla richiesta, mica poteva dire: “Silvio, ti va del pourparler?”. Parlare, nient’altro che parlare, Pannella non aveva altra intenzione: parlare e far parlare, possibilmente di sé. E lì, vil razza dannata, i giornalisti ad equivocare.
Quante ne abbiamo sentite. “I radicali so’ matti”. “I radicali so’ traditori, ce l’hanno nel sangue”. “No, no, un momento, pare che i 6 voti siano in cambio di 6 riforme”. “Forse anche solo 3”. “Forse solo 2”. E i radicali, intanto, muti. Probabilmente offesi.
Chiedevano a Matteo Mecacci che cazzo stesse accadendo: “È un’iniziativa presa da Pannella, chiedete a lui”. Stessa domanda alla Coscioni: “Che fate, tradite?”. Serafica: “C’è tempo per decidere”. Idem la Bonino: “Manca ancora un mese”. Qualcosa in più da Rita Bernardini: “Certo Pannella si rivolge al Presidente del Consiglio. Ma non è un caso se subito dopo mette il nome di Bersani. Noi radicali chiediamo a Bersani di riconoscerci come interlocutore politico”. Scrivendolo a Berlusconi: caro Silvio, vorremmo dialogare con Pierluigi…

Via, fuor d’ironia: Pannella cercava un modo di far parlare di sé, cercava un modo per rammentare a tutti – in primo luogo al Pd – che i 6 radicali alla Camera sono indispensabili e che sanno essere fedeli, però col brivido. Non si stava vendendo a Berlusconi, si stava rivendendo a Bersani.


A parte Il “più antico partito nato in Italia” non è quello radicale, ma il Südtiroler Volkspartei, che è nato nel 1945 e ha oltre 60.000 iscritti.

"... ci siamo comportati da malvagi..."




Che vi dicevo?


Che vi dicevo? Nessuna “storica apertura”. Era questione secondaria, dunque, se Benedetto XVI avesse detto “prostituto” o “prostituta” (*) e padre Federico Lombardi nemmeno sfiora la faccenda, ma si precipita a precisare che quanto detto sul preservativo è stato formulato “in una forma colloquiale e non magisteriale”. L’ortodossissimo pontifex.roma.it commenta in modo ancora più brutale: “Il Papa ha detto certe cose non in qualità di magistero (sarebbe stato allora ex cathedra e dunque atto infallibile), ma in forma discorsiva e dunque criticabile sia pure con il dovuto garbo”. Proprio come vi anticipavo: “Non si tratta di un’affermazione tratta da un’enciclica pontificia, né da un documento ufficiale della Congregazione per la Dottrina della Fede sottoscritto dal Papa, né da un testo che abbia forza di emendare il magistero [...] Non è stato il Papa a dire che «vi possono essere singoli casi giustificati» di uso del preservativo, ma Joseph Ratzinger, e l’ha fatto nel corso di una conversazione privata, anche se destinata a diventare pubblica”.
Resta il fatto che siamo dinanzi all’ennesimo infortunio mediatico, mai visti tanti in un solo Pontificato. Anche stavolta è Benedetto XVI a provocarlo, ma non mancherà chi si arrampicherà sugli specchi per dimostrarci che è stato vittima di chi ha voluto fraintenderlo. Intanto, mentre ingenui e sprovveduti plaudono alla “svolta rivoluzionaria”, la Santa Sede va in affanno a smentirla con un distinguo che difficilmente sarà ben compreso dai semplici: il magistero della Chiesa continua ad essere irremovibile sul preservativo e il Papa, che ne è la più autorevole espressione, non può che esservi pienamente aderente, mentre Joseph Ratzinger può risultarne scollato fino al punto da essere “criticabile”. Vallo a spiegare ai poveri di spirito. 

