mercoledì 30 giugno 2010

Una rotonda sul mare / 3




Con ritorno elastico


La Chiesa è perseguitata? I mali vengono tutti dal suo interno? Per Benedetto XVI, a volte è l’una, a volte è l’altra. Dio voglia che riesca a giungere a sintesi: si procura danni da sé sola, con ritorno elastico.


È morto pure


Dalla neutra posizione di chi non ha mai provato né troppa simpatia né troppo antipatia nei confronti di Pietro Taricone, giudico esagerata tutta questa simpatia post mortem. Non è solo per l’effetto-morte, che risaputamente rende più simpatico chiunque, dev’esserci dell’altro. Se qui, contrariamente a quanto accade solitamente (fisiologicamente, direi), nessuno s’azzarda a dire: “Da vivo mi stava sul cazzo”, dev’esserci dell’altro. Ma lo dico da subito: non posso farlo io: l’ho già detto: non ho mai provato né troppa simpatia né troppo antipatia per il morto: non posso sforzarmi adesso. Anche per risparmiare energie – soffro molto l’afa – mi limiterei ad azzardare alcune ipotesi sul perché di tanta simpatia.
Ma vorrei cominciare da lontano.

Non c’è da stupirsi che qui da noi, in Italia, il personaggio pubblico venga indicato spessissimo col nome di battesimo piuttosto che col cognome: a qualsiasi livello – Alfredino, Tommy, Eluana, Rosa e Olindo, ma anche Vasco, Marco, Silvio – ci piace familiarizzare. Mai visto niente di simile sui media del resto del mondo, ma forse giro poco.
Riducendo il personaggio pubblico a persona familiare – senza far altro che tentare – pensiamo di fargli una cortesia. In realtà gliela facciamo, ma senza sapere se sia desiderata, e facendogliela pagare: da quel momento in poi, qualunque sia il segno della vicenda di cui il personaggio pubblico è protagonista, gli è riservato il trattamento che riserviamo agli intimi.
È un modo per entrare nella conoscenza delle vicende di rilievo pubblico: riduciamo lo spazio pubblico – senza far altro che tentare – ad ambiente familiare.

Venendo a noi: mai sentiti tanti “Pietro”, ora, laddove il normale “Taricone” era quasi d’obbligo, ieri. Il “Pietro” era dei fan e dei parenti, al massimo della Bignardi, ora è di tutti. È solo la morte ad aver consentito a Pietro Taricone una perfetta familiarità: nel cognome, che suonava pure da soprannome, residuavano le zone di ambiguità che scoraggiavano dall’eccessiva familiarità, sicché “Taricone”, oggi, sembra poco adeguato e, come liberato da ogni ambiguità, abbiamo “Pietro”.
Non che Pietro Taricone non ci avesse provato, anzi, poverino, ci teneva tanto, ma partiva svantaggiato, con l’essere entrato nello spazio pubblico col più ambiguo dei ruoli: la rappresentazione della naturalità, che poi fu il gioco di stare in una casa di vetro.
Probabilmente il concetto di intimità è cambiato dal Grande Fratello in poi, almeno un poco, e Pietro Taricone pare aver finalmente toccato una condizione che ci è familiare: è morto pure.

martedì 29 giugno 2010

“Disposizioni urgenti”


Il 4 giugno 2008 una sentenza della Cassazione riconosceva un diritto di indennizzo agli italiani deportati in Germania nel corso della II guerra mondiale per essere destinati al lavoro forzato nell’industria bellica tedesca. La Germania aveva istituito nel 2001 un fondo che destinava 7.500 euro ad ogni ex deportato (eventualmente ai suoi eredi), ma negava l’erogazione della somma a quanti all’epoca dei fatti fossero militari, perché da considerare prigionieri di guerra, in favore dei quali l’Italia rinunciato ad ogni rivendicazione con la firma del Trattato di pace del 1947. La Cassazione stabiliva che all’indennizzo avessero diritto non solo i civili, ma anche i militari, dichiarando irrilevante la richiesta di “immunità di Stato estero dalla giurisdizione italiana”, avanzata dalla Germania.
Non finiva qui. Un decreto-legge del 28 aprile 2010, poi convertito in legge giusto una settimana fa (98/23.6.2010), dettava “disposizioni urgenti in tema di immunità di Stati esteri dalla giurisdizione italiana”, recependo in pieno le ragioni tedesche. L’art. 1 di quella che ora è legge dello Stato italiano recita: “Fino al 31 dicembre 2011, l’efficacia dei titoli esecutivi nei confronti di uno Stato estero è sospesa di diritto qualora lo Stato estero abbia presentato un ricorso dinanzi alla Corte internazionale di giustizia, diretto all’accertamento della propria immunità dalla giurisdizione italiana, in relazione a controversie oggettivamente connesse a detti titoli esecutivi. La sospensione dell’efficacia cessa con la pubblicazione della decisione della Corte. I procedimenti esecutivi e/o conservativi basati sui titoli la cui efficacia è sospesa non possono essere sottoposti e, se proposti, sono sospesi. La sospensione opera di diritto ed è rilevata anche d’ufficio dal giudice. A tale fine, prima di adottare provvedimenti esecutivi o conservativi nei confronti di uno Stato estero il giudice accerta se sia pendente un giudizio per l’accertamento dell’immunità dalla giurisdizione italiana, anche mediante richiesta di informazioni al Ministero degli affari esteri…”.

Al Senato, nel corso della discussione sulla conversione in legge, c’è stato chi ha posto la priorità del principio che pone “un limite alla sovranità degli Stati, dato dalla violazione di valori universalmente riconosciuti”, sulle ragioni della diplomazia, spesso disposta a sacrificarli in cambio di buone relazioni internazionali, dichiarandosi perciò contrario, e invano, a quella condizione di squilibrio posta nell’avere, “da un lato, una ragione politica e la ragione della sovranità e, dall’altro, [i diritti del]le vittime”, “da un lato, il realismo politico delle relazioni internazionali e, dall’altro, i principi generali”; e così concludeva: “Il ricorso di fronte alla Corte di giustizia dell’Aja da parte del Governo tedesco è del dicembre 2008. Vi era il tempo per muoversi diversamente, lo dico con dolore. Non siamo riusciti neanche a sentire quelle vittime… non abbiamo neppure avuto il tempo per una audizione…” (Pietro Marcenaro, Pd - Senato, 16.6.2010).
Ma ormai la legge è legge dello Stato e, in nome delle buone relazioni diplomatiche con la Germania, alla quale l’Italia riconosce in questo ambito l’immunità dalla propria giurisdizione, dovremo rinunciare a far valere i diritti di quanti potrebbero avanzare richiesta di risarcimento ad uno Stato estero per aver subito un danno del quale sia dimostrabile la responsabilità di quello.
Idea partorita dal Governo nell’aprile di quest’anno, mentre in mezzo mondo fioccavano richieste di risarcimento alla Chiesa di Roma per le sue responsabilità nella gestione del clero pedofilo. Si spiega perché le disposizioni fossero “urgenti”.

[...]




Piano con le conclusioni


Avvenire spiega che succede in Oregon adesso che i legali di un tizio stuprato da un prete quando era un ragazzino sono autorizzati a chiederne conto alla Chiesa. Succede, spiega Avvenire, che adesso quel tizio “dovrà dimostrare che il sacerdote che a suo dire lo molestò negli anni Sessanta può essere considerato un dipendente del Vaticano”, sennò lo prende ancora a quel posto. Probabilmente ai legali del tizio converrà procedere per esclusione: non era una spia russa, non era un mafioso siciliano, non era un militante di al Qaeda... Avvenire ha ragione: non sarà facile arrivare a dimostrare che un sacerdote cattolico, per anni spostato dalla Santa Sede di diocesi in diocesi, avesse un rapporto di dipendenza proprio dalla Santa Sede.

Mi arrendo e però


Pure Avvenire – perfino Avvenire – ritiene che quei “possibili errori di valutazione” siano la cosa notevole del comunicato che la Sala Stampa Vaticana ha diffuso riguardo alla Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli: mi arrendo, dev’essere così. Ma se presuntivi e consuntivi di Propaganda Fide erano correntemente approvati dalla Segreteria di Stato, se i “possibili errori di valutazione” di Sepe erano correntemente autorizzati da Sodano, vogliamo informarne la Procura di Perugia?

Vergogna, maniaci!


Tutti a star lì in attesa dell’uscita della Gazzetta Ufficiale per fottere Brancher sul tempo e sapere prima di lui che deleghe ha.

Una rotonda sul mare / 2



Domanda retorica per domanda retorica


Cominciamo col dire che Andrew Ronan – il prete pedofilo che ha potuto commettere abusi sessuali su minori in Irlanda, in Illinois e in Oregon grazie alla copertura offertagli dalla Chiesa che invece di denunciarlo alla giustizia civile si è limitata ogni volta a offrirgli nuove vittime in un’altra diocesi – cominciamo col dire, dicevo, che Andrew Ronan non è morto nel 1982, come riporta Il Foglio nel suo patetico editorialino di martedì 29 giugno (Prego, processate la Chiesa), ma nel 1992. In sé l’errore non sarebbe affatto grave, se non fosse che, facendolo morire nel 1982, Il Foglio può confezionare questo gioiellino: “Il prete è morto nel 1982, un anno prima che l’avvocato Anderson cominciasse la sua brillante carriera”, giacché è “a partire dal 1983 [che l’avvocato delle vittime di Andrew Ronan] ha costituito una formidabile macchina legale capace di agire in giudizio, con successi multimilionari nei risarcimenti, in danno della Chiesa di Roma”. Sembra niente, ma con questo piccolo trucchetto la battaglia legale di Anderson puzza almeno un poco di persecuzione a scopo di estorsione.
Armato della sua “formidabile macchina legale” (il lessico ci invita a immaginarcela arma micidiale puntata su uomini miti e inermi), l’avvocato già è il pezzo di merda che Il Foglio vuol farci credere: ci resta solo da decidere se a muovere in lui l’ossesso sia odio anticristiano o mera avidità.
In realtà, l’ossesso è mosso da altro: un ex prete cattolico abusò di una sua figlia, quando questa aveva 8 anni. Ma su questo Il Foglio tace, sarà per la sua rinomata delicatezza e discrezione nei confronti delle vittime degli abusi sessuali commessi da preti, quand’anche ex.

“I nove giudici della Corte suprema di Washington – piagnucola l’editorialino – hanno deciso di non esaminare il ricorso vaticano contro la pretesa di processare la chiesa per la «copertura» di casi di abuso carnale su minori”. E avranno avuto le loro ragioni, via, Il Foglio se ne faccia una.
“È possibile considerare la gestione dei trasferimenti di un prete, il governo paterno della sua anima, la dialettica di perdono e giustizia tra legge canonica e autorità civile, come un fastidio di cui sbarazzarsi?”. Macché, tutto il contrario: si tratta di lasciar giudicare a chi di dovere se questa “dialettica” non abbia generato un sistema di omertosa complicità e di cinico favoreggiamento. Ai tempi in cui Andrew Ronan veniva spostato da una riserva di caccia ad un’altra, erano vigenti le disposizioni contenute nella Crimen sollicitationis: prendiamola, leggiamola e vediamo se per caso non fosse la Chiesa di Roma, attraverso il braccio della sua Congregazione per la Dottrina della Fede, a pianificare il sistema, a ordinare il silenzio (pena la scomunica).
“Lo stato può punire un prete che compie un delitto contro i minori, anzi deve, ma può anche mettere sotto processo la Chiesa di Roma come fosse una cupola che protegge il malaffare?”. Perché bisogna dare per scontato che non possa esserlo? E se si scopre esserlo, perché non dovrebbe renderne conto? Nessuna presunzione di colpevolezza, ma nessun privilegio di immunità: ai giudici decidere, come hanno già deciso, per esempio in Texas. Mica siamo in Italia, dove i giudici sono tutti comunisti senzadio.

Ma di tutte le domande retoriche che chiudono questo infelice pezzullo la più carina è l’ultima: “Come se la sua specifica moralità, la sua dottrina, la sua esperienza e la sua pastorale, confessione compresa, fossero a disposizione del braccio secolare della legge?”. Domanda retorica per domanda retorica: se producono crimine, perché no?

Stando al testo


La nota sulla Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli diffusa ieri dalla Sala Stampa Vaticana viene letta un po’ da tutti come pressoché esplicita ammissione della Santa Sede che la gestione del cardinale Crescenzio Sepe non sarebbe stata in tutto accorta. Non è in discussione se lo sia stata o no, ma se nel testo vi sia questa ammissione. E io non ce la trovo.
Il passaggio che la conterrebbe sarebbe il seguente: “La Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli ricava le sue risorse principalmente dalla colletta della Giornata missionaria mondiale, interamente distribuita tramite le Pontificie Opere Missionarie nazionali, e, in secondo luogo, dai redditi del proprio patrimonio finanziario ed immobiliare. Il patrimonio si è formato nel corso dei decenni grazie a numerose donazioni di benefattori di ogni ceto, che hanno inteso lasciare parte dei loro beni a servizio della causa dell’evangelizzazione. La valorizzazione di tale patrimonio è naturalmente un compito impegnativo e complesso, che si deve avvalere della consulenza di persone esperte sotto diversi profili professionali e che, come tutte le operazioni finanziarie, può essere esposto anche ad errori di valutazione e alle fluttuazioni del mercato internazionale. Cionondimeno, a testimonianza dello sforzo per una corretta gestione amministrativa e della crescente generosità dei cattolici, tale patrimonio ha continuato ad incrementarsi”.
“Può essere esposto… cionondimeno…”: fin qui, stando al testo, la possibilità di errori non si sarebbe realizzata e se ne dà il merito a una “corretta gestione amministrativa”, la stessa che fu formalmente riconosciuta al cardinale Sepe al termine del suo mandato.
E dunque dove si leggerebbe l’ammissione che Sua Eminenza abbia commesso errori?

“La competenza spetta unicamente al Papa”


Una nota della Sala Stampa Vaticana rammenta che “nella Chiesa, quando si tratta di accuse contro un cardinale, la competenza spetta unicamente al Papa”. L’occasione è data dal cazziatone pontificio a Schönborn (udienza del 28.6.2010), colpevole di aver mosso a Sodano, e pubblicamente (kathpress.co.at, 4.5.2010), l’accusa di aver coperto i crimini di alcuni preti pedofili austriaci, nel 1995, quando questi era Segretario di Stato, e di aver arrecato offesa alle vittime, lo scorso 4 aprile (messaggio d’augurio pasquale al papa), definendo “chiacchiericcio” la loro richiesta di giustizia.
Ai sensi del combinato disposto dei cann. 76, 113, 273, 275 (§ 1), 331, 333 (§ 2), 334, 336, 349, 352 (§ 1) del Codice di Diritto Canonico, il cazziatone ci stava tutto. Al limite, volendo proprio esagerare, ci stava pure qualcosina in più (can. 1389). Tenuto conto, poi, che a usare il termine “chiacchiericcio” era stato in precedenza lo stesso Benedetto XVI (omelia del 28.3.2010), diciamo che Schönborn se l’è andata proprio a cercare.
Alla fin fine, però, tutto questo è secondario: resta il principio che “nella Chiesa, quando si tratta di accuse contro un cardinale, la competenza spetta unicamente al Papa. Chissà se sarà richiamato una di queste volte che, a muovere le solite micidiali accuse di apostasia al cardinale Carlo Maria Martini e al cardinale Dionigi Tettamanzi, torni il vescovuzzo dell’ultima delle diocesi del Veneto, il solito pretonzolo di Comunione e liberazione o addirittura un comune baciapile laico. Che peraltro non si sono astenuti dall’accusare Schönborn di alto tradimento, fuor d’ogni loro competenza.

   

lunedì 28 giugno 2010

Il Vaticano può essere considerato civilmente responsabile delle azioni dei preti pedofili (al momento in Oregon)





Una rotonda sul mare / 1




’A Maronna c’accumpagna!


Oggi la Sala Stampa Vaticana ha diffuso una nota ufficiale “a tutela della buona fama della Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli [già Congregatio de Propaganda Fide] sporcata dagli affari di quando era suo prefetto il cardinale Crescenzio Sepe”, così Sandro Magister nell’introdurla.
Ora c’è da dire che la nota non fa alcun cenno critico alle passata gestione del cardinale Sepe, avendo a modello l’impianto del Profilo che il sito della Santa Sede dà alla Congregazione. Non è da escludere che, a tutela della sua immagine, la Sala Stampa Vaticana abbia voluto ribadirne i fini (“guidare e sostenere le giovani Chiese situate in territori di recente o scarsa evangelizzazione [...] coordina[re] la presenza e l’azione dei missionari nel mondo [...] sottopo[rre] al Santo Padre i candidati all’Episcopato [...] [curare] la formazione del clero locale, dei catechisti, degli operatori pastorali”), proprio per evitare che sia considerata come mera cassaforte di una discreta porzione dei beni immobiliari di proprietà ecclesiastica, come potrà erroneamente essere sembrato a chi è poco addentro alle cose vaticane, già impenetrabili per conto loro. Sì, vabbe’, ma “sporcata dagli affari di quando era suo prefetto il cardinale Crescenzio Sepe” – come si permette, il Magister?