(*) Sono passate 12 ore da quando Paolo Ferrandi ha segnalato che sui media in lingua inglese e francese la frase di Benedetto XVI fa riferimento a un “un prostituto” (“a male prostitute”, “un homme prostitué”), indicandola come versione errata; 10 ore da quando Giuseppe Regalzi ha segnalato che era così anche nella versione in tedesco messa in rete il 17 novembre da kreuz.net (“ein Prostituierter”), indicandola come possibile versione esatta; 5 ore da quando Ansa dà notizia che tutto si è chiarito (Sua Santità intendeva dire “prostituto”); e alle 23.00 di domenica 21 novembre su vatican.va si legge ancora quanto era sull’edizione cartacea de L’Osservatore Romano: “… quando una prostituta utilizza un profilattico…”. Forse nemmeno provvederanno alla correzione, pare non faccia grossa differenza. A rigor di logica la farebbe?
Regalzi scrive: “Se il papa avesse parlato di prostituta, al femminile, ci troveremmo di fronte a una radicale innovazione nel magistero ecclesiastico, che finora ha sempre condannato il profilattico e gli altri mezzi anticoncezionali in quanto impediscono all’atto sessuale di raggiungere la sua «finalità intrinseca» (cioè la procreazione), senza mai porsi il problema del male minore. Sembra chiaro che ciò che si applica alle prostitute dovrebbe a maggior ragione applicarsi anche alle coppie sposate, e che dunque l’uso del profilattico sarebbe adesso considerato tollerabile per prevenire l’Aids: una vera e propria rivoluzione, per la Chiesa. Ma se, come sembra, il papa ha parlato di prostituti, al maschile (e riferendosi, beninteso, alla prostituzione omosessuale), ci troviamo in un caso in cui di procreazione non si può assolutamente parlare, e l’apertura papale diventa assai marginale”. Non troppo marginale, direi.
Direi che anche qui siamo di fronte ad un peccato mortale (qui è un atto omosessuale, lì è un rapporto sessuale fuori da matrimonio: entrambi violano lo stesso comandamento, il sesto); anche qui è in discussione la “giustificazione” dell’uso del preservativo finalizzato ad impedire il contagio tra chi si prostituisce e il suo cliente; anche qui saremmo di fronte a “un primo atto di responsabilità” che si configurerebbe come scelta del “male minore” (che la dottrina morale della Chiesa non contempla come opzione valida). Anche la variante con “prostituto”, dunque, non è priva di problematicità. Ma  si è detto – Joseph Ratzinger parlava a titolo personale, e comunque non ex cathedra. Non poteva essere una svolta storica.

A parte  Immancabile chi non ha capito un cazzo.

domenica 21 novembre 2010

Battuto il record detenuto da Il Foglio


“Per i ragazzi l’età da matrimonio è attorno ai 20 anni e per le ragazze deve situarsi tra i 16 e i 17 anni”



“Storica apertura”


Nessuna “storica apertura”, figuriamoci. Ancora una volta il mondo fraintende: non è stato il Papa a dire che “vi possono essere singoli casi [moralmente] giustificati” di uso del preservativo, ma Joseph Ratzinger, e l’ha fatto nel corso di una conversazione privata, anche se destinata a diventare pubblica (Luce del mondo, Libreria Editrice Vaticana 2010). Il contesto è tutto, sicché Vittorio Messori ha ragione: “Nulla viene scalfito nell’impostazione etica del magistero” (La Stampa, 21.11.2010). E dunque, prima di analizzare ciò che Joseph Ratzinger dice a Peter Seewald, diciamo subito: non si tratta di un’affermazione tratta da un’enciclica pontificia, né da un documento ufficiale della Congregazione per la Dottrina della Fede sottoscritto dal Papa, né da un testo che abbia forza di emendare il magistero. E dunque – ancora con Messori – “quello di cui parla il Pontefice è un atto di carità (si tratta di una prostituta che chiede al suo cliente di mettere il preservativo per evitare un contagio), e da ciò non derivano conseguenze distruttrici sulla dottrina”: ogni atto sessuale è lecito solo nel matrimonio e deve rimanere aperto alla procreazione, l’uso del preservativo a scopo contraccettivo rimane un’offesa al sesto comandamento, e dunque è peccato mortale. Del tutto fuori luogo, quindi, immaginare che la Chiesa stia facendo una “storica apertura” su sesso e contraccezione.
Anche riguardo all’uso del preservativo come metodo per impedire il contagio di malattie a trasmissione sessuale, tutto è come prima perché in Luce del mondo si afferma che “questo può essere il primo passo verso una moralizzazione, un primo atto di responsabilità per sviluppare di nuovo la consapevolezza del fatto che non tutto è permesso e che non si può far tutto ciò che si vuole”: lungi dall’essere uno strumento ritenuto moralmente valido allo scopo – la Chiesa continua a ritenere che l’unico sia la castità – il preservativo viene ad essere considerato, meno di un “male minore”, un imperfetto memento del peccato che si sta compiendo. D’altra parte, in chiusa, Joseph Ratzinger dice: “Le prospettive della Humanae vitae restano valide”. E fino a quando restano valide quelle, nessuna “storica apertura” è possibile.



sabato 20 novembre 2010

Correte in edicola


Il prossimo numero di 30giorni è imperdibile per i viziosi: “ventiquattro testi inediti: bre­vi lettere o biglietti che ab­bracciano gli anni fra il 1935 e il 1963 [inviati dal] futuro Paolo VI [a] suor Maria I­gnazia dei Santi Innocenti, agosti­niana del monastero dei Santi Quattro Coronati […] dove fu anche superiora dal 1949 al 1968. […] C’è una propensio­ne all’eccesso da parte della mona­ca circa sacrifici e mortificazioni [e] don Montini [:] «Io non direi che lei debba imporsi altre penitenze, oltre a quelle recla­mate dalla regola […] Non aggiunge­rei pratiche particolari […] Faccia come crede meglio, ma, ripeto, con giudizio e modera­zione»…” (Avvenire, 19.11.2010), insomma un arrapantissimo carteggio tra una slave avida di lividi e umiliazioni e un master austero e algido, in sublime equilibrio tra distacco e controllo.
Solo un vizioso dai gusti grossolani potrà crucciarsi del fatto che 30giorni pubblichi solo i testi del master: il vizioso dai gusti bene educati saprà leggere quelli della slave in controluce, certamente sulla falsariga delle umiliazioni che si imponevano sante dei bei tempi andati, quando l’Europa era cristianissima. E sarà meglio così, perché il non detto è spesso più eccitante. A piacere, il vizioso sopraffino potrà immaginare che suor Maria Ignazia abbia confessato a don Montini la sua gran voglia di offrirsi al Signore al livello di una santa Caterina da Siena (flagellarsi, bere pus, ecc.) o di una santa Maria Margherita Alacoque (bondage estremo, leccare vomito, ecc.); lui, cattivissimo: «Mantieni un contegno, cagna!».
Se amate il genere, correte in edicola.


venerdì 19 novembre 2010

Catfight



PALAPIDIELLE
19 novembre 2010

Incontro di lotta nel fango
Lady Wajassa    vs    Miss Cinema ’97

- lo spettacolo è gratuito -

Compagni, consentite



Sto avendo un sacco di noie per aver criticato l’intervento di Roberto Saviano a Vieni via con me: qualche post acido, commenti che non edito, mail che non vi dico, perfino qualche mugugno da una figlia semirifondarola. Sento di essermi messo in pericolo per ciò che ho scritto e quasi quasi chiedo una scorta. Scherzo, naturalmente, e passo a mettere i puntini sulle i.

Ho detto e confermo che a mio parere dire che “la Lega interloquisce con la ’ndrangheta” è una forzatura. Ora, sì, sotto una pioggia di link e insulti mi fanno notare che alla ’ndrangheta farebbe comodo il federalismo, che si sa di soldi calabresi reinvestiti in Padania, che brutti tipacci del Sud hanno talpe fra i colletti bianchi del Nord, non pochi dei quali vicini alla Lega. Bene, ma questo non è ancora quello che Saviano voleva intendere dicendo che “la Lega interloquisce con la ’ndrangheta”. Per esempio, tutto quello che mi viene a dire L’espresso con questo suo Ecco perché Maroni sbaglia non dà ragione a Saviano: un rapporto strutturato tra ’ndrangheta e galassia economico-politica della Lega non è dimostrato e, se c’è un -loquiri, non c’è un inter- che faccia sistema. Perché è a questo che Saviano voleva alludere: a un sistema di interessi comuni. E – mi spiace – non ci siamo, non si fa, è scorretto: puoi essere anche Falcone, anche Borsellino, ma hai l’alito pesante e te lo dico.

Per inciso, ma neanche tanto: quest’arietta briosa da imminente crollo del berlusconismo – consentitemi, compagni – è cretina e pericolosa. Anche se vi sembra di esservene quasi sbarazzati, il Berlusconi che ormai è dentro a tutti gli italiani (anche un poco dentro voi, guardate Vendola, guardate Grillo) vi renderà difficile ogni riforma, vi castrerà ogni progetto di società compiutamente liberaldemocratica.
Compagni, potrete offrirci solo un altro tipo di paternalismo: un padre forse meno cafone, ma altrettanto padrone. Nel trattarci da platea da conquistare nello stomaco, da utenti di un sentimento nazionalpopolare che ci vuole eterni figli, come non ci fate crescere: ci lasciate bambini in mano ai miti, alle favole, alla rassicurante ed inquietante (secondo la bisogna) figura dello Stato trascendente l’individuo, qui stimolandoci l’indignazione morale su tesi precostruite sul paradigma della vulgata capitale=destra=mafia.
Insomma, compagni, se lo psiconano ci ha illuso con le sue chiacchiere sulla “rivoluzione liberale”, voi volete da subito dirci che è impossibile? Anche voi, come Lui, mirate al cuore?