Solo indagato, nemmeno rinviato a giudizio, men che meno condannato – come si permette, il Magister, di dare per assodato che Sua Eminenza trattasse affari sporchi? Ha sentito o non ha sentito, il Magister, quello che il cardinale Sepe ha detto lo scorso 21 giugno in conferenza stampa? “Tutto ho fatto, comunque, nella massima trasparenza, avendo i bilanci puntualmente approvati: ogni anno il preventivo e il consuntivo venivano inviati alla Prefettura per gli affari economici e alla Segreteria di Stato, che li hanno puntualmente approvati. Anzi, la stessa Segreteria di Stato in una delle ultime lettere inviatemi, a conclusione del mio mandato di Prefetto, volle esprimere apprezzameno e stima per la mia gestione amministrativa”. E chi l’ha smentito? Non la Segreteria di Stato, non la Prefettura per gli affari economici.
E allora come si permette, il Magister, in disprezzo della presunzione di innocenza di chi qui non è neanche imputato, di parlare di affari sporchi?

[Il presente post è stato copia-incollato e inviato come messaggio a Sua Eminenza (sono suo “amico” su Facebook) con la sola aggiunta in chiusa del presente invito: “Eminenza, difenda la sua reputazione dalle offese di questo irresponsabile calunniatore: lo quereli. ’A Maronna c’accumpagna!”]

Collezione primavera-estate 2010

“Il mistero della pera è stato svelato, non c’è più mistero, non c’è mai stato mistero”
Stefano Bartezzaghi, Scrittori giocatori, Einaudi 2010 - pag. 262

“L’Italia non ha mai conosciuto la rivoluzione liberale e non la vuole. Tutti vogliono più Stato, più protezioni, più sussidi, più incentivi, e perciò più tasse. La classe politica, imprenditoriale e culturale italiana mostra […] che l’Italia è un Paese naturalmente di sinistra, non di destra, anche quando vuol essere governata dalla destra. Fra libertà e uguaglianza, fra autonomia individuale e giustizia sociale, sceglie sempre la seconda. Compreso il mondo cattolico […] È l’Italia di sempre, che andrà avanti come sempre, inutile piangerci su” (La Stampa, 27.6.2010).
D’istinto verrebbe da sottoscrivere la mesta riflessione di questo sedicente liberale che è il Marcello Pera della collezione primavera-estate 2010. Sedicente, ma qui mimeticamente ben riuscito, almeno ad una prima occhiata. In più, c’è quel “compreso il mondo cattolico” che dà alla mimesi liberale un drop perfetto, facendo ritenere superati i gravi infortuni estetici delle passate collezioni: quella autunno-inverno del 2004 (Senza radici) e quella autunno-inverno del 2008 (Perché dobbiamo dirci cristiani). Lì sfilarono modelli che accostavano il liberalismo al cattolicesimo con grande disinvoltura, oggi il Pera dice che l’accostamento stride. Non c’è relativismo peggiore di quello che impera nel mondo della moda.

Verrebbe da sottoscrivere, mettendoci un “bentornato, Marcello”. E però c’è un buco nella mimesi: l’antitesi posta tra autonomia individuale e giustizia sociale. Bene, c’è una giustizia sociale che non è antitetica all’autonomia individuale, un liberale lo dovrebbe sapere ed evitare di usare una categoria come “sinistra” per intendere “illiberale”, per spacciarci la sua brutta mimesi “liberale” come cosa di “destra”. La giustizia sociale di un liberale decente rigetta l’egalitarismo ma anche la rendita parassitaria dei privilegi che la destra allega ai tradizionali detentori di “valori non negoziabili”. La giustizia sociale di un liberale non esita a radere al suolo gli istituti delle tradizionali prepotenze di individuo su individuo.
Insomma, “bentornato” un cazzo. Rattoppiamo quel buco, ne riparliamo alla prossima sfilata.


«We’re less inhibited»


“«We’re less inhibited, not as cautious about talking about it as in the past» said Sandro Magister, a veteran Vatican journalist in Italy. «There’s been a kind of contagion from other countries» where it was openly discussed, he added” (The New York Times, 26.6.2010).
Era inibito, poverino. Aspettava di essere contagiato.

Io ho un’altra tesi, l’ho già esposta in forma di obiezione a quella di un altro vaticanista italiano, l’ennesimo inibito (“Il giornalista in Vaticano non deve mai venire meno alla legge dell’ospitalità: può scrivere la verità con garbo, usando l’espediente di far intendere invece che dire”).
Scrivevo: “Vale solo per i vaticanisti italiani, perché all’estero non è difficile trovarne di quelli che si pigliano la libertà di trattare il Vaticano come un sinologo può pigliarsi la libertà di trattare la Cina. Cagare nella Sala del Trono della Città Proibita, quello no, ma a un sinologo è lecito scrivere che in Cina c’è una schifosissima dittatura? Se è un sinologo cinese, la cosa non conviene. Bene, direi che i vaticanisti italiani sono sempre stati ospiti così garbati da diventare prima o poi tutti di casa, e della casa hanno pigliato le abitudini, perfino l’aspetto che hanno i servi dei padroni di casa, però dei servi di livello superiore, gente dalle unghie ben curate e dai polpastrelli mollicci. Come dire: sinologi cinesissimi, assai garbati verso la schifosisima dittatura cinese. A me – al lettore – non è che nascondano la verità, questo no, ma me la rifilano con un espediente, talvolta l’eufemismo, talvolta la reticenza, talvolta l’attenuazione, talvolta la metonimia... Se colgo l’allusione nella figura retorica, entro in vibrazione sincrona col vaticanista e allora riesco a coglierne il messaggio, forse. Sennò vuol dire che son zotico, la verità mi sfuggirà e di un vaticanista del genere mi farò l’idea sbagliata, quella di un ipocrita qualunque, cui conviene esserlo” (I vaticanisti vaticani - Malvino, 9.4.2009).
Che poi è l’idea che m’ero fatto di Sandro Magister.

Supplica



Quando avrai messo le mani su costui, o plebe di Piazzale Loreto, sii clemente: era disarmato già in partenza.

Bingo!


Giuliano Ferrara firma un pezzullo loffio e piagnone sulla vicenda di Malines (Il Foglio, 28.6.2010), nel quale in sostanza lamenta “una vasta crociata «antipedofila» contro il clero cattolico” condotta col “metodo di una giustizia fanatizzata, di un ordito politico con pretese di giacobinismo intollerante”, di cui sarebbe prova il fatto che la Chiesa è chiamata a rispondere del suo clero in una fattispecie di “concorso esterno in reato di pedofilia”, in dispregio del principio della “responsabilità personale nel crimine”. Pare che gli sfugga che la responsabilità penale è personale anche per chi commette il reato di favoreggiamento e che la Chiesa non è chiamata in toto a rispondere degli abusi sessuali su minori commessi dai suoi preti, ma di complicità fatta sistema in un ordinamento interno che imponeva l’omertà ai suoi membri, nel mentre consentiva che i preti pedofili continuassero a commettere abusi sessuali su minori, di diocesi in diocesi. O forse non gli sfugge, ma cerca solo di imbrogliare le carte, come al solito. E tuttavia il pezzullo ha un rimprovero anche per la Chiesa: non ha fatto muro, s’è sbracata, non ha dato ascolto a Giuliano Ferrara, che consigliava “resistenza”. Il Papa è consigliato male, ma non si azzarda a dirlo esplicitamente.
Ci pensa il vaticanista de Il Foglio, che sul suo blog scrive: “In Belgio la Chiesa cattolica subisce affronti che denotano quanto la linea della trasparenza totale rispetto alla pedofilia nel clero più volte evocata dai collaboratori del Papa sia altamente problematica”. E così comprendiamo che la “resistenza” era da intendersi come rifiuto della “trasparenza totale”: la “trasparenza totale” si rivela “problematica”, come ogni volta in cui è conveniente coprire qualcosa. Bingo!

domenica 27 giugno 2010

Aksak Maboul



[...]


Gentile lettore, ti sei risparmiato quattro recensioni (Colin Crouch, Postdemocrazia, Laterza 2005; Maurizio Viroli, Come se Dio ci fosse, Einaudi 2009; Paul Verhoeven, L’uomo Gesù, Marsilio 2010; Stefano Bartezzaghi, Scrittori giocattoli, Einaudi 2010): 32.000 battute che la pen drive rifiuta di restituirmi e che io mi rifiuto di riscrivere. Però ti consiglio il Verhoeven e, soprattutto, il Bartezzaghi. Soprattutto il Bartezzaghi. 

Alla faccia dell’equipollenza


Francesco D’Agostino scrive: “C’è una laicità «buona», ce n’è una «cattiva»…”. Non sbuffate, siate carini: sta riscaldando la solita minestrina, è vero, però adesso metterà quel tanto di piccante da renderla mangiabile: una correlazione farlocca.
E dunque: “C’è una laicità «buona», ce n’è una «cattiva» e, per soprammercato, ce n’è una «pessima». Qualcosa del genere capita anche per un altro termine di estrema complessità e cioè «religione». C’è una religione «buona» […] c’è una religione «cattiva» […] e c’è (purtroppo) una religione «pessima»”.

Di qualsiasi cosa possiamo dire, se vogliamo, essercene una buona, una cattiva e una pessima: provate, funziona con tutto. Ma di là da questa comune (comunissima) qualità, laicità e religione sono equipollenti? Solo se rendiamo equipollente ciò che intendiamo per «buono» quando parliamo di laicità a ciò che intendiamo per «buono» quando parliamo di religione, e così con «cattivo» e per «pessimo». Ora, la correlazione suggeritaci dal D’Agostino dà per scontato che “la massimizzazione della tutela e della promozione dei diritti umani e delle libertà civili” (il buono che starebbe nella «buona» laicità) si possa definire equipollente alla “percezione che in tutti gli uomini c’è un autentico anelito all’infinito” (il buono che starebbe nella «buona» religione). Ma questo è corretto?

C’è equivalenza di valore tra un principio includente come “la massimizzazione della tutela e della promozione dei diritti umani e delle libertà civili” e quello escludente di chi dà per assodato che l’“anelito all’infinito” dimostri il trascendente? Sì, perché il D’Agostino dice che il «buono» che sta nella laicità dà due sole opzioni: “un Dio personale” o “un divino impersonale”. Né l’uno né l’altro? Vi fottete: senza una qualche divinità non siete «buoni» laici, tutt’al più dei laicacci o, “per soprammercato”, dei laici di merda.
Idem con la «cattiva» religione e la «cattiva» laicità, dove l’equipollenza è posta tra ciò che “guarda con disprezzo le confessioni di fede diverse dalla propria” e ciò che porta a “ritenere che tutte le religioni siano forme premoderne, infantili, mitologiche o comunque immature di pensiero”. Ma c’è equivalenza di valore tra il ritenere che tutte le religioni siano “forme immature di pensiero” e il ritenere che lo siano tutte tranne una (la propria)? Solo dando per assodato che il disprezzo per tutte le “forme immature di pensiero” abbia qualcosa in comune al disprezzo per “le confessioni di fede diverse dalla propria”.

Ma è così? Non avevamo detto che un laico è già «cattivo» se nega il trascendente? Stiamo mica cercando di deformare le accezioni di laicità e di religione per adattarle a forza a ciò che per assodato diamo per «buono» e «cattivo» per l’una e per l’altra? Possibile che il D’Agostino ricorra a trucchetti del genere? Vediamo con la «pessima» religione e la «pessima» laicità.
La prima “ritiene che i credenti in altre religioni vadano perseguitati, convertiti coercitivamente o addirittura sterminati”, la seconda “ritiene doveroso perseguitare ogni dimensione di pensiero e di pratica religiosa”. Ce n’è di che considerare il cristianesimo una «pessima» religione fino a qualche secolo fa e la Dominus Iesus, che a giorni fa dieci anni, non troppo «buona», quasi «cattiva»: possibile che il D’Agostino voglia osare tanto?
Di più: c’è di che considerare «pessima» solo la laicità di quanti hanno perseguitato ogni dimensione di pensiero e di pratica religiosa (ce ne sono più?), ma già «cattiva» la laicità di chi nega il trascendente (e non sono pochi).

In definitiva, basta poco a un cristiano per essere «buono»: basta che rinneghi una dozzina di secoli. A un laico, invece, un po’ troppo: ammettere una dimensione trascendente, antecedente e superiore all’“arbitrio di chi detenga occasionalmente il potere (chiunque esso sia, un soggetto individuale o un soggetto collettivo, come nelle democrazie moderne)”. Il laico «buono», insomma, è quello che nega anche alla democrazia il diritto di toccare i cosiddetti “valori non negoziabili”, fra i quali occorrerà rammentare l’indissolubilità del matrimonio e l’indisponibilità del proprio corpo, a mo’ d’esempio.
Basta che un cattolico rinunci a sgozzare protestanti e a definire “perfidi” gli ebrei, e già è un «buon» cattolico. Per essere un «buon» laico ci vuole molto di più: praticamente pensarla come un cattolico su tutto ciò che un cattolico ritiene essere “bene comune di tutti”. Alla faccia dell’equipollenza.


Postilla
Avevo in mente un post di tutt’altro genere: “La lettura di Francesco D’Agostino [e qui ci avrei piazzato il link] mi eleva, nel senso che mi fa due palle enormi”. Stop. Però mi sembrava troppo ellittico, così mi sono dilungato. Chiedo scusa ai patiti della brevitas.

[...]

256 passanti

Robe che invocano la vendetta di Dio



La foto ritrae un vescovo all’uscita dall’arcivescovato di Malines nel quale è stato trattenuto per 0,001027397260 anni (9 ore) subendo un trattamento peggiore di quello che era riservato ai vescovi nei regimi comunisti, come dimostrano gli occhiali rotti, i vestiti laceri, le vaste ecchimosi e l’espressione stravolta.


“Il fascino del calcio”


Ciò che per Joseph Ratzinger (*) spiegherebbe “il fascino del calcio” vale per ogni gioco di squadra, anche assai meno popolare e, dunque, non spiega niente. Anche il curling “costringe l’uomo a imporsi una disciplina in modo da ottenere, con l’allenamento, la padronanza di sé”, anche nel curling “il successo e l’insuccesso di ogni singolo stanno nel successo e nell’insuccesso del tutto”, anche col curling “la regola comune, cui ci si assoggetta, rimane l’elemento che lega e unisce nell’opposizione”, e tuttavia il calcio ha una platea che il curling non ha mai avuto.
Pagina infelice, riflessione superficiale, però di un qualche interesse se si tiene conto che è del 1985, l’anno del famigerato Sinodo straordinario dei vescovi, dal quale sarebbero venute le linee tattiche della reconquista cattolica. Se leggiamo ciò che Joseph Ratzinger scrive sul calcio come una meditazione su ciò che ha da essere valorizzato in una impresa che miri ad affascinare grandi masse, la pagina si fa più felice, la riflessione diventa meno superficiale e il calcio si rivela strumento di metafora: “Riflettendo su queste cose, potremmo nuovamente imparare dal gioco a vivere, perché in esso è evidente qualcosa di fondamentale: l’uomo non vive di solo pane, il mondo del pane è solo il preludio della vera umanità, del mondo della libertà. La libertà si nutre però della regola, della disciplina...”. Affascinante.

(*) Joseph Ratzinger, Cercate le cose di lassù, Edizioni Paoline 1986 – riproposto da Avvenire, venerdì 25 giugno, col titolo Il campo insegni la disciplina.

Ghana



Uno ci rimette la faccia, ma ci vuol niente a rifarsela



“Uno passa buona parte della sua età adulta a sostenere che il berlusconismo non è un fenomeno criminale ma politico, che il Cavaliere ha successo perché ha un messaggio e non soltanto un mezzo (televisivo), che vince le elezioni perché incarna un’idea e una speranza e non perché l'Italia è fatta di una maggioranza di corrotti e di evasori che si identifica con lui. Uno passa gli anni a dire che il berlusconismo va compreso e non demonizzato, che perfino nelle sue menzogne c’è del vero. Che, certo, lui si fa le leggi per salvarsi dai processi, ma anche i processi che gli fanno non sono proprio tutti a prova di bomba. Che, di sicuro, non si può permettere di insultare la magistratura e di contestare l’autonomia costituzionale del potere giudiziario, ma che a vedere come si comportano certi magistrati e come talvolta usano la loro indipendenza si capisce che la Giustizia italiana ha comunque urgente bisogno di una radicale riforma. Uno ci mette la faccia e ci rimette anche qualche rapporto di amicizia per spiegare che perfino l’immunità pro-tempore per il capo del governo non è in sé una bestemmia, che anzi in alcuni paesi è prevista, e che comunque esiste la necessità di proteggere l’esercizio del mandato popolare. Poi Berlusconi, con il favore delle tenebre, senza dire niente a nessuno, nomina l’amico, sodale e imputato Aldo Brancher ministro del nulla, e Aldo Brancher attua immediatamente - invece del federalismo - il legittimo impedimento per evitare il suo processo. E ti chiedi dove hai sbagliato”.

Così, su il Riformista di venerdì 25 giugno, il suo ineffabile direttore. Il quale, con la rinuncia di Brancher a usare il legittimo impedimento, potrà tirare un sospiro di sollievo e pensare che non ha sbagliato niente. Potrà perfino pensare di rifarsi la faccia persa.

sabato 26 giugno 2010

La metafisica


Con l’ordinanza di sequestro degli archivi dell’arcidiocesi di Malines, contenenti dati cui la Chiesa non intendeva dare accesso alla magistratura inquirente facendo vera e propria resistenza fisica, in Europa si risveglia un bisogno di metafisica, ma di quella sana.