Saviano ha sbagliato. Adottato dalla nobile sinistra legalitaria e giustizialista, si è sentito in dovere di sdebitarsi rendendosi utile. Compagni, l’avete spinto oltre ogni allusione furbetta alla Lucarelli, e ha sbarellato. Poi vogliamo chiudere un occhio perché è Saviano e a criticarne l’alito si fa peccato?

Casual Profanity





Michele Fronterrè, Imprenditori d'Italia, Edizioni della Sera 2010



Gustavo Dufour, il Signore delle Caramelle, davanti alla sua fabbrica picchettata dagli operai in sciopero, poco meno di un secolo fa, così rimuginava: “Il fenomeno bolscevico è uno dei tanti tentativi periodici di sconvolgimento dell’ordine sociale per opera dei malcontenti che sperano dalla rivoluzione un posto migliore dalla società. Ad impedirne lo scoppio violento bisogna che le classi padronali, specialmente industriali, favoriscano l’elevamento della classe operaia nell’educazione, nell’istruzione, nel benessere”.
È uno degli Imprenditori d’Italia raccontati da Michele Fronterrè (Edizioni della Sera, 2010). Non manca – non poteva mancare – Adriano Olivetti: “Occorre capire il nero di un lunedì nella vita di un operaio, altrimenti non si può fare il mestiere di manager”. Falck, Buitoni, Rana, Florio e gli altri – due dozzine di interpretazioni del capitalismo italiano – sono ritratti in questa luce: non c’è epica, ma il respiro è quello del romanzo e, se non è un saggio storico, come rileva Alberto Mingardi che firma la prefazione, se non è nemmeno un affresco socio-economico dell’Italia dello scorso secolo, siamo davanti (possiamo dar ragione all’Autore) a “storie di business, lette a prescindere da considerazioni partigiane macroeconomiche”.
E tuttavia una passione partigiana traspare, ed è quella della fiducia negli spiriti animali che muovono il capitalismo, che “non va corretto ma interpretato”, e qui c’è l’album di famiglia di un’Italia che fu capace di pensare l’impresa come forza dell’intelligenza e del coraggio.

Fronterrè non lo suggerisce mai, ma il raffronto con l’adesso è incombente ad ogni pagina: l’imprenditore di ieri si rivela illuminato, riformista, capace di dare un senso nobile al profitto e perciò in grado di farsi avanguardia sociale. L’imprenditore italiano del Novecento si rivela interlocutore dello Stato degno di questo nome. Ciascuno è un mondo a parte, eppure hanno tutti in comune una straordinaria caratura della filosofia di vita. Il taglio è trasversale e ciascuno la riflette secondo tempo e indole, ma questi uomini paiono degni di tenere testa al potere politico anche quando sono costretti ad abbassarla.
Abbiamo i Florio che danno vita ad un giornale con “due tristi primati: il maggior numero di morti ammazzati tra le fila dei giornalisti e collaboratori; il fatto di essere il giornale più querelato”. Chiuso da Mussolini nel 1926, L’Ora riapre nel 1947 con la stessa ostinazione socialista. E abbiamo Giovanni Buitoni che, alla richiesta di Mussolini di diventare Podestà di Perugia, risponde: “Non ho il tempo né le competenze per coprire il ruolo ma ho solo una possibilità: ubbidire”. Ma abbiamo anche Enrico Mattei, più manager che imprenditore forse, e in grado di tenere alta la testa – seppure per poi perderla – né ubbidendo, né avendo ragione della sua ostinazione. Storie diverse, ma con la stessa morale: non si sta al rimorchio dello Stato, semmai lo si traina, dovesse anche spezzarsi il gancio.
Senza alcuna pretesa di tracciare un profilo storico dell’economia italiana del secolo passato, questo libro ne rivela l’anima. Procuratevelo, leggerlo non sarà tempo sprecato.

Hitler, l'ateo



(grazie a Giovanni Fontana)

giovedì 18 novembre 2010

[...]




“In aiuto di Silvio Berlusconi potrebbe arrivare il drappello dei sei deputati radicali che siedono nel gruppo Pd. È stato lo stesso leader Marco Pannella ad aprire uno spiraglio ma a precise condizioni: «Quando si riconosce carattere e dignità di interlocutore politico al più antico partito nato in Italia, che sia Bersani, Berlusconi, Bossi o Di Pietro, noi riteniamo non solamente utile ma anche necessario un dialogo costruttivo sull’immediato e sulle prospettive»”

Il Sole-24 Ore, 18.11.2010