O Vaticano de Bento XVI


In 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7 spezzoni (ciascuno di circa 5 minuti) è reperibile su Youtube un documentario di produzione portoghese dal titolo O Vaticano de Bento XVI, che merita attenzione. Il commento è in portoghese, naturalmente, e si sovrappone all’audio sorgivo delle riprese, che è in lingua inglese, tedesca e perfino latina, mentre le scritte in sovraimpressione sono in spagnolo, ma se adottate l’interfaccia giusta – vedete voi un po’ quale – ve la cavate.
Riprese interessantissime, ravvicinate, che s’offrono allo studio di ogni singola espressione, di ogni occhiata, di ogni accento, e tono, e posa degli eminentissimi: soprattutto del cardinale Joseph Ratzinger, lì eternato sul finire degli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta, ma anche del cardinale Edmund Skoza, numero uno dell’Operazione Giubileo e a quei tempi Governatore della Città del Vaticano. Di questi è interessante la lezioncina giuridica in 5 (0:54-2:07), di Ratzinger è interessante il passaggio in cui spiega come sente il suo passaporto diplomatico, in 4 (2:42-3:22).
È tutta roba che può tornare utile nel dare al caso Sepe la corretta misura, che – ripeto – non è giudiziaria, ma politica: la politica dei rapporti tra Santa Sede e Repubblica italiana. Punta di rilievo del documentario, in questo senso, sta in un futuro Benedetto XVI che avrà tra le mani il caso Sepe e che dice: “Direi che lo Stato del Vaticano e l’amministrazione che qui si svolge non è molto differente, né più misteriosa, di quella di una grande impresa o di una organizzazione politica”. Bene, tutt’è che a dare conto della bestia sia chi ne è indiscutibile padrone, così usa tra i laici.

[...]


Sull’origine extraterrestre degli Ufo non si discute, ma non si tratta di navicelle spaziali che arrivano da chissà quale luogo nella nostra galassia o addirittura da fuori: la Madonna ci ha rivelato, fin dal 1973, che si tratta di “mezzi di trasporto dell’inferno” e che “vengono da Satana”, “per far credere all’esistenza di altri esseri viventi sugli altri pianeti”.
Roberto mi segnala un post di pontifex.roma.it e, riprendendo una mia ipotesi, commenta: “Se non è un fake, è da trattamento sanitario obbligatorio”. Sì, ma in entrambi i casi, sul piano teologico, la rivelazione fattaci dalla Madonna riguardo agli Ufo sarebbe meno compromettente delle dichiarazioni fatte da padre José Gabriel Funes, direttore della Specola Vaticana, non molto tempo fa: “La possibilità che esistano altri mondi e altre forme di vita non contrasta con la nostra fede” (L’Osservatore Romano, 13.5.2008), mai dichiarata errata dalla Congregazione per la Dottrina della Fede (cfr. Materia bollentissima, Malvino 16.5.2008).
Pazzi, quelli di pontifex.roma.it, e però in quella pazzia c’è un metodo. Se si tratta di pazzerelloni, invece, bisogna riconoscer loro una solidissima preparazione su quanto è oggetto delle loro parodie.

venerdì 25 giugno 2010

Era meglio che non lo spiegavi e lo lasciavi nel vago


“Luciano Canfora ha riferito di aver letto con «una certa impressione» […] una lettera del 24 febbraio 1934, in cui Guido Gonella, «collaboratore de L’Osservatore Romano» negli anni del fascismo […] richiede all’ambasciatore d’Italia presso la Santa Sede la tessera d’iscrizione al Partito nazionale fascista” (L’Osservatore Romano, 25.6.2010), e si capisce che con «una certa impressione» ci avrà messo pure un poco di ironia, forse. Ma L’Osservatore Romano dà notizia di un documento che spiega tutto: si rimangi l’ironia, se c’era: “È una lettera ufficiale della Regia Università degli Studi di Roma che [comunica] al giovane […] l’assegnazione di un sussidio di lire duemila”.
Un venduto, si direbbe? Ma no: “Nel 1931 in Italia era stata fondata l’Associazione fascista della scuola, diretta emanazione del Pnf […] e per i docenti universitari c’era l’obbligo del giuramento di fedeltà. Nel 1933 poi fu stabilito l’obbligo della tessera del Pnf per accedere ai concorsi. Chiunque avesse prestato servizio all’università (salvo quanti beneficiassero di rendite personali o di beni al sole) era costretto a iscriversi”. Rammentando che ci fu chi non si piegò, il Gonella pare proprio un venduto: L’Osservatore Romano ci impedisce solo l’ironia.

L’inconsapevolezza


Giovanni Paolo II non voleva che sulla Humanae vitae di Paolo VI restassero quei dubbi che avevano portato perfino alti prelati e qualche teologo di peso a contestarne l’autorità, sicché ne ribadì con forza i contenuti nella sua Evangelium vitae. Lo fece con tanta forza – afferma il cardinale Carlo Maria Martini (Conversazioni notturne a Gerusalemme, Mondadori 2008), citato da Paolo Rodari (Il Foglio, 25.6.2010) – che “pare avesse perfino pensato a una dichiarazione che godesse il privilegio dell’infallibilità papale”.
Ora è evidente che Sua Eminenza sia fra quanti ritengono che il Papa non parli necessariamente ex cathedra quando scrive un’enciclica. Non è mia intenzione entrare nel merito, andremmo troppo lontano da una questione che qui intendo circoscrivere a un solo punto: oltre al farci un pensierino, Giovanni Paolo II non l’ha fatto?
“Con l’autorità che Cristo ha conferito a Pietro e ai suoi Successori, in comunione con i Vescovi della Chiesa cattolica, confermo che l’uccisione diretta e volontaria di un essere umano innocente è sempre gravemente immorale. Tale dottrina, fondata in quella legge non scritta che ogni uomo, alla luce della ragione, trova nel proprio cuore, è riaffermata dalla Sacra Scrittura, trasmessa dalla Tradizione della Chiesa e insegnata dal Magistero ordinario e universale” (Evangelium vitae, 57). È azzardato leggervi un “qui sto parlando ex cathedra”?
Si dice che solo la materia dogmatica è quella data ex cathedra, ma allora come spiegare il riferimento che in chiusa alla suddetta formula rimanda ad una Costituzione dogmatica (Lumen gentium, 25)?
Ancora: cosa significa “ex cathedra” per quel Concilio Vaticano I che ha sancito il dogma dell’infallibilità papale? Significa: “Quando nell’esercizio del Suo Ufficio di pastore [l’enciclica non è un momento pastorale?] e Maestro di tutti i cristiani, con la sua somma Apostolica Autorità dichiara che una dottrina concernente la fede o la vita morale [l’aborto non vi attiene?] dev’essere considerata vincolante da tutta la Chiesa, in forza dell’assistenza divina conferitagli dal beato Pietro [Giovanni Paolo II non la richiama?], [con] quella infallibilità, della quale il divino Redentore volle munire la sua Chiesa nelle decisioni riguardanti la dottrina della fede e dei costumi” (Pastor aeternus, IV).
Giovanni Paolo II parlò ex cathedra, anche se Martini, forse inconsapevolmente, vuol darci a bere che vi abbia rinunciato, servendosi dell’inconsapevole Rodari.

Non è metter mano alla materia vivente?




“Mi accorgo che non so disegnare né dipingere”
Pierre-Auguste Renoir



I nostri occhi e il nostro cervello ormai si sono abituati al fenomeno che impropriamente è detto impressionismo, ma ci è ancora possibile fare uno sforzo di immaginazione per figurarci la vertigine dei sensi, la rivoluzionaria traveggola di una macchia che per la prima volta dava l’impressione di cosa artificialmente riprodotta, dinanzi ad una tela che ti ridà una rosa in 23 macchie. Con ardita noncuranza, rasente alla sfacciataggine, l’artista – questa fottuta scheggia impazzita della Tradizione che da poco si è liberata dalla commessa del Principe – non cura di dare vita autonoma alla riproduzione, ma costringe l’osservatore a finire il lavoro coi propri mezzi, di quelli fin lì mai usati.
Ci sono correnti pittoriche che hanno attivato aree cerebrali latenti e, anche se la crescita della capacità di vedere è poco celebrata rispetto alle altre acquisizioni della modernità, c’è una bella fetta di cervello che dobbiamo all’esercizio forzato di vertigine e traveggole cui ci hanno sottoposto i maestri dell’arte degenerata. La loro rosa veniva a rappresentarsi tale seguendo altra via, altro circuito, anche altra biochimica, chissà. La rappresentazione s’è decostruita e ricostruita in altro modo, alternativo ma parallelo, acquisito per diventare connaturato.

Non è metter mano alla materia vivente? Non è il tentativo di snaturare la Creazione? E tuttavia si censurano le velleità della scienza ai danni della cosiddetta Natura, mentre nessuno più lamenta la corruzione del processo di rappresentazione: continuano a imporci mordacchia e cintura di castità, ma continuano a dimenticare il paraocchi. E non capiscono che si può tradire la Tradizione e la cosiddetta Natura anche soltanto con un altro modo di guardare.
Né un Prometeo, né un Faust, ma a sovvertire l’ordine ci pensa il figlio del sarto, quello che ti ridà una rosa in 23 macchie.


giovedì 24 giugno 2010

E vinceremo



[...]


È strano che chi qui da noi sostiene il primato della politica anche a discapito dell’autonomia della magistratura, come nel caso in cui si vuole che l’eletto sia ingiudicabile, spezzi una lancia in favore di McChrystal, contro Obama: alle forze armate non si può accordare alcuna autonomia, e qui abbiamo un militare che si permette di contestare ordini che sarebbe tenuto solo ad eseguire. Assai più scandaloso del veto di una Procura su una legge in discussione in Parlamento su proposta del Governo. E tuttavia, giacché imbarazza fortemente Obama, McChrystal è una specie di eroe per i neocon de noantri, sempre più tragicamente fuori tempo massimo, ancora a spararsi pippe sulla Palin. Certo, dà un brivido di piacere vedere che Obama rimuove in quattro e quattr’otto il mero dipendente statale macchiatosi del crimine di lesa maestà, ma è che Obama non incarna la maestà dell’eletto del popolo quando il popolo elegge un repubblicano, e il brivido è moscio. Sì, c’è stato un grave vulnus al primato della politica, ma non l’ha inflitto la magistratura, e non a Berlusconi. Si aggiunga il fascino che la divisa esercita su chi ama l’uomo forte. Si aggiunga il fatto che Obama non somiglia troppo a Bush. Sicché “McChrystal è rock e Obama è lento”.

O ti mangi questa minestra o ti butti dalla finestra


           

62%                                   36%

Vedremo


Una madre aveva chiesto, senza ottenerla, la rimozione del crocifisso dalle aule scolasticche dell’Istituto «Vittorino da Feltre» di Abano Terme (Padova) frequentate dai suoi figli. Rivoltasi alla Corte europea dei diritti dell’uomo, ha visto riconosciute le proprie ragioni nello scorso novembre. A tale decisione l’Italia ha opposto un ricorso che sarà preso in esame mercoledì prossimo per essere accolto o rigettato.
Non si capisce, in realtà, come possa essere accolto: difende l’obbligatorietà del crocifisso in classe sulla base di elementi che la Corte ha già dichiarato incompatibili con l’aconfessionalità di uno stato laico e in patente contraddizione con l’art. 9 della Convenzione europea sui diritti dell’uomo.
Più probabile venga rigettato ribadendo quanto già estesamente argomentato: (1) il crocifisso è un simbolo religioso; (2) è chiaramente identificabile come simbolo di una ben precisa religione; (3) la sua esposizione obbligatoria nelle scuole fa violenza a chi coltiva una diversa fede e a chi non ne ha alcuna; (4) questa violenza è lesiva del principio di libertà di credo religioso e di quello di laicità delle istituzioni pubbliche.
Ogni argomento in difesa del crocifisso in classe deve giocoforza contraddire almeno uno di questi quattro punti, che però sono assai più che impliciti nella Convenzione firmata dagli stati membri del Consiglio d’Europa. E dunque perché l’Italia ha presentato questo ricorso? Perché lo doveva alla Chiesa.

Lo dimostra il fatto che, a pochi giorni dall’esame del ricorso, nel tentativo di far pressione sulla Corte, scendano in campo il presidente del Consiglio e il suo sottosegretario, gentiluomo della Casa Pontificia: non basta più un La Russa a dire che “possono morire, ma il crocifisso non lo leveremo” (questo fa colore, non pressione), c’è bisogno che l’Italia metta in campo i suoi massimi rappresentanti, e lo stesso presidente della Repubblica non si sottrae, invitando a riflettere che, a fronte di un principio pur sacrosanto come quello della laicità dello stato, ci sono in gioco sentimenti da non ferire.
Vedremo in quale conto sarà tenuto il sentimento identitario nazionale che allega a un simbolo religioso l’intero suo bagaglio culturale e l’intero suo patrimonio storico, ma non bastasse, d’appoggio, l’Italia porta alleati pronti a sottoscrivere le sue ragioni: Malta, Repubblica di San Marino, Romania, Monaco, Ucraina e Polonia.
Non è proprio il massimo per una battaglia così nobile. Dove stanno la Francia e la Germania? E il cattolicissimo Portogallo? Vedremo, ma pare che in ambito europeo si prepari un’altra figuraccia per l’Italia.
O per la Corte europea dei diritti dell’uomo, naturalmente. Perché smentire quanto scritto a novembre significherebbe violare principi lì dichiarati fondativi della stessa idea di un’Europa laica.

Siamo sicuri di volere una Chiesa povera?


Non so più dove, ma potrebbe trattarsi dei Frammenti postumi del 1888 o del 1889, Friedrich Nietzsche scrive – ne do versione grossolana – che preferisce polemizzare con un cattolico piuttosto che con un protestante, e con un cattolico tradizionalista piuttosto che con uno progressista, con uno zelante piuttosto che con un aperturista, con un fanatico ultramontanista piuttosto che con un cristiano-socialista.
Come non capirlo? Quando la fede in Dio non riesce ad adeguarsi alle ultime conseguenze della sua incarnazione in Cristo e del mandato di Cristo a Pietro, si polemizza col molle che è impenetrabile, con l’eclettismo dei cristianesimi fai-da-te, con le logiche di privati catechismi stretti in trecciolina coi disturbi della personalità e del comportamento, con declinazioni psicologiche e sociologiche della fede, lungo il gradiente tra fatalismo e superstizione… Insomma, si corre il rischio di impazzire: si polemizza con uno sciame di posizioni.
Dovendo polemizzare col cattolicesimo, meglio scegliersi un avversario serio, un cattolico come-si-deve, a misura di Catechismo e di Codice di Diritto Canonico, evitando quei cattolici per-modo-di-dire, che peraltro non contano mai un cazzo nella Chiesa e regolarmente devono essere ripresi dai pastori e dai loro cani da guardia laici, per essere riportati nell’ovile dell’obbedienza.
Se devo dimostrare il crimine che la Chiesa consuma da sempre, voglio polemizzare con chi pensa che quel crimine sia un diritto sacro, così non si cincischia e arriviamo al sodo: la pretesa di asservire l’intera umanità a un unico fine, che sta già nel mezzo impiegato: ricondurre alla verità dell’incarnazione e del mandato a Pietro: voglio dire: tra un cattolico che vuole una Chiesa povera e profetica e un cattolico che la vuole ricca e prospera, non ho dubbi: il vero cattolico è il secondo. E questa era la premessa.

La convinzione che la pretesa abbia la sua ragione nella sua stessa fondazione fa della Chiesa un corpo mistico e il suo motore, sicché non c’è dubbio – non ci può essere – che legittimamente la Santa Sede Apostolica abbia bisogno di benzina. E tuttavia c’è chi – dentro e fuori la Chiesa – la vorrebbe povera, almeno per non vedersela di continuo in mezzo agli imbrogli lucrosi che ne compromettono la credibilità del magistero morale e sociale. Superfluo dire che “povera materialmente può essere una Chiesa rinunciataria, questo sì, che vive soltanto nei cuori, nello spazio individuale e comunionale, ma non in quello pubblico” (Il Foglio, 24.6.2010). E tuttavia qui siamo ancora reticenti: si sente ancora un poco di imbarazzo nel dichiarare il diritto di arricchirsi, infatti viene mischiato al dovere di farlo. Inutile polemizzare con questa posizione, meglio qualcosa di più fiero, giusto per cercare di individuare l’oggetto della fierezza.

Da un sito web gestito da cattolici tradizionalisti: “Immaginiamo una Chiesa povera... ma immaginiamolo veramente, fino in fondo! Essa di certo diventerà nel giro di qualche anno molto meno visibile sui mass media. Sarà soppiantata da altre religioni anche in occidente. Una Chiesa povera porterà a vivere delle sole offerte dei fedeli, quindi a dover rinunciare a tante opere che ora si sostengono con l’8 x 1000. Non avremo più fondi per costruire chiese nuove, ad esempio, al massimo riusciremo a riparare alcune delle vecchie, ma si sa, prima o poi ricostruire diventa più conveniente che rappezzare… Dovremo rinunciare a dare un po’ di stipendio ai nostri preti, che di conseguenza dovranno andare a lavorare per vivere e così avranno meno tempo per la pastorale. Una Chiesa povera forse sarà più evangelica, ma realisticamente perderà tanti fedeli perché verrà vista come qualcosa di troppo provocatorio, troppo diverso da ciò a cui siamo abituati. Ma diventare una minoranza, aver meno fedeli al proprio seguito significherà anche essere meno corteggiati da partiti politici e capi di Stato, che non troveranno più di grande utilità a stabilire una convergenza con le vedute del pontefice... Bene, siamo sicuri di volere una Chiesa così? Se la Chiesa fosse così, ci impegneremmo di più al suo interno o ne staremmo fuori ancora un po’ di più?”.

Cristo possedeva la tunica che portava addosso? Se dobbiamo tornare a discuterne, stavolta per Sepe come la volta scorsa per Marcinkus, lasciamo da parte la retorica de Il Foglio che cerca di dare nobiltà ai pacchi di denaro e ai milioni di metri cubi di immobili individuandone lo scopo nel tramandare la memoria di Francesco di Assisi. (Probabile che Lunardi si fosse impegnato col cardinale Sepe a imparare a memoria i Fioretti.) Meglio un cattolico come-si-deve, per il quale la Chiesa non deve essere “qualcosa di troppo provocatorio”, e che non deve proporre nulla che sia “troppo diverso da ciò a cui siamo abituati”: un sano conformismo, insomma. Una Chiesa che non perda visibilità sui mass media, che non conti sulle sole offerte volontarie, ma sappia escogitare i modi per mantenere il suo apparato, dandogli gli strumenti per vederlo sempre meno incisivo... O volete che il pontefice non sia più corteggiato da partiti politici e capi di stato? Senza potere e senza denaro come si creano le “convergenze”?
Eccoci ancora al centro esatto della questione: se il fine ultimo è sussistere, il mezzo è moralmente giustificato. Evviva. 

mercoledì 23 giugno 2010

Voglio morire





[...]


Alberto Arbasino su Pier Paolo Pasolini: “Credo che gli dispiacessero un pochino anche i miei successi con alcuni ragazzi che piacevano anche a lui. Sa, ero più giovane e carino di lui” (il Giornale, 22.6.2010).
“Anche”? In ogni “venerato maestro” rimane un po’ del “solito stronzo”.

Quando li bruciano vivi


Solo il 2,3% della popolazione indiana professa fede cristiana e solo l’1,5% è di confessione cattolica, ma Schillong, capitale dello Stato del Meghalaya, è un’eccezione: qui solo i cattolici arrivano al 70%.
Sappiamo delle persecuzioni che i cattolici devono subire dove in esigua minoranza, ma cosa devono subire dove sono in larga maggioranza? “Graffiti blasfemi su Gesù e il Papa sono apparsi questo fine settimana in varie zone, tra cui il muro di cinta del Saint Anthony College e la statua di San Giovanni Bosco, posta davanti al Don Bosco Technical Institute. […] Sotto la statua di Don Boscoè comparsa un’immagine del Crocifisso che riportava al posto dell’iscrizione INRI la cifra di 92 milioni di rupie, pari a[i] circa 1,7 milioni di euro […] concess[i] dal Governo locale per la copertura in zinco delle due scuole salesiane. [Insomma, a Schillong, i cattolici] sono accusati dalle altre comunità di godere dei favori delle autorità” (zenit.org, 21.6.2010).
A parte il fatto che con quella cifra si potrebbero ricoprire di zinco non già due ma venti scuole, a parte il fatto che si tratta di una somma enorme per le casse di uno stato povero come quello di Meghalaya, a parte il fatto che, dunque, siano abbastanza legittime le proteste delle minoranze locali che si sentono discriminate da un impiego di denaro pubblico tanto opinabile e dunque almeno sospetto, a parte tutto questo, “il portavoce della Conferenza Episcopale Indiana, padre Babu Joseph, ha dichiarato all’agenzia Fides che si tratta di «atti esecrabili, che intendono creare disordini e disarmonia nella società»”.
Sbagliano a bruciarli vivi, quando li bruciano vivi, ma come stupirsene?

Mandano a dirgli


Un editorialuccio in terza pagina, ieri, giusto per non bucare la notizia, e poi null’altro. Anche quel poco, tuttavia, basta a capire che Il Foglio non si spenderà troppo in favore del cardinale Sepe, che da subito si piglia qualche critica, perché “eccessivo” nel difendersi, inutilmente “vittimista”, col rischio di provocare “una sorta di guerra di religione”, che “in primo luogo” non è nell’“interesse della Chiesa”. È come se, attraverso Il Foglio, qualcuno volesse far sapere a Sua Eminenza che non deve esagerare, scoraggiandolo dal chiamare in causa la Segreteria di Stato: se lo fa, verrà scaricato.

“Un impegno davvero speciale”



Sfilare soldi a chi se li vuol far sfilare non configura il reato di truffa o di circonvenzione di incapace, almeno in ambito religioso e quando il credo di chi sfila abbia quel minimo di rispettabilità che, per esempio, il Papato ha saputo conquistarsi e Scientology ancora no. Del tutto legittimo, dunque, che il Papa chieda soldi a chi glieli voglia dare, ma nel darne motivo con 2 Cor 9, 13 dovrebbe avere la decenza di contestualizzare e di citare in modo corretto.
In 2 Cor 8, 1-15 (Motivi di generosità) Paolo ha spiegato le ragioni della colletta: “servizio a favore dei santi” (2 Cor 8, 4), cioè dei fratelli delle Chiese della Macedonia, che versano in “estrema povertà” (2 Cor 8, 2). La povertà è cosa santa, naturalmente, ma fino a un certo punto: in quanto “delegati delle Chiese e gloria di Cristo” (2 Cor 8, 23), hanno diritto a un minimo di decoro. “L’adempimento di questo servizio sacro non provvede solo alle necessità dei santi” (2 Cor 9, 12), ma avrà un suo ritorno: “Essi ringrazieranno Dio per la vostra obbedienza” (2 Cor 9, 13), che nella citazione salta, e poi, sì, anche “per la generosità della vostra comunione con loro” (2 Cor 9, 13). La vostra generosità è un obbligo.
“Un impegno davvero speciale”, dunque? No, siamo alla forma light della riscossione della decima.

martedì 22 giugno 2010

"La faccenda nasce politica e lo rimane"



Prima che il cardinale Sepe diffondesse la sua Lettera alla Diocesi del 21 giugno avevo scritto che “la faccenda nasce politica e lo rimane”. Bene, fa piacere sapere che Sua Eminenza è d’accordo: quando c’è coincidenza di analisi tra uno dei più autorevoli principi della Chiesa, come lui, e uno dei più nequiziosi laicisti di questo buco del culo del mondo, come me, si offre una splendida occasione per chiarire la natura dei rapporti politici tra Chiesa e buco del culo, oltre ogni controversia.
Sua Eminenza – in pratica – dice che dovete solo fargli un pompino. Doveva dar conto alla Chiesa e la Chiesa gli ha consentito, approvato e lodato tutto. Dove stanno, di grazia, gli estremi per trattarlo come un comune cittadino italiano? Qualsiasi cosa abbia fatto, è privo di ogni responsabilità personale, tanto meno penale: va tutto rimesso ai rapporti tra Stato e Chiesa, il foro giudiziario è incompetente.
Si capisce perché l’avvocato di Sua Eminenza si esibisca in panciolle: è quello che ha fatto assolvere Alfredo Romeo (parcellona meritatissima), col cardinale Sepe si annuncia una passeggiatina (probabilmente in gratuito patrocinio, che è la migliore parcella).

Le spiegazioni offerte dal cardinale Sepe possono così permettersi la qualità d’essere semplici e il difetto d’esserlo troppo. Prendiamo “la concessione in uso di un alloggio al dott. Guido Bertolaso, la cui esigenza [gli] venne rappresentata dal dott. Francesco Silvano”: lineare, ma – a volersi porre il problema – su quale linea? Perché Bertolaso chiede casa a Silvano? Perché Silvano si sente in dovere di trovargliela? Com’è che, oltre a trovargliela, gliela si concede praticamente a gratis? Sui beni ecclesiastici vige il diritto della Chiesa di non doverne dichiarare la provenienza e di non dover darne conto dell’impiego: sono domande che non potete fare a Sua Eminenza, stronzi. Dovete pigliarvi le spiegazioni di Sua Eminenza e farvele bastare.
Per esempio: Lunardi vuol comprare casa a Roma. Ha qualche competenza in materia, insomma, non è un rosticciere di fresco arricchito, ma si innamora di una merda di immobile “che presentava, in maniera evidente e seria, segni di vecchiaia e di precarietà”, per di più “occupato da inquilini”. Valli a capire, questi tecnocrati, vanno tutti in cerca di catapecchie.
Sul verso, infatti, la faccenda è politica come sul recto: dove sta la ratio per la quale uomini della Chiesa e uomini dello Stato non potrebbero scambiarsi cortesie per mera simpatia?

Ciò detto, Sua Eminenza – e qui mi pare sia politico immenso – accetta la Croce: “Vado avanti con serenità, accetto la Croce e perdono, dal profondo del cuore, quanti, dentro e fuori la Chiesa, hanno voluto colpirmi”, e parliamo dell’essere indagato nella pienezza delle garanzie e in godimento di parecchi privilegi rispetto a un povero cristo, prima di tutto il non poter essere rinviato a giudizio, tanto meno condannato, men che mai carcerato. La metà della metà della metà di tutto questo solleverebbe questioni di squisita natura politica, il giudice nasce suicidato.

lunedì 21 giugno 2010

Nonostante Google Maps


“Su una carta stradale due località sono distanti 3 cm. Sapendo che la scala della carta è di 1:1.500.000, a quale distanza si trovano le due località?”. Basta moltiplicare 1.500.000 per 3 e dividere i 4.500.000 cm per i 100.000 cm di cui è fatto un km. Una moltiplicazione e una divisione, uno studente di terza media non dovrebbe trovare difficoltà. E tuttavia il Post commenta: “Sì, si fanno ancora domande del genere nonostante Google Maps”.
Ma si può essere così coglioni e passare per il non plus ultra della blogosfera?



Postilla
Non è tutto. “Il signor Carlo scende dal tram all’incrocio di via Micca con via Bertola (vedi asterisco). Percorre 200 metri di via Bertola e all’incrocio con via 20 Settembre svolta a sinistra; dopo aver camminato per 150 metri, raggiunge l’incrocio con via Micca. Da lì decide di tornare al punto di partenza per via Micca. Quanti metri all’incirca percorre al ritorno?”.


Come è evidente dalla mappa allegata, si tratta di calcolare l’ipotenusa tra due cateti di 150 e di 200 metri. Ma anche questo pare troppo difficile a il Post, perché l’ironico commento alla presunta difficoltà del quesito è: “Una seconda domanda la aggiungiamo noi: qual è la città in cui sta passeggiando il signor Carlo?”. Nessun problema con Google Maps: è Torino.

Così, tanto per dire


Codice di Diritto Canonico del 1917, Can. 1518: “Il Romano Pontefice è amministratore e gestore di tutti i beni ecclesiastici”.
Codice di Diritto Canonico del 1983, Can. 1273: “Il Romano Pontefice in forza del primato di governo è il supremo amministratore ed economo di tutti i beni ecclesiastici”.
E dunque facciamo meno gli stronzi, signori della Curia, ché il Papa non poteva non sapere.

Genealogia della cricca (I)



Alberto Ronchey scrive che “niente obbligava le autorità italiane a disporre opere pubbliche come quelle pretese dalla controparte vaticana in vista del Giubileo”, e come esempi cita “il temerario sottopasso di Castel Sant’Angelo e il raddoppio della galleria Principe Amedeo come il parcheggio da scavare sotto il Gianicolo e altro ancora” [1]; e cita “Concordato tra Chiesa e Stato del 1929, primo articolo, secondo comma” [2] e “Concordato del 1984, secondo articolo, quarto comma” [3] per far presente che allo Stato non toccava alcun obbligo di spesa.
E però sappiamo che il denaro pubblico è per sua natura smanioso di finire nelle tasche dei furbi e cerca occasioni di grandi opere, che necessitano di grande spesa: più grossa è la spesa, più cresce la smania, più furbi la soddisfano. O riduciamo al minimo il denaro pubblico, e impariamo ad essere liberali, o ammazziamo i furbi, e ci facciamo giacobini, oppure – e questa è la tipica soluzione all’italiana – cerchiamo di prendere la cosa come naturale, da governare entro i limiti di una normale corruzione di fondo, redarguendo qua e là gli eccessi di avidità, favorendo nei limiti del possibile una fertilità del sistema di corruttela, fino a capillarizzarla in familismo amorale, passando per l’amor di campanile…

Scusate, mi stavo facendo prendere dall’entusiasmo, è che venivo fresco fresco dalla lettura di un manifesto di questa terza via all’italiana: “Per parafrasare l’epico [epico] gesto di Craxi alla Camera nell’aprile del 1993, quando chiese ai deputati di alzare la mano se in grado di giurare che i loro partiti non erano mai stati finanziati in modo irregolare o illegale, permettetemi di dire: alzi la mano quel sindaco, quel pubblico amministratore, quel funzionario di destra, di centro, di sinistra, del sud e del nord, d’Italia o d’Europa, che non abbia favorito lobbies di potere nel settore amministrativo di sua pertinenza e non ne abbia ricevuto in cambio favori, in convergenza di interessi legale, magari, ma certo secondo questo metro non legittima. Alzi la mano che gliela taglio. [In pratica: così fan tutti, ergo è cosa naturale. E tuttavia, sì, converrà che la corruzione sia saggiamente governata.] L’unico modo di ridurre il peso delle cricche, senza pretendere moralisticamente [moralisticamente] di eliminarle, è una legislazione semplificata e severa, una buona cultura del pubblico capace di imporre il disprezzo invece dell’ammirazione per i comportamenti antisociali, un esercizio decisionista dell’autorità sotto la sorveglianza della stampa e dell’opinione pubblica. [E la legge-bavaglio?] La strada del terrore giudiziario, della forzatura di legalità, porta – come avvenuto per le inchieste sulla corruzione di Milano – in un vicolo cieco. O peggio” [4].
Sì, ma peggio per chi? Per chi né vuole prevenirla, né vuole eliminarla, la corruzione. Per chi la ritiene fisiologicamente sostenibile, se funzionale alla fisiologia del sistema. Tutt’è prendersi cura del sistema.

E guardiamolo da vicino, il sistema. Almeno in quel braccio mosso dalla leva del Giubileo del 2000: “Non si conquista la rielezione a sindaco di Roma senza rapporti stretti con il Vaticano,il Vicariato, lo stesso Papa che concede una visita benedicente in Campidoglio, l’influente cardinale Silvestrini che ha benedetto le nozze in chiesa di Francesco Rutelli e consorte dopo nove anni di unione civile, il volontariato cattolico e le associazioni confessionali di base. Certo, le alte sfere vaticane chiedevano all’amministrazione capitolina grandi lavori pubblici per il Giubileo e il sindaco ha potuto mantenere solo in minima parte le sue promesse. Ma l’intesa, malgrado il malumore di qualche inflessibile prelato, resiste a qualsiasi prova o disavventura. […] Il sindaco rieletto viene anche nominato Comitato straordinario del governo a Roma per il Giubileo” [5].

Il braccio della leva va articolandosi attorno a Rutelli: “Sono le grandi opere per l’Anno Santo la fucina da cui nasce il «sistema Balducci». All’epoca del Grande Giubileo del 2000 Angelo Balducci, Gentiluomo di Sua Santità e consultore del dicastero vaticano delle Missioni, è provveditore alle opere pubbliche del Lazio e lavora in stretto coordinamento con il commissario straordinario per il Giubileo, Guido Bertolaso. Entrambi hanno come riferimento il sindaco di Roma, Francesco Rutelli, regista laico dell’Anno Santo e il suo «omologo» nei Sacri Palazzi, Crescenzio Sepe, segretario generale del Comitato organizzatore del Giubileo. A completare la «task-force» rutelliana per l’Anno Santo sono gli attuali parlamentari Paolo Gentiloni e Luigi Zanda” [6].

“Niente obbligava le autorità italiane a disporre opere pubbliche come quelle pretese dalla controparte vaticana in vista del Giubileo”, scrive Ronchey, ma “alzi la mano quel sindaco, quel pubblico amministratore, quel funzionario di destra, di centro, di sinistra, del sud e del nord, d’Italia o d’Europa, che non abbia favorito lobbies di potere nel settore amministrativo di sua pertinenza e non ne abbia ricevuto in cambio favori”, alzi la mano, e c’è un arcitaliano che gliela taglia. La leva è naturale e il braccio, poi, può tornare utile di sindaco in sindaco, di amministratore in amministratore, di funzionario in funzionario – di destra, di centro, di sinistra, che importa? – nell’autoperpetuarsi del sistema.  



[1] Alberto Ronchey, Accadde a Roma nell’anno 2000, Garzanti 2000 – pagg. 19-20
[2] “In considerazione del carattere sacro della Città Eterna, sede vescovile del Sommo Pontefice, centro del mondo cattolico e meta di pellegrinaggi, il Governo italiano avrà cura di impedire in Roma tutto ciò che possa essere in contrasto con detto carattere”.
[3] “La Repubblica italiana riconosce il particolare significato che Roma, sede vescovile del Sommo Pontefice, ha per la cattolicità”
[4] Giuliano Ferrara, Il Foglio, 21.6.2010
[5] Alberto Ronchey, op. cit., pagg. 23-24
[6] Giacomo Galeazzi, La Stampa, 13.2.2010